Monitoraggio degli inquinanti nelle acque sotterranee
Definizione di acque sotterranee Per acqua sotterranea o freatica si intende l'acqua che si trova al di sotto della superficie terrestre. Questa acqua si trova immagazzinata nei pori fra le particelle sedimentarie e nelle fenditure delle rocce compatte. Nelle regioni artiche l'acqua freatica può essere congelata. In genere, queste riserve di acqua mantengono una temperatura molto vicina alla media annuale della zona in cui si trovano. Le acque sotterranee che sono ad elevate profondità possono rimanere indisturbate da effetti antropici per migliaia di anni. Ma la maggior parte delle falde freatiche si trova a profondità minori e quindi entrano a far parte, lentamente ma in misura costante, del ciclo idrogeologico. Nel mondo l'acqua freatica rappresenta lo 0,35% dell'acqua della terra ed è circa 20 volte di più del totale delle acque di superficie sui continenti. L'acqua sotterranea è di fondamentale importanza nel mondo in quanto rappresenta per l'uomo la più grande riserva di acqua potabile. L'acqua freatica può raggiungere la superficie terrestre attraverso le sorgenti o essere raggiunta attraverso i pozzi. Le acque sotterranee possono presentare essenzialmente due gruppi di problemi: Inquinamento delle falde dovuto a scarichi che raggiungono le acque sotterranee; Sovrasfruttamento delle falde con conseguente riduzione, abbassamento e intrusione salina. Per la normativa attualmente in vigore in Italia (D. lgs. 152/99) sono significativi gli accumuli d'acqua contenuti nel sottosuolo permeanti la matrice rocciosa, posti al di sotto del livello di saturazione permanente. Fra esse ricadono le falde freatiche e quelle profonde (in pressione o non) contenute in formazioni permeabili e, in via subordinata, i corpi d'acqua intrappolati entro formazioni permeabili con bassa o nulla velocità di flusso. Le manifestazioni sorgentizie, concentrate o diffuse (anche subacquee) si considerano appartenenti a tale gruppo di acque in quanto affioramenti della circolazione idrica sotterranea.
INQUINANTI DA MONITORARE La prima caratterizzazione chimica delle acque sotterranee è finalizzata ad un’analisi di inquadramento generale attraverso la ricerca di un gruppo ridotto di parametri. Sulla base di questi risultati le Autorità competenti individuano i punti d’acqua ritenuti significativi ed effettuano un monitoraggio dei seguenti “parametri base”: Temperatura (°C) Durezza totale (mg/L CaCO 3 ) Conducibilità elettrica (mS/cm (20°C)) Bicarbonati (mg/L) Calcio (mg/L) Cloruri (mg/L) Magnesio (mg/L) Potassio (mg/L) Sodio (mg/L) Solfati (mg/L) come SO 4 Ione ammonio (mg/L) come NH 4 Ferro (mg/L) Manganese (mg/L) Nitrati (mg/L) come NO 3 I parametri sottolineati sono utilizzati per operare una prima classificazione delle acque. Inoltre, in base all’uso del suolo, alle attività presenti sul territorio devono essere monitorati parametri addizionali relativi ad inquinanti specifici. Essi sono: Inquinanti Inorganici: Alluminio, Antimonio, Argento Arsenico, Bario, Berillio, Boro, Cadmio, Cianuri, Cromo totale, Cromo VI, Fluoruri, Mercurio, Nichel, Nitriti, Piombo, Rame, Selenio, Zinco Inquinanti Organici: Composti alifatici alogenati totali (tra cui 1,2-dicloroetano), Pesticidi totali (tra cui Aldrin, Dieldrin, Eptacloro, Eptacloro epossido), Acrilamide, Benzene, Cloruro di vinile, IPA totali (somma di benzo(b)fluorantene, benzo(k)fluorantene), benzo(ghi)perilene, indeno(1,2,3-cd)pirene), Benzo(a)pirene.
