Tu ne mihi, quem tibi finem di, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. seu plures seu tribuit Iuppiter ultimam quae nunc oppositis debilitat pumicibus.

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Transcript della presentazione:

Tu ne mihi, quem tibi finem di, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. seu plures seu tribuit Iuppiter ultimam quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum! ; vina liques et spem longam reseces., fugerit invida aetas. Carpe diem, quam minimum credula postero.(diei) Ad Leuconoen

1 Forma sincopata di quaesiveris, temptaveris 2 Proposizione incidentale con valore causale 3 Anafora 4 Proposizione interrogativa indiretta Babylonios temptaris ENJAMBEMENT 5 Proposizione esclamativa 6 Sineddoche per indicare gli anni della vita Plures-ultimam in antitesi 7 Congiuntivo esortativo 8 Ablativo assoluto con valore causale SP allitterazione 9 Proposizione temporale

Tu non cercare di sapere, poiché non è lecito, il fine che per me, che per te, o Leuconoe, gli dei stabilirono, non tormentare le cabale orientali. Meglio prendere tutto come sarà. Siano molti gli inverni che Giove ci assegna o sia l’ultimo questo che ora stanca il Tirreno alle opposte scogliere, sii sapiente, su, filtra i vini, ritaglia in spazio breve la lunga speranza. Noi parliamo, ed è fuggita, invidiosa, la vita. Cogli il giorno, fidando quanto meno ti riesce nel domani.

Il “Carpe diem” è l’undicesimo componimento del primo libro delle Odi ed uno dei più celebri dell’intera letteratura latina, si presenta come un breve ma profondo avvertimento del poeta alla fanciulla Leuconoe sulla natura della vita secondo i precetti della morale epicurea e della teoria del piacere: è meglio vivere l’attimo piuttosto che interrogarsi inutilmente sul destino che ci attende. Il carmina assume così la formula di un frammento di dialogo con la tenera ed un po’ ingenua ragazza, che ritiene di poter vedere “con mente chiara” nel futuro che attende lei e il poeta. Il consiglio di Orazio è invece quello di abbandonare le illusioni e i progetti sul futuro per concentrarsi sull’attimo che si vive. I precetti della morale epicurea si traducono, più che in un superficiale invito al piacere fisico, in un’oculata etica della rinuncia delle passioni: per raggiungere l’autárkeia epicurea occorre rinunciare a ciò che ci allontana dalla aurea mediocritas dello stile di vita oraziano caratterizzato da un equilibrio felice. L’ode I infatti è ricca di ammonimenti: non cercare di sapere(ne quaesieris..), poiché non è lecito sapere(scire nefas), non interpretare l’oroscopo (nec..temptaris..), non prolungare la speranza oltre il breve spazio della vita(spatio brevi/spem longam reseces), non farti illusioni sul domani(quam minimum credula postero).

Il Carpe diem è quindi serrato in un cerchio di divieti, atti a proibire il pensiero rivolto al domani. Domani è l’incertezza del futuro ma la certezza della morte che è la maggiore limitatezza della natura umana. Inoltre si commette peccato nel preoccuparsi di ciò che dipende dalla volontà degli dei, essi hanno stabilito che gli uomini non debbano conoscere quel che sarà. Per tale ammonimento quest’ode può essere confrontata con la satira I del Sermones 1 che ha il tono della dedica e dell’introduzione. La domanda principale della satira è “Come è possibile che nessuno sia contento della propria sorte e tutti gli uomini, invece, invidino la sorte altrui?” Eppure, anche se un dio lo consentisse, nessuno sarebbe disposto a mutare la propria condizione con quella di un altro. Orazio paragona gli uomini a delle formiche che in estate accumulano le provviste per il freddo inverno, allo stesso modo gli individui si affannano, si logorano per procurarsi una vecchiaia agiata. Ma mentre le formiche, in inverno, si godono i frutti della fatica estiva, gli uomini, avidi mirano ad ammucchiare ricchezze in ogni stagione della loro vita. Che gusto c’è ad accumulare ricchezza su ricchezza se non si gode mai il frutto di tanto bene! I beni infatti dovrebbero servire al soddisfacimento delle esigenze materiali. Tuttavia occorre saper trovare la giusta misura come in tutte le cose della vita: l’uomo deve sempre evitare gli estremi e anziché lasciarsi trasportare dall’invidia e guardare a chi sta più avanti, deve tener conto dei propri bisogni reali.

Il tema principale di questo carme indicato anche dal titolo "Carpe Diem" è l’importanza che assume nella vita dell’uomo il cogliere i singoli attimi. Orazio si rivolge a una ragazza ansiosa di conoscere il proprio futuro e le detta alcune semplici norme di una vita ideale di saggezza: bisogna accettare il proprio destino e godere il tempo presente vivendo ogni giorno come se fosse l’ultimo della nostra esistenza perché la vita è precaria e fugace ed è praticamente impossibile sapere cosa ci riserverà il domani. Il “carpe diem” oraziano va inteso come consiglio a cercare la felicità nel presente e non in un ipotetico futuro. La saggezza, la serenità, l’equilibrio, la padronanza di sé, costituiscono l’equilibrio di chi sa fuggire tutti gli eccessi e sa adattarsi a tutte le fortune. Oggi giorno possiamo dire che Carpe diem significa non perdere la possibilità di vivere ogni singola situazione anche se negativa. Spesso ci facciamo trascinare dalla massa, facciamo affidamento al luogo comune che ci dice “meglio prevenire che curare”, non vogliamo mai essere impreparati quando in realtà dovremmo solo concentrarci un po’ ed ascoltare le nostre emozioni ed esigenze; passare dal sentire all’ascoltare, dal vedere al guardare, dall’incrociare le persone all’incontrarle. Lasciamoci sorprendere, non perdiamo la nostra spontaneità, viviamo di emozioni, di sentimenti, diventiamo collezionisti di attimi.

Orlotti AngelaMaria Pucci Martina Rispoli Roberta Sica Gerarda IV D