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Elementi di linguistica sarda
Giovanni Lupinu Facoltà di Lettere e Filosofia Università degli Studi di Sassari Lezione n. 8
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I più antichi documenti in sardo
Il sardo appare per la prima volta in documenti scritti verso la fine dell’XI sec. e, in modo più abbondante, nel XII sec.: il latino, giunto in Sardegna nel 238 a.C. con la conquista romana, si era ormai evoluto, dopo alcuni secoli e sotto l’azione di fattori diversi, in una parlata nuova. Di tale parlata abbiamo conoscenza soltanto nel momento in cui essa trova impiego anche nella comunicazione scritta: tuttavia, fissare una data di nascita per la lingua sarda è impossibile, perché in questi processi non esistono cesure nette, ma solo sviluppi graduali.
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Precoci differenziazioni dialettali
I testi più antichi in nostro possesso offrono già testimonianza, in rapporto alle regioni in cui furono redatti, di alcune differenziazioni linguistiche che prefigurano le attuali distinzioni in aree dialettali: in particolare quella fra varietà logudorese a settentrione e campidanese a meridione. Giusto per fare un esempio, mentre nei testi di area settentrionale si legge iudike “giudice”, in quelli di area meridionale compare già iudiki (col passaggio della -e finale a -i, tipico del campidanese).
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Una fioritura improvvisa di testi
Quando si affronta il discorso delle origini romanze (la spinosa questione della formazione e delle prime manifestazioni dei volgari), alcuni dati balzano all’occhio se si confronta la situazione sarda con quella delle altre nascenti tradizioni neolatine. Il dato forse più rilevante è che da subito si presenta ai nostri occhi una quantità notevole di documenti giuridici scritti interamente in sardo: è una sorta di fioritura improvvisa che fa séguito, oltre tutto, alla penuria di scritti (in latino) dei secoli precedenti.
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La “invasione” dei monaci
Questa sorta di fioritura di testi scritti si colloca, in modo probabilmente non casuale, negli stessi anni in cui la Sardegna, cessata ormai la minaccia degli Arabi e iniziata la penetrazione dei Pisani e dei Genovesi, vide l’arrivo di numerosi monaci benedettini (nei vari rami dei Camaldolesi, Vallombrosani, Cassinesi, Vittorini di Marsiglia e Cistercensi). In altre parole, sembrerebbe che i monaci abbiano giocato un ruolo attivo e importante nella creazione di tradizioni scrittorie in Sardegna.
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Posizione di rilievo del sardo
Un altro elemento degno di rilievo è che, nella produzione scritta dei centri religiosi e delle cancellerie sarde, la lingua sarda ha una posizione di grande autonomia rispetto al latino; questo accade talvolta anche in provvedimenti pubblici che coinvolgono interlocutori stranieri (vedremo, ad es., il caso esemplare del cosiddetto Privilegio logudorese). Il latino, al contrario, in altre regioni inizialmente convive col volgare, specie nelle scritture di natura giuridica: in queste gode anzi, normalmente, di una posizione di maggiore prestigio.
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Per comprendere quanto si diceva, si può pensare, ad es
Per comprendere quanto si diceva, si può pensare, ad es., alla situazione documentata nella Penisola dai Placiti campani del sec. X: in essi, all’interno di verbali di processi redatti, secondo la consuetudine, in latino, il volgare è impiegato per le formule testimoniali predisposte dai giudici al fine di registrare le deposizioni in favore dell’Abbazia di Montecassino in questioni concernenti proprietà terriere. Tutto questo non vale, in genere, per i testi sardi delle origini.
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I testi sardi, infatti: sono stilati in volgare con una frequenza inusitata rispetto al resto dell’Italia nello stesso periodo; fatte salve alcune formule fisse, sono cosa diversa rispetto a quelli per i quali è usato il latino. Inoltre, l’impiego del sardo avviene subito, e quasi contemporaneamente nei quattro giudicati (suppergiù negli stessi anni nel Logudoro e a Cagliari, con circa un trentennio di ritardo nell’Arborea, e in epoca ancora più recente in Gallura), in modo maturo, senza fasi di sperimentazione.