METALLI E SPECIE METALLICHE Determinazione per spettrometria di assorbimento atomico con atomizzazione in fiamma (F-AAS) di aria- acetilene o con atomizzazione elettrotermica nel fornetto di grafite (ETA-AAS) MetalloMisura del segnale di assorbanza, nm CALCIO 422,7 FERRO 248,3 MAGNESIO285,2 MANGANESE279,5 POTASSIO766,5 SODIO589,0
SOLFATI METODO A - Determinazione gravimetrica Il solfato viene precipitato in ambiente acido per acido cloridrico come solfato di bario. La precipitazione viene eseguita ad una temperatura vicina a quella di ebollizione e, dopo un periodo di digestione, il precipitato viene filtrato, lavato con acqua esente da cloruri, seccato, calcinato e pesato come BaSO4. Filtrare l’acqua in esame, se torbida, su filtro a filtrazione lenta. Prelevare un’aliquota d’acqua il cui contenuto di ione solfato sia di circa 40 mg. Aggiungere qualche goccia di indicatore al metilarancio e quindi soluzione 1:1 di acido cloridrico e acqua fino a viraggio (cambiamento di colore dell’indicatore). Portare il volume a 200÷300 mL per diluizione con acqua o per evaporazione. Aggiungere ancora 2 mL di acido cloridrico. Riscaldare il campione quasi all’ebollizione e sotto agitazione aggiungere lentamente la soluzione bollente di cloruro di bario (100 g di cloruro di bario (BaCl2·2H2O) in un litro d’acqua) fino a precipitazione completa. Far digerire il precipitato bianco di solfato di bario a 80÷90°C per non meno di due ore. Filtrare quantitativamente per filtrazione lenta attraverso un filtro di carta per analisi e lavare il precipitato con acqua calda fino a che le acque di lavaggio siano praticamente esenti da cloruri, dopo verifica con il reattivo acido nitrico-nitrato d’argento. Seccare il filtro con il precipitato e trasferire il tutto in un crogiolo di platino portato a peso costante; carbonizzare il filtro lentamente evitando che s’infiammi. Calcinare quindi a 800°C per circa un’ora, avendo cura che il carbone sia completamente scomparso. Raffreddare in essiccatore e pesare fino a peso costante. METODO B - Determinazione torbidimetrica Lo ione solfato viene precipitato in ambiente acido per acido cloridrico con cloruro di bario. La sospensione omogenea di solfato di bario che in tal modo si forma viene stabilizzata per mezzo delle soluzioni di glicerina e cloruro di sodio. Con uno spettrofotometro si misura l’assorbanza della sospensione, cioè il rapporto fra l’intensità della luce che filtra dalla sospensione nella direzione del raggio e l’intensità della luce incidente. PROCEDIMENTO: Determinazione: Versare in un matraccio da 100 ml, 50 ml di H2O in esame, addizionare con 5 ml di soluzione idroalcolica di glicerina e portare a volume con acqua distillata. Aggiungere poi BaCl2 e leggere l’assorbanza a 420 nm contro acqua distillata.
AZOTO AMMONIACALE Determinazione potenziometrica con elettrodo a membrana a diffusione gassosa Il metodo si basa sull’impiego dell’elettrodo specifico del tipo a diffusione gassosa per la determinazione dell’ammoniaca in campioni di acqua previamente alcalinizzati. Una membrana permeabile al gas consente il passaggio dell’ammoniaca dalla soluzione in esame alla soluzione interna all’elettrodo; l’entità di tale passaggio dipende dalla concentrazione dell’ammoniaca nella soluzione in esame ed è quantitativamente misurata attraverso una variazione del pH dello strato di elettrolita a più stretto contatto con la parete interna della membrana. Il metodo è di facile manualità e rapida esecuzione. L’elettrodo per Ammoniaca è un elettrodo del tipo a diffusione gassosa. Poichè la specie presente in soluzione è lo ione ammonio si aggiungono 10 ml di NaOH 10 M a 100 ml di campione o di standard in modo da portare il pH ad un valore intorno a 12. A questo valore di pH tutta l’ ammonio presente in soluzione si trasforma in ammoniaca gassosa. L’elettrodo possiede una membrana idrofuga e semipermeabile ai gas che separa il campione esterno dalla soluzione di riempimento interna a base di cloruro d’ammonio. Un elettrodo interno combinato di vetro per la misura del pH con superficie terminale piatta è schiacciato contro la membrana permettendo la permanenza di un sottile strato di soluzione di riempimento. L’elemento di riferimento dell’elettrodo per pH interno è costituito da un elettrodo iono selettivo ai Cloruri. Poiché la soluzione di riempimento contiene alti e stabili livelli di cloruro, il segnale dell’elettrodo di riferimento risulta molto stabile. In fase di misura l’ammoniaca liberata dall’elevato pH esercita una pressione parziale contro la membrana proporzionale alla sua concentrazione e tende ad attraversarla. Attraversandola trova una situazione di pH acido e sposta l’equilibrio in atto secondo la seguente reazione: NH3 + H2O = NH4+ +OH- La formazione di idrossilioni viene rilevata dall’elettrodo per pH piatto e si genera un potenziale che impedisce la modifica dell’equilibrio. Questo potenziale segue la Legge di Nerst e pertanto si può misurare direttamente la concentrazione dell’ammoniaca. Oggi in commercio esistono strumenti che leggono direttamente in concentrazione dopo essere stati tarati con standard.
