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Un esempio concreto: quali fonti sulle “direttive anticipate di trattamento”?
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Livello internazionale
Convenzione di Oviedo: Art. 9: I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione. Ma non è stata ratificata
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Livello comunitario Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
Articolo 3 Diritto all'integrità della persona 1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: . il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, . il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone, . il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, . il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani. Ma non è ancora vincolante
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Costituzione: art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. anche: art. 13 (la libertà personale è inviolabile) art. 2 (la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo)
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Altre fonti: Codice di deontologia medica Codice deontologico infermieri
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Codice deontologia medica (16.12.2006)
Art. 16 - Accanimento diagnostico-terapeutico – Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. Art. 17 - Eutanasia - Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte.
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Art. 35 - Acquisizione del consenso –
(…) In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente.
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Art. 38 - Autonomia del cittadino e direttive anticipate -
(…) Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato.
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Il Codice deontologico dell'infermiere (gennaio 2009)
Articolo 36 L'infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita. Articolo 37 L’infermiere, quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà, tiene conto di quanto da lui chiaramente espresso in precedenza e documentato. Articolo 38 L'infermiere non attua e non partecipa a interventi finalizzati a provocare la morte, anche se la richiesta proviene dall'assistito.
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Autonomia: punto fermo
Documentazione del consenso. Non c’è una norma specifica Nodo problematico
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Es. “caso niente sangue” (Cass. Civ. 2008)
M., nel convenire in giudizio dinanzi al tribunale di X. la locale USL n. ****, espose che, nel gennaio del 1990, in conseguenza di una serie di trasfusioni di sangue praticategli nell'ospedale di **** nonostante egli, in qualità di testimone di Geova, fosse contrario, per motivi religiosi, a tale pratica terapeutica (circostanza emergente da un cartellino, che egli portava con sé, recante la dicitura "niente sangue"), aveva subito danni morali e biologici. Di questi chiese, pertanto, l'integrale risarcimento, ivi compresi quelli conseguenti ad una infezione virale da epatite B da lui contratta a seguito del trattamento terapeutico ricevuto. La USL, nel costituirsi, osservò, in limine, che, non essendo stato possibile ottenere il consenso del paziente, era stata richiesta ed ottenuta una autorizzazione dal locale procuratore della Repubblica, e rilevò altresì, a sostegno del proprio assunto difensivo volto ad escludere ogni responsabilità dei sanitari, che il paziente era stato condotto presso il nosocomio in stato di perdita di conoscenza ed in pericolo di vita, peraltro scongiurabile attraverso una trasfusione di sangue.
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(…) a fronte di un sibillino sintagma "niente sangue"vergato su un cartellino, sul medico curante graverebbe in definitiva il compito (invero insostenibile) di ricostruire sul piano della causalità ipotetica la reale volontà del paziente secondo un giudizio prognostico ex ante, e di presumere induttivamente la reale "resistenza" delle sue convinzioni religiose a fronte dell'improvviso, repentino, non altrimenti evitabile insorgere di un reale pericolo di vita, scongiurabile soltanto con una trasfusione di sangue. (…) Con ciò non si vuole, peraltro, sostenere che, in tutti i casi in cui il paziente portatore di forti convinzioni etico-religiose (come è appunto il caso dei testimoni di Geova) si trovi in stato di incoscienza, debba per ciò solo subire un trattamento terapeutico contrario alla sua fede. Ma è innegabile, in tal caso, l'esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sè una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l'esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all'esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari.
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Cass. Civ.Sentenza n. 21748/2007 (sig.ra Englaro)
Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.
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[trattamenti che possono essere sospesi a due condizioni]
(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione
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Tribunale Roma 2006: caso sig. Welby
Il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle società culturalmente evolute; esso permette alla persona, in un'epoca in cui te continue conquiste e novità scientifiche nel campo della medicina consentono di prolungare artificialmente la vita, lasciando completamente nelle mani dei medici la decisione di come e quando effettuare artificialmente tale prolungamento, con sempre nuove tecnologie, di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi. Nel corso degli anni è profondamente mutato il modo di intendere il rapporto medico-paziente, e il segno di questa trasformazione è proprio nella rilevanza assunta dal consenso informato, che ha spostato il potere di decisione del medico al paziente, in cui quest'ultimo è diventato protagonista del processo terapeutico. Il quadro di riferimento dei principi generali si rinviene innanzitutto negli artt. 2, 13 e 32 Cost., ed abbraccia la tutela e promozione dei diritti fondamentali della persona della sua dignità ed identità, della libertà, personale e della salute.
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La giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale ha fatto emergere l'ampiezza di tale principio (…) l'imposizione di un determinato trattamento sanitario può essere giustificato solo se previsto da una legge che lo prescrive in funzione di tutela di un interesse generale e non a tutela della salute individuale e se è comunque garantito il rispetto della "dignità" della persona (art. 32 Cost.). Il principio trova riconoscimento nella Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea e nella Convenzione Europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina di Oviedo del 1997, ratificata con L. 28 marzo 2001, n. 145, nel Codice di deontologia medica, in molte leggi speciali, a partire da quella istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Il codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (art. 32) ed, inoltre, nel caso in cui il paziente non è in grado di esprimersi, la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando la ritenga "ragionevolmente utile" (art. 37). Pertanto, il principio dell'autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti sanitari può considerarsi ormai positivamente acquisito ed è collegato al dovere del medico di informare il paziente sulla natura, sulla portata e sugli effetti dell'intervento medico, che è condizione indispensabile per la validità del consenso, ed è il presupposto dialettico del rapporto medico-paziente nonché fondamento di obblighi e responsabilità di quest'ultimo; esso, tuttavia, presenta aspetti problematici in termini di concretezza ed effettività rispetto al profilo della Iibera ed autonoma determinazione individuale sul rifiuto o la interruzione delle terapie salvavita nella fase terminale della vita umana.
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Il nodo centrale è che, siccome l'ordinamento giuridico va considerato nell'intero complesso, appare non discutibile che esso non preveda nessuna disciplina specifica sull'orientamento del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell'attuazione pratica del principio dell'autoderminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o l'interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente; anzi, il principio di fondo ispiratore è quello della indisponibilità del bene vita: v, art. 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e, soprattutto gli artt. 575, 576, 577, I comma n. 3, 579 e 580 del codice penale che puniscono, in particolare, l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio. (…).
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Può, pertanto, affermarsi che il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato Nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea, nonché condiviso anche in prospettiva morale religiosa. Esso, tuttavia, sul piano dell'attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente ad "esigere" ed a "pretendere" che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita (il problema si è posto, in particolare, per l'alimentazione e l'idratazione forzate e, come nel caso di specie, per la respirazione assistita a mezzo di ventilatore artificiale), in quanto reputata di mero accanimento terapeutico, lascia il posto alla interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella definizione di concetti si di altissima contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo fra tutti la dignità della persona"), ma che sono indeterminati e appartengono ad un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall'intervento del Giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all'analogia o ai principi generali dell'ordinamento.
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