L’ipotesi del sogno: un modo per mostrare il carattere meramente rappresentativo della percezione?
“come se non fossi un uomo che è solito dormire la notte, e nei sogni provare tutte quelle immagini, e talvolta anche meno verosimili di quelle che provano costoro da svegli. Quante volte poi il riposo notturno mi fa credere vere tutte queste cose abituali, ad esempio che io sono qui, che sono vestito, che sono seduto accanto al fuoco, mentre invece sono spogliato e steso tra le lenzuola! Eppure ora vedo con occhi che sono sicuramente desti questo foglio, questo mio capo che muovo non è addormentato, stendo questa mano con pienezza di sensi e di intelletto e percepisco: chi dorme non avrebbe sensazioni tanto precise. Come se poi non mi ricordassi che anche altre volte nel sogno sono stato ingannato da simili pensieri; e mentre considero più attentamente tutto ciò, vedo che il sonno, per sicuri indizi, non può essere distinto mai dalla veglia con tanta certezza che mi stupisco, e questo stupore è tale che quasi mi conferma l'opinione che sto dormendo” (Prima meditazione).
Il senso dell’argomento: La percezione è indistinguibile dal sogno Il sogno è mera rappresentazione di contenuti Dunque anche la percezione è mera rappresentazione
L’argomento è semplice e muove da una premessa incontestabile: possiamo davvero sognare di essere svegli e qualche volta può capitarci perfino di non sapere se un qualche accadimento l’abbiamo vissuto o soltanto immaginato. Di qui la conclusione che sembra effettivamente derivare dalla premessa: questo potrebbe essere un sogno. La conclusione sembra valida, ─ ma lo è davvero? Lo è, paradossalmente, solo se non leggiamo la premessa alla luce della conclusione, perché se non ho criteri per dire che non sto sognando ora non ho nemmeno ragioni per escludere che non abbia soltanto sognato quel fatto certissimo che funge da premessa del modus ponens. In fondo, se Cartesio avesse ragione, non avremmo più un criterio per accertare un fatto qualunque e tra questi fatti vi è anche il mio aver sognato di essere seduto vicino al fuoco. Forse ho soltanto sognato di aver tante volte sognato di essere sveglio. O addirittura: forse è soltanto un sogno che si sogni. E che il sogno ci inganni. E allora tanto vale svegliarsi.
Il sogno è davvero indistinguibile dalla veglia? “quegli iperbolici dubbi dei giorni precedenti sono degni di suscitare scoppi di risa. Soprattutto quel dubbio generale riguardante il sonno, che non distinguevo dalla veglia; ora infatti comprendo che vi è una grandissima differenza tra i due, in questo: che i sogni non sono mai congiunti dalla memoria a tutte le altre azioni della vita, come lo sono le azioni che accadono a chi è desto. Infatti è certo che se da sveglio mi apparisse qualcuno all'improvviso, e poi subito sparisse, come avviene nel sogno, in modo tale che evidentemente non vedessi né da dove sia venuto, né dove vada, giustamente lo giudicherei [90] uno spettro o un fantasma formatosi nel mio cervello, piuttosto che un vero uomo. Ma quando mi si presentano quelle cose che capisco distintamente donde, dove e quando mi capitano, ed unisco la loro percezione con tutto il resto della mia vita senza nessuna interruzione, sono assolutamente certo che non mi si presentano nel sogno, ma quando sono sveglio. Della loro verità non devo dubitare anche minimamente, se dopo che ho richiamato tutti i sensi, la memoria e l'intelletto per esaminarle, da nessuno di essi mi viene segnalato qualcosa che contrasti con gli altri. Dal fatto che Dio non è fallace, ne consegue assolutamente che in tali cose non m'inganno” (Sesta meditazione).
un primo criterio: le percezioni si uniscono nell’unità di una trama coerente e intersoggettiva, laddove i sogni si perdono poco a poco a causa della loro disorganica molteplicità.