CLORURI La determinazione dei cloruri viene fatta mediante titolazione con Nitrato di Argento (AgNO3): se ad un’acqua contenente cloruri si aggiunge cromato di potassio ed una soluzione di nitrato d’argento, l’argento si combina prima col cloro e, solo quando questo si è esaurito, va a reagire col cromo formando cromato d’argento di colore rosso-mattone. La colorazione rosso-mattone non è ben evidente a causa della opalescenza prodotta dal cloruro d’argento (AgCl) che è un sale insolubile; il punto di equivalenza si può comunque apprezzare osservando un imbrunimento o comunque una variazione di colore del sistema che si sta titolando. Procedimento: a 50 ml di acqua da esaminare si aggiungono 0,5 ml di soluzione di cromato di potassio al 5%; si lascia cadere dalla buretta, goccia a goccia, la soluzione di nitrato d’argento 0,01 N; osservare la comparsa dell’imbrunimento della soluzione e annotare i ml della soluzione di nitrato d’argento utilizzati per la titolazione. calcolare la quantità di cloruri presenti nell’acqua. LA TITOLAZIONE La titolazione è un metodo di analisi chimica di vasta applicazione in laboratorio per la misura della concentrazione di una data soluzione. Una quantità nota del campione da analizzare viene sciolta in un opportuno solvente. A questa soluzione vengono aggiunte gradualmente quantità di un secondo reagente (detto titolante), anch'esso in forma di soluzione a concentrazione rigorosamente nota, fino a quando la reazione tra i due è completa. Conoscendo la stechiometria della reazione chimica tra campione e titolante è possibile risalire alla purezza del campione partendo dal volume esatto di titolante consumato. Il titolante viene generalmente dosato tramite una buretta, strumento che consente di leggere con precisione (generalmente fino a 0,05 mL) il volume di titolante aggiunto. La completezza della reazione può essere rilevata in vari modi. Spesso si ricorre ad un indicatore ossia una sostanza che cambia colore in funzione dell'ambiente chimico in cui si trova. Le reazioni su cui si basano le titolazioni devono essere veloci, praticamente irreversibili, esattamente note nella loro stechiometria Esistono diversi tipi di titolazione, classificati in funzione della reazione su cui si basano o della tecnica adottata per il rilevamento del completamento della reazione. Tra questi si annoverano le titolazioni acido-base, basate sulla neutralizzazione di un acido da parte di una base o viceversa, le titolazioni di ossido-riduzione (o redox), basate sulla reazione tra un ossidante ed un riducente
NITRATI I nitrati sono determinati in base all’assorbimento nell’UV dell’NO3-. Le possibili interferenze all’assorbimento a 220 nm possono essere date dall’assorbimento di sostanze organiche eventualmente presenti nell’acqua. Per eliminare l’assorbimento delle specie organiche comunque presenti si decurta l’assorbanza a 220 nm del doppio dell’assorbanza a 275 nm che si ritiene essere ragionevolmente dovuta soltanto alle specie organiche in soluzione. HPLC Alcuni composti analizzati per HPLC: Azoto nitrico, Azoto nitroso, Clorofenoli, Cloruri, Fluoruri, Solfati. La cromatografia liquida ad alta pressione o cromatografia liquida ad alta prestazione (HPLC) è una tecnica cromatografica che permette di separare due o più composti presenti in un solvente sfruttando l'equilibrio di affinità tra una "fase stazionaria" posta all'interno della colonna cromatografica e una "fase mobile" che fluisce attraverso essa. Una sostanza più affine alla fase stazionaria rispetto alla fase mobile impiega un tempo maggiore a percorrere la colonna cromatografica (tempo di ritenzione), rispetto ad una sostanza con bassa affinità per la fase stazionaria ed alta per la fase mobile. Nell’HPLC la forza che permette all’eluente di scorrere nella colonna, è rappresentata dalla pressione che è applicata da una pompa in testa alla colonna e forza la fase mobile a scorrere all’interno della fase stazionaria. Questo permette non solo di rendere il processo più rapido ma permette anche di ottenere un maggior numero di piatti teorici il che vuol dire una migliore risoluzione.