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Ragioni di una condizione peculiare
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quali siano le ragioni della speciale posizione di autonomia e di rilievo che il sardo assume nei primi testi. Una ragione sta nel fatto che in Sardegna il legame con la tradizione latina (che per le lingue romanze ha costituito in generale un riferimento costante, in grado di condizionare sotto diversi aspetti la loro evoluzione e la natura delle loro prime manifestazioni) si era notevolmente indebolito dopo il crollo dell’Impero romano, e forse già prima; così pure si erano indeboliti i rapporti con le altre nascenti realtà neolatine.
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Rispetto a ciò che si diceva (allentamento del legame con la tradizione latina), una conferma sta nel fatto che i primi documenti in latino, che compaiono in Sardegna negli anni Sessanta del Mille, mostrano una lingua assai scorretta e incerta, ciò che in sostanza è il segno tangibile dell’isolamento di cui si discute ora. Possiamo allora pensare che quando, nella seconda metà del sec. XI, i monaci benedettini “invasero” la Sardegna, contribuendo a promuovere una sorta di rinascita culturale, anche in relazione all’impiego della scrittura, dovettero fare i conti con la speciale situazione sociale, economica, culturale e linguistica dell’isola: evidentemente, la scelta del sardo appariva, in molti casi, obbligata.
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Utilità linguistica dei primi testi
Dal punto di vista della storia della lingua, i numerosi testi di questo periodo che ci sono pervenuti hanno grande utilità: ci consentono infatti di farci un’idea abbastanza dettagliata del sardo medioevale, ossia della fase antica di una parlata che nel panorama delle lingue romanze occupa una posizione speciale (soprattutto per la sua fisionomia arcaica e conservativa, essendo in sostanza, secondo alcuni studiosi, quella che nel complesso si è evoluta di meno rispetto al latino).
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Diversità del sardo medioevale
Il sardo medioevale, come è facile intuire e come avremo modo di vedere attraverso qualche esempio, è una lingua profondamente diversa dal sardo attuale. La ragione di tale diversità, oltreché da una molteplicità di mutamenti di ordine diverso (fonetico, morfologico etc.) imposti dal trascorrere del tempo, è data dal fatto che ancora non avevano agito sul sardo il superstrato iberico e quello italiano più recente, la cui importanza abbiamo già avuto modo di sottolineare.
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Chi, dunque, si accinga a leggere un testo sardo dell’XI, XII, o anche XIII e XIV sec., deve mettere in conto una serie di difficoltà: queste difficoltà sono offerte, oltreché da numerosi costrutti e forme oggi in disuso o sensibilmente evoluti, da una quota di vocabolario di carattere giuridico, relativa a istituti ormai tramontati (ad es. la silva, ossia la caccia obbligatoria per i sudditi in favore del giudice o di importanti personaggi), insieme a una quota di vocaboli desueti (tipo vetere per “vecchio”).
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Ritardo dei testi letterari
D’altra parte va sottolineato che il sardo, sebbene sia ricco alle origini di testi di natura giuridica (o che comunque scaturiscono da esigenze di carattere giuridico), tarderà molto a produrre scritti letterari: bisognerà attendere, infatti, sino al poemetto quattrocentesco – pubblicato solo nel 1557 – Sa vitta et sa morte et passione de sanctu Gavinu, Prothu e Januariu (“La vita, la morte e la passione di San Gavino, Proto e Gianuario”) di Antonio Cano, arcivescovo di Sassari.
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Le Carte d’Arborea A questa assenza, percepita come una sorta di mutilazione della lingua e della cultura sarde, si cercò di porre rimedio nell’Ottocento con la produzione d’una serie di falsi, le cosiddette Carte d’Arborea: con esse si voleva dimostrare che la Sardegna aveva conosciuto una tradizione letteraria anteriormente alla scuola poetica siciliana. Questo episodio ha avuto come conseguenza quella di gettare un’ombra indistinta di sospetto, non sempre giustificata, sulla documentazione sarda più antica.
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Breve bibliografia G. Paulis, Studi sul sardo medioevale, Nuoro 1997.
G. Paulis, G. Lupinu, Tra Logudoro e Campidani. I volgari sardi e le espressioni della cultura, in M. Brigaglia, A. Mastino, G. G. Ortu, Storia della Sardegna, Roma-Bari 2002, vol. II, pp
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