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EDUCAZIONE FAMILIARE IN MUSICA
Massimiliano stramaglia AMORE È MUSICA. GLI ADOLESCENTI E IL MONDO DELLO SPETTACOLO, SEI, TORINO, 2011
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PEDAGOGIA DELLA MUSICA E DELL’ADOLESCENZA
«Gli adolescenti del nostro tempo, appena al passaggio della soglia tra preadolescenza e adolescenza piena, sono immersi» nello «spettacolo. Si tratta dello specchio» tipico «di una società» incerta «in cui è» sempre più «difficile separare bisogni fondamentali e desideri onnipotenti». Lo spettacolo può così divenire, «per gli adolescenti di oggi» tra i meno “attrezzati” affettivamente, «il nuovo principio di realtà» (Elena Visconti). I mondi musicali e spettacolari attraversati dai soggetti in fase di crescita possono tuttavia rivelarsi, laddove “ascoltati”, luoghi possibili di incontro tra le generazioni: se l’assetto sociale obbedisce al fenomeno dell’adolescentizzazione culturale, il genitore educato a preservare l’immagine interiorizzata di Sé come adolescente, e ad agire le proprie parti adolescenziali senza però smarrire le coordinate di un adeguato comportamento di ruolo (dalla funzione autorevole di guida e di sostegno alla presenza significativa ma non intrusiva), può contribuire a “dare voce” all’adolescente interno senza compromettere la qualità di efficaci interventi educativi. Occorre seguire «da vicino», e con amore, gli «interessi» artistici dei figli: dalla musica al teatro, dalla danza ai concerti pop e rock» (Giovanni Bollea). «Se questo non fosse possibile, che vi sia almeno un minimo di contatto colloquiale che dimostri il proprio aggiornamento su questo o quel tema: può diventare», se desiderato, «uno straordinario espediente di comunicazione affettiva e mentale» (Ibidem).
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MUSICA E CREATIVITÀ ADOLESCENZIALE
Di recente, Philippe Gutton ha definito l’adolescenza un «atto di creazione» e un’«esperienza di creazione». Egli adopera il termine “creazione” quale sinonimo di «creatività adolescente», non di “opera d’arte”, soffermandosi su «la capacità immaginaria di tutti gli adolescenti, e le messe in scena con cui si cimentano in questo periodo della vita. Quando esse non sono possibili, o non lo sono in modo sufficiente, sopravvengono e s’insediano tristezza e desolazione, alimentando tutta una serie di disturbi più o meno gravi e più o meno patologici». Nell’inedita prospettiva dello psichiatra francese, la “crisi” adolescenziale è dovuta in massima parte alla repressione adulta della creatività adolescente (da non confondersi con la necessaria educazione, da parte delle figure di riferimento, alla sessualità), e non al sorgere incontrollabile del peculiare “genio creativo”: se l’artista adolescente è libero di gratificare la «compulsione che lo spinge a creare», se è riconosciuto dal padre e dalla madre in quanto “adolescente”, ciò gli permetterà di «elaborare e definire la sua identità ancora sospesa». Alle origini dell’opera d’arte, o della creazione, vi è una discrasia tra passato e futuro, un radicarsi tra le pieghe in-audite del presente. Anche la creatività adolescenziale è una messa in forma (ordine) del dolore (caos): Gutton descrive il processo di strutturazione identitaria dell’adolescente come «trasalimento doloroso della creazione».
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In questi termini, «la caducità» è «l’affetto originario della creazione adolescente», e l’«opera riflette la malinconia che crede di nascondere»: la nostalgia della madre. Anche secondo Gutton, l’adolescente si muove tra le memorie, percepite o narrate, della qualità del rispecchiamento materno (ri-sonanza), e il bisogno di rispecchiamento sociale, il quale genera da una ulteriore necessità di autoaffermazione. «La creazione è prima di tutto l’arte di mettersi davanti a se stessi, di aggiustare lo specchio». Le popstar incarnano massimamente il sentire creativo adolescente. Esse formano il gusto delle nuove generazioni: sono famose, hanno un repertorio musicale assortito, e riscuotono consensi. Ciò non significa, tuttavia, che il pop sia necessariamente da ritenersi un genere musicale omologante. L’adolescente, infatti, è ri-creativo: anche nella mera «imitazione» delle «vedettes», contrariamente a quanto scrive Gutton, attua una ricerca profonda di «identificazione». In una società che ha paura di invecchiare, e che esorcizza la morte attraverso il mito del corpo adolescente, più spesso, gli idoli della musica e dello schermo, le popstar, sono “immagini mentali” maggiormente accessibili di una famiglia che non c’è.