Il campione da analizzare è iniettato all'inizio della colonna cromatografica dove è "spinto" attraverso la fase stazionaria dalla fase mobile applicando pressioni dell'ordine delle centinaia di atmosfere. Per ottenere un'elevata efficienza nella separazione è necessario che le dimensioni delle particelle del riempimento siano molto ridotte (di solito hanno diametri compresi da 3 a 10 μm), per questo motivo è indispensabile applicare un'elevata pressione se si vuole mantenere una ragionevole velocità di flusso dell'eluente e quindi un tempo di analisi adeguato. Alla fine della colonna è applicato un rilevatore (IR, UV-VIS, spettrometro di massa) e un calcolatore che permettono una analisi in continuo dell'uscita della colonna e quindi di poter quantificare e/o identificare le sostanze iniettate. I vantaggi principali di questa tecnica sono: la dimensione ridotta della colonna che evita problemi di deviazioni longitudinali (movimenti della fase mobile longitudinali) e di percorsi alternativi; velocità di eluizione costante e regolabile; velocità di esecuzione ridotta; piccole quantità di composto necessaria all'analisi (nell'ordine dei 5-10 microgrammi di campione solubilizzato in apposito solvente). Lo svantaggio principale degli apparecchi per HPLC è il costo molto più elevato rispetto ad una cromatografia su colonna tradizionale (circa mila euro per uno strumento completo dalle medie prestazioni), anche se non è possibile paragonare le due metodiche poiché presentano campi di applicazione diversi. Strumentazione A causa delle elevate pressioni di esercizio, la strumentazione per HPLC è di norma più complessa rispetto a quella per altre tecniche cromatografiche. I componenti principali dell'apparecchiatura per HPLC sono: Contenitori per la fase mobile Pompe Sistemi di introduzione del campione Colonna Riempimento della colonna Rivelatori
Contenitori per la fase mobile I moderni strumenti per HPLC sono equipaggiati con diversi contenitori per i solventi che verranno impiegati come fase mobile. I solventi devono necessariamente essere privi di impurezze, compresi gas disciolti e particolato, per non inficiare la bontà dell'analisi; per questo motivo i contenitori integrano spesso degasatori, distillatori e sistemi di filtraggio. Le separazioni con HPLC possono essere eseguite con eluizione isocratica, ossia usando un eluente la cui composizione non vari durante l'analisi, oppure con eluizione a gradiente, in cui la natura dell'eluente varia durante l'analisi in maniera continua o a gradini. Il secondo metodo ha effetti analoghi ai programmi di temperatura adottati in gascromatografia, aiuta in molti casi a migliorare la risoluzione dell'analisi o a diminuirne il tempo. Per operare con l'eluizione a gradiente è necessario che lo strumento sia dotato di una camera di miscelazione in cui siano miscelati i solventi prelevati dai contenitori per poi inviarli nella colonna. Pompe Le pompe per HPLC devono essere capaci di sostenere in maniera stabile pressioni fino a 430 atm. Devono inoltre essere resistenti alla corrosione. Pompe alternative a pistone La pressione viene trasmessa da un pistone, azionato da un motore, a una piccola camera in cui viene fatto fluire il solvente grazie all'apertura e alla chiusura di due valvole sincronizzate con la pulsazione del pistone. Il sistema presenta l'inconveniente di generare una pressione pulsata e di richiedere quindi uno smorzatore del flusso. Le pompe alternative a pistone sono in grado di sostenere stabilmente pressioni oltre le 600 atm, garantendo quindi buone velocità di flusso e in un ampio intervallo, sono inoltre facilmente adattabili alle eluizioni a gradiente. Pompe a siringa Le pompe a siringa, dette anche pompe a spostamento, sono costituite da un cilindro che contiene il solvente e da un pistone interno. Il pistone viene spinto da un motore applicato a una vite, generando una pressione non pulsata. Tali pompe garantiscono un flusso stabile e sufficientemente potente però hanno di norma una scarsa capacità del serbatoio e presentano inconvenienti quando si cambia il solvente.
Le pompe a pistone sono quelle più comunemente usate e sono costituite da una piccola camera cilindrica che è riempita e vuotata dal movimento di un pistone. Il pompaggio produce un flusso pulsatile che deve essere successivamente linearizzato. I vantaggi delle pompe a pistone sono un piccolo volume interno, la capacità di generare alte pressioni in uscita (superiori a psi), rapida adattabilità al cambiamento dei gradienti nel corso dell’analisi, flusso costante e inoltre sono molto poco sensibili alla viscosità del solvente e alla pressione in testa alla colonna. Un tipo di pompa molto usato è quello a doppio (o triplo) pistone reciprocante. Un pistone reciprocante è un piccolo pistone mosso da un motore, che si muove avanti e indietro all’interno di un cilindro a tenuta. Muovendosi all’indietro, il pistone aspira solvente, attraverso la valvola di entrata, dal contenitore della fase mobile; in seguito, muovendosi in avanti, il pistone spinge il solvente dal cilindro alla colonna, attraverso la valvola di uscita. La velocità del flusso può venire modulata largamente cambiando la velocità del pistone e/o il volume di liquido ( µL) aspirato ad ogni ciclo. Le pompe a multiplo pistone sono formate da due (o tre) unità pistone-cilindro che operano con una sfasatura di 90 (o 120) gradi: in pratica, mentre una delle pompe è in fase di aspirazione, l’altra è in fase di spinta. Ne risulta un flusso ‘smorzato’, continuo, di solvente alla colonna.