Un secondo criterio: non è solo la sintassi delle immagini oniriche che le differenzia dal corso delle nostre percezioni: anche la tessitura delle scene è diversa, e che le cose stiano così si mostra forse nella facilità con la quale parliamo di certe raffigurazioni pittoriche dicendo che hanno una dimensione onirica o che ci sembrano dei sogni
Possiamo davvero sostenere che non abbiamo criteri per distinguere sogno da veglia? Una prima risposta: Non possiamo sbagliarci sempre: in qualche modo dobbiamo pure avere appreso che cosa sia sogno e che cosa veglia e ciò è quanto dire che dobbiamo poster disporre di un insieme di esperienze paradigmatiche che ci consentano di rendere chiara la regola che ci guida nell’uso di quelle parole. Il sogno è fatto così e così la veglia, e la nostra possibilità di impiegare correttamente quelle parole poggia evidentemente sul nostro avere dichiarato implicitamente privo di senso ogni dubbio relativo a ciò che funge da metro dei nostri giudizi. Posso dubitare di molte cose e tra queste posso dubitare che ogni singola misurazione che tu mi proponi sia esatta; non posso però dubitare che ci sia un metro campione o che si usi così, come abbiamo imparato, perché un simile dubbio cancellerebbe alla radice la possibilità stessa della misurazione
Una diversa ipotesi: Un genio maligno potrebbe averci ingannato e potrebbe averci insegnato falsamente che cosa è sogno e che cosa veglia, proprio come avrebbe potuto insegnarci falsamente che cosa voglia dire sommare cinque a sette.
Un fraintendimento di natura platonica: se crediamo possibile che un genio maligno ci inganni e ci costringa a chiamare sogno la veglia e la veglia sogno è solo perché pensiamo ai concetti lasciandoci guidare dall’immagine platonica delle idee e immaginiamo che vi possa essere un significato delle parole al di là dell’uso che ne facciamo. Ma è dubbio che le cose stiano così, e se pensiamo ai concetti come a regole che sostengono i nostri giochi linguistici è fin da principio evidente che l’ipotesi del genio maligno deve essere scartata come priva di senso: non possiamo ingannarci sempre su ciò che è sogno e su ciò che è veglia perché non vi è altro metro per decidere quando impiegare queste parole che ci consenta di andare al di là delle regole d’uso di cui ci avvaliamo. E una regola d’uso può rivelarsi infelice, inadeguata o sciocca, ma non può essere vera o falsa: vere o false sono soltanto le applicazioni della regola non la regola stessa.
Ancora da capo …
Nessuno può garantirci che ora siamo svegli perché potremmo effettivamente dormire e quindi limitarci a sognare di applicare i criteri che ci permetterebbero di decidere come le cose stanno. Ma se non ho ragioni che mi consentano di credere al di là di ogni possibile dubbio che io sia sveglio, se ─ in altri termini ─ non posso escludere che ciò che mi assicura del mio essere desto è un criterio che ho applicato soltanto nel sogno, come posso liberarmi dal dubbio cartesiano? Ora credo di poter dire che sono seduto di fronte al fuoco ed anzi ne sono certo perché la mia esperienza soddisfa quei criteri che mi consentono di distinguere il sogno dalla veglia; ne sono appunto certo, ma potrei comunque sbagliarmi perché il sogno è una chiave che apre ogni porta e che rende proprio per questo vani i paletti che mettiamo per rassicurarci e per impedire l’ingresso all’errore
La domanda che si nasconde nell’argomento del sogno forse ora si mostra con maggiore chiarezza: se non posso escludere che un giorno mi accorga di avere sino allora sognato ciò accade perché non vi è un criterio che dimostri che l’esperienza ha un oggetto al di là del gioco dei fenomeni di cui consta. Per essere tacitato, lo stupore di Cartesio chiede una dimostrazione complessa: ci chiede di mostrare nell’esperienza la verità dell’esperienza stessa.
“Non devi dimenticare che il gioco linguistico è, per così dire, imprevedibile. Voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì — come la nostra vita” (ivi, § 559).
La nostra conoscenza si fonda nella vita, ma non è possibile una fondazione al di là di essa. Non vi è una fondazione assoluta. Il dubbio iperbolico di Cartesio come richiesta di una certezza iperbolica. Una fantasia genera l’altra
L’argomento del sogno e il tema dell’inadeguatezza del conoscere L’argomento del sogno e il tema dell’inadeguatezza del conoscere. Potrebbe capitare che la nostra immagine della realtà non sappia più conciliarsi con la realtà. Potrebbe accedere che i fatti ci sbalzino di sella, - per dirla con Wittgenstein. L’argomento del sogno potrebbe voler dire anche questo: che non abbiamo la possibilità di escludere che un giorno la nostra esperienza si dissolva come un sogno.