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LA POP CULTURE COME COLLAGE ESISTENZIALE
“Cultura pop” non è da intendersi quale sinonimo di cultura popolare, ma di “cultura di massa”. Mentre la cultura popolare comprende tradizioni, norme, festività e ritualità di natura folcloristica, storicamente sedimentate e condivise all’interno di uno specifico contesto geografico o territoriale, la cultura di massa risponde a una logica di mercato e si sviluppa trasversalmente alla diffusione dei mezzi di comunicazione per divenire patrimonio di certa cultura giovanile, a partire dalla musica dei Beatles (anni Sessanta). La pop culture è un macrosistema complesso e articolato di “riferimenti” a personaggi mediatici, serie televisive, programmi TV, battute cinematografiche, spot pubblicitari, brani musicali, prodotti commerciali, cartoons, che spazia, dunque, «da Raffaella Carrà ai Simpson» (Lucio Spaziante). Si tratta una non-cultura ufficiale (cultura dello svago) divenuta, nel tempo, subcultura giovanile: un reticolato affettivo nel quale si rinvengono, di nodo in nodo, tracce di storie personali e generazionali. La pop music è uno spazio simbolico di propagazione della pop culture. «I testi pop si comportano» appunto «come versioni sempre ritraducibili di un mito collettivo» (Ibid.), che procede dalla sacralità dell’esperienza infantile all’adolescentizzazione del mondo adulto.
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Secondo l’autorevole opinione di Richard Middleton, l’universalismo (o infantilismo) del testo pop funziona un po’ come l’immagine di un adolescente allo specchio. «Nella maggior parte dei casi, il linguaggio usato è un linguaggio quotidiano, trito, familiare, pieno di luoghi comuni, anche se può essere riassemblato in nuove combinazioni. Il punto è quello di “sfamiliarizzare il familiare”, di investire il banale con forza affettiva e grazia cinetica», di personalizzare i «processi musicali». Un rilievo assai importante, sia perché le «parole preferite» dagli adolescenti, e tra gli adolescenti, «prendono spunto da quelle dell’infanzia tra fratelli o con i genitori» (Philippe Gutton), sia perché molti «adolescenti amano fare dei loro genitori, dei fratelli, della famiglia tutta intera un’opera d’arte». L’amore adolescenziale per la musica pop e per la pop culture (prolungamento del mondo dello spettacolo) esprime il bisogno più profondo di madre, di intimità familiare, e il correlato bisogno di una “nuova famiglia”: è questa l’essenza più intima dell’ascolto, della produzione e della fruizione giovanili. Il pop è cerniera, linea di confine, tra infanzia ed età adulta. «Nei percorsi formativi dei giovani perciò non deve mancare lo spazio per un confronto intelligente e critico con i testi delle canzoni» (Pino Fanelli), da attivarsi da parte del padre e della madre già in età preadolescenziale.
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L’AUTOBIOGRAFIA MUSICALE
La musica, più di ogni altra forma d’arte, è nostalgia dell’essere. Dare forma e colore a tale nostalgia è l’esperienza autentica, sonora, del raccoglimento: persino le grandi opere d’arte, per l’estimatore sensibile, ri-suonano. L’arte, tuttavia, consola, carezza, ma non cura: se fosse realmente curativa, non sarebbe arte. Se l’artista divenisse, d’un tratto, “savio” (se non avesse più “cose da dire”), non avrebbe motivo di creare. Dal punto di vista musicologico-musicoterapico, si opera una distinzione tra identità sonora e identità musicale individuale. L’«identità sonora» (Rolando Benenzon) racchiude «i nostri archetipi sonori, il nostro vissuto sonoro intra-uterino e il nostro vissuto sonoro della nascita, dell’infanzia fino alla nostra età attuale» (Ibid.). L’«identità musicale individuale», scrive Luca Marconi, «si riferisce» invece «a quel sistema di potenzialità nei confronti della musica che fa parte del più ampio sistema di potenzialità comportamentali ed esperienziali che distingue ogni essere umano dai suoi simili». Sia l’identità sonora che l’identità musicale individuale crescono con la persona: la prima è prerequisito della seconda; la sonorità, in altri termini, può tradursi in musicalità.