Le pulsazioni possono essere attenuate adoperando una pompa a doppio pistone reciprocante: Mentre una delle due pompe è in fase di spinta (tracciato blu) l’altra è in fase di aspirazione (tracciato rosso). Il flusso finale risulta dalla composizione dei due flussi. Rispetto alle pompe reciprocanti quelle a siringa hanno il vantaggio di generare un flusso privo di impulsi e di richiedere una minore manutenzione, tuttavia la presenza di una riserva limitata di solvente può essere un problema.
Alcuni strumenti sono equipaggiati con una pompa pneumatica, che nella sua forma più semplice consiste in un contenitore di solvente collassabile su se stesso contenuto in un recipiente che può essere riempito di gas compresso. Il gas spinge le pareti del contenitore collassabile che spreme il solvente in colonna. Le pompe di questo tipo sono semplici, poco costose e danno un flusso costante e lineare, hanno però come inconveniente che la velocità del flusso è molto influenzata dalla viscosità della fase mobile. Inoltre non sono adatte ad analisi in gradiente. Per ridurre le pulsazioni del flusso si può introdurre uno smorzatore di impulsi a valle della pompa. Lo smorzamento può avvenire interponendo un tubo metallico flessibile, avvolto a spirale, fra la pompa e la colonna. Nella fase di spinta il tubo si deforma compensando l’aumento di pressione del liquido. Nella fase di aspirazione si distende, compensando la diminuzione di pressione. In alternativa si può usare un dispositivo a molla regolabile. In alternativa la compensazione delle fluttuazioni di pressione avviene ad opera di un gas o un liquido separato dalla fase mobile mediante una membrana deformabile o un mantice:
Valvole di iniezione. L’interfaccia universalmente utilizzata per introdurre il campione è la valvola a 6 (o 7) vie. A seconda del loop montato varia il volume del campione iniettato in colonna. Sistemi di introduzione del campione La riproducibilità della quantità di campione introdotto nella colonna rappresenta il punto critico per la precisione di un'analisi con HPLC. I sistemi attualmente in uso riescono a raggiungere precisioni relative dello 0,1% e di variare la quantità di campione introdotto in un intervallo compreso tra 5 e 500 μl, esistono anche valvole di iniezione per microcampioni con volumi compresi tra 0,5 e 5 μl. Sono valvole capaci di alloggiare e trasferire il campione, senza interruzione del flusso dalla fase mobile attraverso la colonna. Sono costruiti in acciaio. Il metodo di caricamento più usato in HPLC è quello che usa il sampling loop, come mostrato in Figura. Questi dispositivi sono equipaggiati di loop intercambiabili di capacità variabile dai 5 ai 500 μl. La caratteristica principale del sistema di iniezione tramite loop è l’alta riproducibilità dei volumi iniettati.
Colonne E' il mezzo in cui il materiale è separato, ed a seconda dei solventi, gli analiti possono raggiungere diverse velocità di eluizione, in base anche alla loro composizione. Il materiale più impiegato per la costruzione delle colonne per HPLC è l'acciaio inossidabile levigato, se si opera a pressioni inferiori a 10 atm si usano anche colonne in vetro spesso. La lunghezza delle colonne è di solito compresa tra 10 e 30 cm, ma è possibile disporre di colonne più lunghe per particolari esigenze. Il diametro interno è compreso tra 4 e 10 mm e il diametro delle particelle del riempimento tra 3,5 e 10μm. Esistono anche modelli di colonne, di recente progettazione, più corte e sottili che permettono tempi di analisi inferiori e minor consumo di solvente. Le colonne commerciali sono spesso dotate di fornetti termostatici per tenere sotto controllo la temperatura della colonna fino al decimo di grado centigrado. Il mantenimento di una temperatura costante garantisce di norma cromatogrammi migliori. Nonostante i solventi impiegati in HPLC siano appositamente purificati, è sempre possibile che contengano contaminanti che potrebbero intaccare la buona funzionalità della colonna. Per ovviare a questo problema e dunque aumentare la vita media delle colonne analitiche si applicano colonne di protezione, più corte delle colonne analitiche, in cui la fase mobile viene fatta passare prima di accedere alla colonna analitica. In sostanza la colonna di protezione funge da filtro. Inoltre serve anche per saturare la fase mobile con la fase stazionaria, minimizzando quindi le perdite di fase stazionaria nella colonna analitica. Riempimenti delle colonne I riempimenti usati in HPLC sono sostanzialmente di due tipi, a particelle pellicolari e a particelle porose. Le particelle pellicolari sono impiegate quasi esclusivamente per le colonne di protezione. Sono granuli sferici e non porosi di vetro o materiale polimerico, di dimensione compresa tra i 30 e i 40 μm. Sulla superficie dei granuli viene depositato uno strato poroso di silice, allumina o resina a scambio ionico. Se si necessita di una fase stazionaria liquida, può essere applicata per adsorbimento. Le particelle porose hanno diametri compresi tra 3 e 10 μm, il materiale più usato è la silice microporosa, ma possono essere costituite anche di allumina o resina a scambio ionico. Anche in questo caso vengono applicati rivestimenti specifici, legati o per adsorbimento o attraverso legami chimici alla superficie delle particelle.