“E che dire se accadesse qualcosa di davvero inaudito “E che dire se accadesse qualcosa di davvero inaudito? Se per esempio vedessi come le case si tramutano gradatamente in vapore, senza nessuna causa palese; se gli animali sui prati stessero sulla testa, ridessero e dicessero parole comprensibili; se gli alberi si tramutassero gradatamente in uomini e gli uomini in alberi. Allora avevo ragione quando dicevo prima che tutte queste cose accadessero: “So che questa è una casa”, ecc., o semplicemente: “Questa è una casa”, ecc.?” (ivi, § 513).
Tutte le nostre considerazioni ci hanno infatti mostrato soltanto questo: che non possiamo dire, né pensare ad un inganno continuo e costante, ma questo non significa ancora che le condizioni di possibilità della sensatezza del nostro linguaggio coincidano con la realtà delle cose stesse. Non può esistere in linea di principio una assicurazione filosofica che ci garantisca una volta per tutte del fatto che i nostri giochi linguistici manterranno la loro sensatezza
Due forme di scetticismo: lo scetticismo gnoseologico e lo scetticismo metafisico
non si può sostenere che qualcosa sia un sogno se non disponendolo sullo sfondo della percezione ed intendendo ciò che ci presenta come una breccia che si apre nella trama unitaria della realtà. Il senso di queste considerazioni è relativamente chiaro: accettarle significa prendere apertamente le distanze dallo scetticismo gnoseologico che pretende di scardinare dal suo interno il sistema della conoscenza e di trasformare in dubbio ciò che comunque sappiamo, dimenticando che il sogno è per sua natura un’interruzione nella trama delle certezze della nostra esperienza che deve essere quindi innanzitutto posta nella sua validità per poter essere poi momentaneamente sospesa. Il sogno presuppone la vita desta e non può quindi essere addotto come un possibile argomento per corroborare le tesi scettiche. Dobbiamo dunque prendere commiato dall’armamentario cartesiano dei dubbi filosofici: l’ipotesi di un dubbio universale è infatti un’ipotesi insensata che dimentica che la possibilità del dubbio implica un insieme di certezze, poiché il dubbio è un comportamento che poggia su un insieme di presupposti, e in modo particolare implica le esperienze paradigmatiche che ci consentono di impiegare sensatamente parole come veglia e sogno.
Così, non è contraddittorio pensare che il mondo non vi sia ─ i giudizi empirici possono essere falsi; non si può invece pronunciare senza contraddirsi l’ipotesi cartesiana del dubbio: l’inganno presuppone la conoscenza e può essere dimostrato tale solo perché si fa avanti un nuovo sapere, una verità nuova che relega sullo sfondo un sapere presunto. Ma se questo commento è legittimo, se in altri termini lo scettico non può tradurre in un dubbio la constatazione ovvia della provvisorietà del nostro sapere, ciò non toglie tuttavia che il filosofo non possa egualmente proiettare le condizioni cui è vincolata la sensatezza del linguaggio sul terreno dell’essere. Potrebbe accadere che un qualche evento inaudito ci costringa a considerare tutto quello che sappiamo alla stregua di un sogno e potrebbe accadere che il corso delle cose sottragga alle nostre parole il senso che le rende tali.
Forse dunque almeno io sono qualcosa Forse dunque almeno io sono qualcosa? Ma già ho negato di avere dei sensi, un corpo. Tuttavia rimango invischiato in questi dubbi. Che deriva [25] infatti da ciò? Sono dunque così legato al corpo e ai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non c'è assolutamente niente al mondo, che non c'è il cielo, che non c'è la terra, che non ci sono spiriti, che non ci sono corpi. Non è forse vero quindi che anche io non esisto? Eppure certamente io esistevo, se ho avuto qualche persuasione. Ma vi è un non so quale ingannatore, sommamente potente, sommamente astuto, che di proposito mi inganna sempre. Senza dubbio dunque anche io sono, se mi inganna; e mi inganni pure quanto può, tuttavia non farà mai in modo che io sia nulla, mentre penso di essere qualcosa. Cosicché, dopo aver vagliato in maniera accuratissima tutti gli aspetti del problema, alla fine bisogna ritenere valido questo: la proposizione «Io sono, io esisto», ogni qual volta viene da me espressa o anche solo concepita con la mente, necessariamente è vera (ivi, II).