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Ma l’adolescente, come più volte constatato, non è soltanto “suono”: egli è anche immagine, rappresentazione, teatralità, spettacolo. «Per senso della teatralità si intende la capacità sia di comprendere sia di produrre comunicazioni in cui domina l’intenzionalità di rappresentazione e simulazione della realtà» (Carmen Belacchi); capacità che, in adolescenza, è sostanzialmente modalità dell’appartenersi. Il binomio musicalità-teatralità è all’origine del successo della pop music: i cantanti pop, spesso, non sono veri e propri musicisti, e non hanno alcuna, specifica, competenza musicale, ma sono personaggi il cui corpo, la cui immagine, il cui stile teatrale, sono a volte più importanti della voce, della ri-sonanza, del suono-per. Come per un adolescente. L’autobiografia musicale (Maurizio Disoteo-Mario Piatti), oggettivando il nucleo identitario sonoro e musicale (come un vero e proprio “specchio”), può così divenire, per l’adolescente, non solo storia della colonna sonora, delle coloriture e delle tonalità affettive che caratterizzano il proprio sentire e le interazioni con i pari, ma “messa in opera” della ricerca della madre. Del “volersi bene”. Della tenerezza-per-Sé.
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LA «MUSICOTERAPIA» FAMILIARE
La musica può senz’altro costituire un utilissimo strumento terapeutico ed educativo per le moderne famiglie “affettive”, governate dal codice materno (assenza della norma) e dall’orizzontalismo comunicativo (patologia delle relazioni sistemiche), soprattutto nei casi, sempre più diffusi, di “cristallizzazione” dei ruoli parentali (con il risultato di figli “eterni bambini”). Adottata originariamente per il trattamento dell’autismo infantile, la musicoterapia (delle relazioni familiari) potrebbe oggi individuare, mediante forme partecipate o laboratoriali e in presenza di esperti qualificati, le «cisti di comunicazione», o «forme ripetitive di messaggi ed espressioni, che i genitori usano» con l’adolescente-problema «e delle quali non sono coscienti» (Rolando Benenzon). Attraverso l’utilizzo di «tecniche non verbali», si potrebbero così rimuovere le comunicazioni familiari verbali che inducono i figli adolescenti alla reiterazione del problema, o del Sé-come-problema.
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L’EDUCAZIONE DEL TALENTO
Una società del mero apparire e dell’immagine, in cui il prestigio personale sia legato alla messa in scena di una celebrità senza doti, non educa alla nascita sociale. Le famiglie, in siffatti frangenti, non solo debbono farsi più presenti, ma orientare le nuove generazioni al sogno praticabile. «Aiutare i ragazzi a definire, limare, ma anche arricchire i propri sogni vuol dire spingere a crescere, non perché i sogni e i desideri si debbano lasciare all’infanzia e all’adolescenza, ma per affinare la capacità di reggere alle suggestioni per vivere più intensamente e coscientemente il tempo della vita» (Enza Corrente Sutera). Occorre individuare disposizioni e coltivare talenti, e un compito di tale portata è primariamente un mandato parentale. Il talento, infatti, come qualsivoglia oggetto di educazione o fine educativo, è appannaggio della famiglia. L’etimologia del verbo “educare” risponde agli archetipi (alla storia) del padre e della madre: educare il talento è “far uscire” (ēdūcĕre) – padre ostetrico – e, al contempo, “coltivare” (ēdŭcāre) – madre curante – il “talento”, ovvero la “misura” (tălentum).
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Il talento, secondo siffatta specificazione, non è la risultante passiva di un innatismo spontaneistico, ma l’esito di un determinato intervento educativo da parte del padre e della madre, in prima battuta, e del padre e della madre simbolici, o degli educatori, in una fase ulteriore. La “pre-disposizione” è «una forza potenziale» (Géza Révész). Il termine «“talento” indica», piuttosto, «delle capacità di prestazione» maturate nel tempo «in un particolare settore dell’attività» (Ibid.) umana, o culturale.
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“Talento”, in sintesi, è sapere e sapere fare: è la misura, la tecnica, alla base dell’educazione della disposizione. Emmanuel Mounier individua proprio nella cura della vocazione filiale il fine precipuo dell’educazione familiare. In riferimento alla figura del figlio, egli scrive: «La famiglia non ha altra missione che quella di tutelare la sua vocazione». Se il talento è la misura dell’essere, di ciò che siamo stati e di ciò che siamo, educare il talento è educare a ben-esserci: a essere-in-Sé, a ri-suonare nella propria essenza, a “dare forma” a tale ri-suonare, per abitare autenticamente il mondo.
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