Rivelatori Rivelatori ad assorbanza Le celle di assorbanza per HPLC sono di solito a forma di Z, hanno cammino ottico da 2 a 10mm e volumi compresi tra 1 e 10μl. Queste piccole celle resistono al massimo alla pressione di 40atm quindi sono necessari riduttori di pressione al termine della colonna. Si usano sia rivelatori a doppio raggio, in cui un raggio viene fatto passare attraverso la cella e l'altro attenuato da un filtro per poi andare direttamente al detector, sia rivelatori a raggio singolo. La regione dello spettro più sfruttata nei rivelatori ad assorbanza per HPLC è l'UV, in second'ordine vi è la regione del visibile e in misura ancor minore l'infrarosso. Vengono impiegati sia rivelatori a filtri (fotometri) che a monocromatore (spettrofotometri). I più semplici fotometri per HPLC usano una lampada a mercurio, di cui si seleziona di solito la banda centrata a 254nm, ma si usano anche le bande a 250, 313, 334, e 365nm. Diversi gruppi funzionali assorbono a queste lunghezze d'onda sia organici che inorganici. Vengono anche usate sorgenti a deuterio o a tungsteno, dotati di tutta una serie di filtri. Per i rivelatori a spettrofotometro con reticolo di diffrazione si possono scegliere diverse modalità d'uso. Si può scansionare tutto il cromatogramma con una singola lunghezza d'onda; oppure se i picchi dell'eluito sono abbastanza separati si possono scegliere lunghezze d'onda specifiche per ogni picco, se si segue la seconda metodologia è indispensabile l'impiego di un processore per selezionare la lunghezza d'onda ottimale per ogni picco. Si può anche fermare il flusso della fase mobile se si desidera ottenere uno spettro su un'ampia regione di lunghezze d'onda. Il loro campo di applicabilità dei rivelatori a infrarosso in HPLC è piuttosto scarso per via dei solventi usati come fase mobile, di solito, acqua o alcoli, che hanno diverse bande di assorbimento nell'IR e rischiano di coprire i segnali degli analiti. Lunghezza d’onda fissa: La sorgente è una lampada a vapori di mercurio (emissione stabile e intensa a 254 nm) o un laser. Cella con configurazione a Z Si fa in modo che la radiazione sia parallela alla direzione del flusso per minimizzare i problemi legati a variazioni dell’indice di rifrazione.
La radiazione proveniente da una lampada a vapori di Hg passa attraverso la cella del campione e arriva al fotodiodo. L’intensità della luce assorbita è proporzionale alla concentrazione dell’analita. Vantaggi e svantaggi Il principale vantaggio è il basso costo. Inoltre l’elevata intensità della radiazione della lampada a Hg permette di ottenere elevata sensibilità per composti che assorbono a 254 nm. Il principale svantaggio è determinato dalla scarsa selettività dovuta alla necessità di lavorare a l fissa. Lunghezza d’onda variabile: Il rivelatore UV a lunghezza d’onda variabile è sicuramente quello maggiormente utilizzato in HPLC.La luce UV proveniente dalla lampada a deuterio è scissa nelle sue componenti attraverso un monocromatore a gradini. L’intensità della luce trasmessa è misurata attraverso un fotodiodo ed è proporzionale alla concentrazione dell’analita Vantaggi -Versatilità: possibilità di selezionare l da 190 a 800 nm. -Elevata sensibilità: potendo scegliere la l ottimale (max assorbanza) per un analita. -Selettività: quando si hanno sovrapposizioni di picchi si può variare la l in modo tale da minimizzare l’assorbimento degli interferenti. -Possibilità di utilizzare gradiente di eluizione, scegliendo una l alla quale la miscela solvente non assorbe.
Lunghezza d’onda variabile: La sorgente è una lampada al deuterio, avente emissione continua, ed è accoppiata ad un monocromatore. In questo caso è possibile scegliere una lunghezza d’onda ottimale per ciascun composto eluente, nell’intervallo nm. Il beam splitter consente di sdoppiare la radiazione (selezionata con il reticolo), inviandone una porzione ad un rivelatore di riferimento, che misura I0, l’altra alla cella in cui fluisce la fase mobile e poi ad un secondo rivelatore, che misura I. Il comparatore confronta continuamente I0 con I, fornendo l’assorbanza.
