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PubblicatoGiulia Bartoli Modificato 8 anni fa
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la prima è una globalizzazione ante litteram che, tra 1840 circa e 1914, consente una circolazione internazionale dei fattori mobili (capitale e lavoro) e delle merci sostanzialmente libera e resa fluida da più agevoli comunicazioni e da costi di trasporto eccedenti.
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La seconda, tra 1914 e 1945, inverte la direzione di marcia, spingendo verso una progressiva dis- integrazione dell’economia mondiale. Due grandi guerre, una crisi economia epocale, la contrazione degli scambi commerciali e politiche ostili all’immigrazione ne sono il compendio.
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La terza fase ripristina, in un quadro geoeconomico e istituzionale mutato, molte delle condizioni di libertà che avevano caratterizzato la globalizzazione “storica”.
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La sfida che il paese intraprende, dopo l’Unità, può essere sintetizzata nella rincorsa verso i livelli di benessere raggiunti dalle economie più industrializzate (catching up), rincorsa il cui esito positivo non è affatto scontato. L’ITALIA SI AVVIA ALLO SVILUPPO ECONOMICO
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L’esodo di grandi masse di popolazione non può non aver influenzato, poco o tanto che sia, i parametri vitali della popolazione italiana, la nuzialità, la natalità e la mortalità, e dunque la dinamica stessa della popolazione.
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L’emigrazione temporanea può deprimere la natalità sia nel breve periodo sia nel lungo periodo. La mortalità può essere tirata dall’emigrazione di massa in una direzione o in quella opposta: può crescere per patologie urbano-industriali inoculate da rimpatriati in cattiva salute presso collettività prove di difese immunitarie; ma può deprimersi per i miglioramenti del tenore di vita che le rimesse consentono.
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TONIOLO “si può stimare che per ogni lavoratore che lascia l’aricoltura per l’industria italiana ve ne siano due che vanno a lavorare nel settore moderno all’estero. Ciò consente all’Italia di accellerare il processo di transizione economica enormemente rispetto ai tempi che avrebbe avuto in assenza di un dinamico mercato internazionale del lavoro”
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Ma veniamo alla microeconomia delle rimesse… La teoria e la contabilità dello sviluppo economico indicano che i processi di crescita sottostanno a un vincolo di bilancia dei pagamenti, soprattutto nella fase del decollo. È la fase critica del processo di industrializzazione, nella quale il sistema è sotto sforzo e ha bisogno di importare merci (e spesso anche capitali), ma non ha ancora la forza di esportarne in ugual valore. L’Italia realizza questo periodo in una condizione di privilegio, potendo contare su saldi attivi grazie in particolare alle rimesse degli emigrati, ai noli marittimi e ai diritti postali, tutti fenomeni legati all’emigrazione.
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Dei venti quinquenni che vanno dal 1861 al 1965, quasi la metà (9) registrano un livello delle rimesse superiore o quasi equivalente al deficit commerciale. Ogni onda di sviluppo dell’economia italiana ha potuto beneficiare di una precedente fase di crescente copertura del deficit merci con rimesse degli emigrati Ogni fase di crescita economica, infatti, è accompagnata o si chiude con un deficit commerciale crescente: nel 1883-87, nel 1896- 1913, nel 1922-26, nel 1955-63. Cattiva dotazione di risorse naturali (materie prime energetiche e non, in primo luogo), modello e fasi iniziali dello sviluppo determinano così una elevata elasticità delle importazioni rispetto ai ritmi di crescita della produzione.
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Durante il decollo giolittiano, in particolare, l’ «arma segreta» consente parecchie cose, oltre che sanare il deficit commerciale: ricomprare debito pubblico collocato all'estero, assorbire modeste quantità di titoli esteri, rimpinguare le riserve auree, praticare una politica monetaria in grado di proteggere il sistema finanziario italiano dai colpi della crisi monetaria internazionale del 1907.
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LE AMARE CONCLUSIONI Nel secondo dopoguerra, come è noto, alle rimesse dall’estero si aggiungono quelle che provengono da Milano, Torino o Genova, ma il quadro, perlomeno nelle regioni meridionali, non sembra granchè mutato. Una inchiesta della metà degli anni settante in 15 comuni delle province di Enna e Caltanissetta attesta che il 70,9% delle famiglie ha bilanci familiari che accolgono rimesse. Una metà viene impiegata in consumi correnti(alimenti, vestiario, ecc.) e il resto risparmiato(solo l’8% delle famiglie non risparmia nulla). Un terzo delle famiglie usa questi risparmi per acquistare beni di consumo durevoli(elettrodomestici), mentre il 45% li investe in case e terreni. Continua …
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La struttura degli investimenti assomiglia abbastanza a quella di 70 anni prima, ma con minor affezione per la terra: il 60% in case, il 16,7% in spese per matrimonio, il 12,1% in terra, l’11,2% in attività extraagricole. A Campobello di Mazara si sono costruite più case tra il 1960 e il 1970 che nei quarant’anni precendenti e il 35,4%, probabilmente il vecchio patrimonio edilizio sostituito dal nuovo, risulta non occupato nel 1971. L’84% delle famiglie giudica positivamente l’uso che ha fatto delle rimesse e solo poche si rendono conto che il miglioramento delle condizioni di vita è transititorio e che le rimesse non hanno modificato l’assetto economico generale dei luoghi. Sara Longo 3° D
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