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La parabola umana e culturale di Giacomo Leopardi
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La vita Nasce nel 1798 a Recanati, borgo chiuso e retrivo dello stato pontificio, dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. La sua è una delle famiglie più illustri della nobiltà marchigiana, ma l’assottigliarsi del patrimonio familiare implica una rigida amministrazione di cui si occupa la madre, donna rigida, bigotta e formalista, da alcuni definita addirittura anaffettiva. Il piccolo Giacomo trascorre un’adolescenza appartata, senza rapporti con l’esterno e con una vita sentimentale fatta di rapporti immaginari o sublimati (cugina Gertrude Cassi, “Il primo amore”) Sono questi gli anni dei famosi “Sette anni di studio matto e disperatissimo”, trascorsi tra le mura della biblioteca paterna, fornita di ben volumi, che minano il suo fisico e la sua salute.
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L’ERUDIZIONE Sono questi gli anni che lui poi definisce come la fase dell’erudizione: impara e traduce da solo il greco e l’ebraico e scrive saggi, traduzioni, poesie, tragedie, che dimostrano la sua precocissima quanto enciclopedica erudizione. Storia dell’astronomia, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi… Politicamente condivide ancora l’orientamento reazionario, seppure sottile e raffinato, del padre.
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DALL’ERUDIZIONE AL BELLO
Cambiano le sue letture: ai filosofi illuministi e alla letteratura classica e neoclassica aggiunge Dante, Goethe, I canti di Ossian, Alfieri, Foscolo. Inizia un’amicizia, soprattutto epistolare, con Pietro Giordani. Cerca di partecipare al dibattito tra classicisti e romantici: Lettera ai sigg. compilatori della biblioteca italiana (1816); Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica (1818); compone canzoni patriottiche: All’Italia, Ad Angelo Mai, sopra il monumento di Dante. 1819 Sempre più oppresso dall’angusto ambiente recanatese (natio borgo selvaggio; tomba dei vivi) tenta una patetica fuga.
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TRA FINITO E INFINITO: UNA DOMANDA INTENSA E PROFONDA
“Tutto è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella delle altre cose” (Zibaldone, n.29) Sono parole che Giacomo Leopardi scrive a vent’anni. E precisa poco dopo che noi uomini siamo “miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti” ; “una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici” (Ibid., n. 40) “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali” (Pensieri, n.LXVIII) “accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia”; ma proprio in questa consapevolezza consiste per Leopardi “il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana”.
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La sua opera è tutta pervasa da questo inesplicabile ma insopprimibile desiderio di un “oltre”, da questa ansia di infinito, ma la concezione materialistica e sensistica di cui è imbevuto e il cristianesimo, potremmo dire quasi patologico e bigotto, che gli viene testimoniato dalla madre impediscono che a questo infinito si possa dare un nome e un volto.
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PRIMI IDILLI - ZIBALDONE
Il desiderio di felicità, l’insoddisfazione, l’infelicità, il dolore, la noia, le domande che si pone diventano uno straordinario strumento di analisi del mondo e della vita. Sono anni di intensa creatività: vedono la luce i primi idilli (INFINITO, BRUTO MINORE, ALLA SUA DONNA), comincia a comporre lo Zibaldone.
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TUTTO IL MONDO E’ UNA GRANDE RECANATI
Nel 1822 finalmente può recarsi a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Vi rimarrà fino al 1823. Grande delusione: trova la mondanità dei salotti romani mediocre, insulsa e vuota. Unica emozione la visita al sepolcro di Tasso. Torna a Recanati con la consapevolezza che tutto il mondo è una grande Recanati e che quel senso di malessere e noia investe tutto il mondo dei vivi.