Il rivelatore UV a l diode array è quello che attualmente viene sempre più utilizzato in HPLC. La luce UV proveniente dalla lampada a deuterio passa attraverso una cella a flusso prima che venga scissa nelle sue componenti attraverso un monocromatore a gradini. L’intensità della luce trasmessa ad ogni lunghezza d’onda è misurata simultaneamente attraverso un array di alcune centinaia di fotodiodi. Un pc può processare, registrare e mostrare gli spettri in continuo durante l’analisi. Inoltre si possono registrare i cromatogrammi a ciascuna lunghezza d’onda. La presenza di un rivelatore a serie di diodi consente di registrare più volte un intero spettro di assorbimento UV-visibile durante l’eluizione di ciascun picco cromatografico. Il confronto con spettri UV riportati in banche dati spettroscopiche può in alcuni casi consentire di identificare la specie eluente sotto il picco. Rivelatore UV a diode array Vantaggi e svantaggi Presenta gli stessi vantaggi in termini di versatilità, sensibilità e selettività del rivelatore a lunghezza d’onda variabile. Fornendo anche gli spettri degli analiti, permette di effettuare anche il riconoscimento dei composti analizzati. Svantaggio: è più costoso rispetto al rivelatore a lunghezza d’onda variabile.
Rivelatore a Fluorescenza La luce UV proveniente da una lampada (filtrata alla opportuna λ) o da un laser, passa attraverso la cella a flusso. Quando un campione fluorescente passa attraverso la cella, assorbe la radiazione, viene eccitato e quindi emetterà la radiazione di fluorescenza ad una maggiore λ. L’intensità della luce emessa viene misurata attraverso un fotomoltiplicatore posto a 90° rispetto al fascio incidente. Vantaggi e svantaggi È un rivelatore molto sensibile, ma risponde soltanto ai pochi analiti fluorescenti. Per aumentarne l’applicabilità si possono legare covalentemente dei marker fluorescenti. Questa derivatizzazione può essere fatta o prima della separazione o post-colonna aggiungendo i reattivi marcanti tra la colonna e il rivelatore.
I rivelatori a fluorescenza presentano il vantaggio di una maggiore sensibilità rispetto ai metodi ad assorbanza, di solito superiore a un ordine di grandezza. Hanno però lo svantaggio di un minore campo di applicabilità, dato che il numero delle specie assorbenti è notevolmente superiore rispetto a quelle fluorescenti. Si possono comunque usare rivelatori a fluorescenza anche per analiti non fluorescenti se si riesce a trattarli con reagenti che diano prodotti fluorescenti. La fluorescenza viene osservata attraverso un detector fotoelettrico posto a 90° rispetto alla sorgente di eccitazione, che di solito è una lampada a mercurio. La radiazione fluorescente viene isolata attraverso dei filtri. In strumenti più sofisticati si usano lampade a xeno e reticoli di diffrazione. Rivelatori a indice di rifrazione I rivelatori basati sulla variazione dell'indice di rifrazione dovuti alla presenza dei soluti nella fase mobile hanno il grande vantaggio di avere un campo di applicabilità estremamente vasto; sono inoltre molto affidabili e non risentono delle variazioni di flusso. Hanno però scarsa sensibilità, non sono applicabili a eluizioni a gradiente e necessitano di essere termostatati al millesimo di grado centigrado perché le loro prestazioni dipendono fortemente dalla temperatura. Il rivelatore a indice di rifrazione misura la differenza nell’indice di rifrazione tra la cella del campione e una cella di riferimento che generalmente contiene soltanto l’eluente. Si utilizza un fascio di luce collimato e filtrato per rimuovere la luce IR che riscalderebbe il campione. Quando l’eluente contenente l’analita entra nella cella del campione, il raggio viene deflesso e inviato al fotodiodo producendo un segnale in uscita differente rispetto a quello prodotto dal solo eluente.