Ciò che sfugge al dubbio non è la sfera descrittiva dell’esperienza, né la totalità degli atti intenzionali e dei loro correlati oggettivi: la formula ego cogito — cogitata qua cogitata non è un buon titolo sotto cui raccogliere le considerazioni di Cartesio. L’argomento cartesiano del dubbio metodico non mira a prendere commiato da una falsa concezione dell’obiettività e non intende mostrare che il mondo e la totalità delle cose si costituiscono nel loro senso oggettuale soltanto nell’esperienza che ne abbiamo. Il suo obiettivo è un altro: Cartesio intende mostrare l’indipendenza dell’io dal mondo, il suo essere una cosa pensante che in sé reca le tracce (le ideae, appunto) che altre cose hanno impresso in lei — quelle entità reali che non ci è dato conoscere immediatamente. L’io che esce indenne dal dubbio è dunque il residuo di una critica che ha per oggetto le cose del mondo nel loro contrapporsi ad una diversa cosa che sembra situarsi nel reale ma al di là della materia — la cosa pensante.
Chi sostiene un’interpretazione rappresentazionalistica della percezione sembra infatti potersi avvalere di un argomento particolarmente solido contro ogni istanza di realismo diretto — un argomento che potremmo formulare così: Premessa 1. Vi è un mondo obiettivo indipendente dal soggetto che esperisce; Premessa 2. Vi è almeno un soggetto che esperisce; Premessa 3. La nostra esperienza implica un nesso causale tra il mondo obiettivo e la soggettività psichica; Premessa 4. L’oggetto reale è la causa, l’oggetto percepito l’effetto Premessa 5. Le cause sono numericamente distinte dagli effetti; Conclusione. L’oggetto percepito è diverso dall’oggetto che determina la percezione, proprio come la causa è diversa dall’effetto.
Possiamo trarre allora una prima conclusione: se ci disponiamo sul terreno di un’analisi della dimensione intenzionale ed epistemica della percezione non vi è ragione di sostenere che l’oggetto che vedo non sia la causa del mio vederlo, anche se con quest’ultima espressione si deve necessariamente intendere lo stato soggettivo del percepire, il suo porsi come una mia esperienza e non come ciò che in essa si manifesta. Io comprendo che tra il mio percepir così e l’esser così dell’oggetto percepito vi sia una relazione causale e questo nesso, di cui si scorge la presenza sul terreno epistemico molto prima di compiere i primi passi sul terreno dell’indagine scientifica, mi spinge ad analizzare la relazione che deve sussistere sul piano ontologico tra l’oggetto che sono e gli oggetti che mi determinano. Vediamo case, alberi e strade, ma col passare degli anni le vediamo in modo meno nitido, così come avvertiamo meno bene suoni e rumori.
Se risaliamo la serie dei nessi causali non vi è nulla che ci consenta di dire che è questo l’oggetto percepito. Noi vediamo proprio quel foglio di carta e lo vediamo azzurro, ma se ci poniamo sul terreno dei nessi reali che legano la mente al mondo non ritroviamo una relazione semplice, ma una concatenazione aperta che ci impedisce di avvalerci per un suo anello dell’espressione «oggetto percepito». Ma ciò è quanto dire che la nozione di effetto non ha la molteplicità adeguata per rendere il concetto di oggetto. Gli effetti hanno cause, ma le cause non sono ciò di cui l’effetto è segno; tutt’altro: la cenere sta per il fuoco solo per un soggetto che coglie l’uno nell’altra e intende la relazione che li lega come un motivo per inferire l’uno dall’altra. Ma ciò è quanto dire che possiamo insegnare a cogliere nel nesso causale una ragione per intendere la causa come segno dell’effetto, ma che causa ed effetto non sono di per se stessi connessi secondo un legame di natura cognitiva come quello di designazione.