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DAL BELLO AL VERO Cadute le illusioni della giovinezza, in questo periodo è come se la vena poetica si inaridisse o meglio sente di aver bisogno di prosa più che di poesia, per poter riflettere a fondo sul significato dell’esistenza. Dal 1824 inizia a lavorare sulle Operette morali
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Dal 1825 si reca a Milano per svolgere un commento alle rime del Petrarca ed un’antologia della letteratura italiana per conto dell’editore Stella. Poi si reca a Bologna per stampare le prime raccolte delle sue opere. Nel 1827 si stabilisce a Firenze dove entra in contatto con gli intellettuali liberali dell’Antologia del Viesseux. Tra il ‘27 e il ‘28 è a Pisa: la mitezza del clima e la tranquillità economica favoriscono la ripresa della vena poetica che non si interrompe nemmeno in quei sedici mesi di orribile notte in cui torna a Recanati per la morte del fratello. Nascono in questo periodo i grandi idilli o canti pisano-recanatesi: A SILVIA, LE RICORDANZE, IL SABATO DEL VILLAGGIO, CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA…
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1830: accetta dagli amici fiorentini un assegno mensile in cambio di collaborazioni critico-letterarie, così può lasciare definitivamente Recanati. Conosce Manzoni, Sthendal e partecipa attivamente ai dibattiti politici e alla vita culturale e sociale. Stringe amicizia con un giovane esule napoletano, Antonio Ranieri. Prova l’unica passione amorosa reale della sua vita per Fanny Targioni Tozzetti, dalla cui superficialità rimane profondamente deluso. A lei dedicherà infatti il Ciclo di Aspasia, proprio pensando alla donna ateniese famosa per le sue frequentazioni intellettuali, ma anche per i suoi facili costumi. Fanno parte di Aspasia: A SE STESSO, IL PENSIERO DOMINANTE, CONSALVO, AMORE E MORTE… 1835: si trasferisce a Napoli con Ranieri, sperando che la mitezza del clima migliori le sue condizioni di salute. 1836: a Torre del Greco compone la Ginestra; morirà a Napoli nel 1837.
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PESSIMISMO STORICO E PESSIMISMO COSMICO
L’umanità ai suoi albori era felice: gli uomini vivevano a stretto contatto con la natura che, come una madre benigna, li aveva dotati della capacità di immaginare e di sognare propria dell’età infantile. Le illusioni spingevano gli uomini a gesti eroici, perciò essi avevano una vita attiva e non provavano mai la noia. Nell’evoluzione della civiltà la ragione ha cancellato le illusioni ed ha svelato la grigia realtà. IL PESSIMISMO PERCIO’ E’ STORICO E DIPENDA DALLA CORRUZIONE DELLO STATO DI NATURA AD OPERA DEL RAZIONALISAMO. L’INFELICITA’ NEL MONDO ANTICO ERA LA CONDIZIONE SOLO DI POCHI ANIMI SVENTURATI (SAFFO), MENTRE NELL’EPOCA MODERNA E’ UNA COSTANTE. Leopardi stesso mette in discussione la sua teoria per i seguenti motivi: la teoria del pessimismo storico sembra condannare la ragione e questo, per un razionalista convinto, non è possibile; La teoria del pessimismo storico sembra inoltre rimettere in campo una visione provvidenzialistica (madre benigna) e antropocentrica dell’universo; invece la visione meccanicistica, cui l’autore filosoficamente aderisce, concepisce la realtà come un enorme meccanismo che funziona seguendo leggi fisiche (Dialogo della Natura e di un Islandese).
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UNA NATURA MATRIGNA PARTORISCE GLI UOMINI IN UN CONTESTO OSTILE CHE NON E’ INTESO A PROCURARE LORO LA FELICITA’ MA SEGUE SPIETATE LEGGI FISICHE. GLI UOMINI DEVONO ESSERE SOLIDALI TRA LORO PER FRONTEGGIARE GLI ATTACCHI DELLA NATURA (GINESTRA). LA PARABOLA DI LEOPARDI E’ TUTTA GIOCATA IN QUESTA SORTA DI DIALETTICA , IN QUESTA PERENNE TENSIONE TRA FINITO (VISIONE A CUI FILOSOFICAMENTE ADERISCE) E INFINITO (DESIDERIO CHE ONTOLOGICAMENTE RICONOSCE COME COSTITUTIVO DELL’UOMO IN QUANTO TALE) E CHE PERVADE TUTTA LA SUA OPERA. …”Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”
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