Idrocarburi Policiclici Aromatici – IPA Composti organici tutti caratterizzati strutturalmente dalla presenza di due o più anelli aromatici condensati fra loro. L’IPA più semplice dal punto di vista strutturale è il naftalene. Gli IPA costituiti da tre a cinque anelli possono essere presenti sia come gas che come particolato, mentre quelli caratterizzati da cinque o più anelli tendono a presentarsi per lo più in forma solida. All’aumentare del peso molecolare decresce la volatilità e la già bassa solubilità in acqua, mentre cresce il punto di ebollizione e di fusione. I vari IPA variano fra loro sia per le diverse fonti ambientali che per le caratteristiche chimiche. Si formano nel corso delle combustioni incomplete di prodotti organici come il carbone, il petrolio, il gas o i rifiuti; molti vengono utilizzati per condurre delle ricerche e alcuni vengono sintetizzati artificialmente; in alcuni casi si impiegano nella produzione di coloranti, plastiche, pesticidi e medicinali. Anche se esistono più di cento diversi IPA, quelli più imputati nel causare dei danni alla salute di uomini e animali sono: l’acenaftene, l’acenaftilene, l’antracene, il benzo(a)antracene, il dibenzo(a,h)antracene, il crisene, il pirene, il benzo(a)pirene, l’indeno(1,2,3-c,d)pirene, il fenantrene, il fluorantene, il benzo(b)fluoroantene, il benzo(k)fluoroantene, il benzo(g,h,i)perilene e il fluorene. Secondo l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) sono probabili cancerogeni per l’uomo (gruppo 2A) il benzo(a)pirene, il benz(a)antracene e il dibenz(a,h)antracene; mentre sono possibili cancerogeni (gruppo 2B) il benzo(b)fluorantene, il benzo(k)fluorantene e l’indeno(1,2,3,-c,d)pirene. Come inquinanti acquatici, essi sono generati principalmente dalla produzione di distillati di catrame di carbone, come il cresoto, un conservante del legno. Gli IPA derivano anche dalla fuoriuscita del petrolio dalle petroliere, dalle raffinerie, e dai punti di trivellazione del petrolio in mare aperto. Gli IPA adsorbiti sul particolato atmosferico si depositano sulla superficie terrestre, sul suolo oppure sui bacini, mentre quelli in fase gassosa raggiungono un equilibrio nelle zone di interfaccia aria/acqua.
Determinazione degli IPA nelle acque destinate al consumo umano. Esso consente di rivelare concentrazioni di singoli IPA comprese almeno nell’intervallo tra 2,5 ng/L (limite di rivelabilità del BaP richiesto dalla normativa) e 50 ng/L. Il campione d’acqua, dopo aggiunta di tiosolfato di sodio nel caso l’acqua sia stata clorata, viene sottoposto ad estrazione in imbuto separatore con diclorometano. Quindi si adotta una delle seguenti procedure: L’estratto viene purificato per TLC su gel di silice ed analizzato mediante GC/FID con colonna capillare. Se il limite di rivelabilità del BaP in GC/FID risulta > 2,5 ng/L, l’estratto viene analizzato mediante GC/MS. Nell’analisi GC/FID, interferisce qualunque composto che, presente nel campione dopo la purificazione, eluisca in GC con tempi di ritenzione approssimativamente uguali a quello degli IPA da determinare. L’analisi del bianco- reagenti consente comunque di tenere sotto controllo eventuali interferenze provenienti dai materiali e dai reagenti. Deve essere evitata l’esposizione a luce solare diretta dei campioni d’acqua prelevati. Estrazione Versare il campione in imbuto separatore. Aggiungere 50 mL di acetone nella bottiglia, lavare accuratamente la superficie interna e trasferire nell’imbuto separatore. Ripetere questa operazione con 60 mL di diclorometano. Estrarre il campione agitando per 2 min, e sfiatando di tanto in tanto. Lasciar separare gli strati per almeno 10 min. Raccogliere l’estratto diclorometanico in una beuta ed essiccarlo attraverso una colonna (5.5.) contenente circa 30 g di Na2SO4, prelavata con diclorometano; raccogliere l’estratto essiccato in un pallone per evaporatore rotante da 500 mL. Ripetere altre due volte l’aggiunta del diclorometano nella bottiglia, l’estrazione e l’essiccamento. Lavare infine la beuta e la colonna con mL di DCM, raccogliendo il lavaggio nel pallone. Concentrazione dell’estratto L’estratto viene concentrato in evaporatore rotante a circa 2 mL, sotto vuoto (mediante pompa ad acqua o sistema equivalente) e ad una temperatura del bagno inferiore a circa 35°C. Si trasferisce l’estratto concentrato in un vial di vetro chiaro, graduato e a fondo conico da 5 mL, e si concentra sotto leggero flusso d’azoto a circa 50 μL.
Analisi GC/FID Subito prima dell’analisi, il campione viene ulteriormente concentrato sotto flusso d’azoto a poco meno di 100 μL e se ne misura accuratamente il volume mediante microsiringa da 100 μL. In alternativa, il campione può essere cautamente portato a secco e subito dopo ripreso con 100 μL di toluene. Le seguenti condizioni vengono indicate a scopo orientativo: Temperatura del rivelatore: 310°C. Temperatura del forno: 1 min a 90°C, °C a 25°C/min, °C a 6°C/min, isoterma finale a 300°C per il tempo necessario all’uscita degli ultimi picchi. Volume da iniettare: on-column, 1,0 μL; splitless: 1-2 μL.