Politiche della concorrenza e modello di Bain Giocoli, Cap.2.

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Politiche della concorrenza e modello di Bain Giocoli, Cap.2

Politiche della concorrenza Definizione: competition policy è l’insieme delle norme ed azioni volte ad assicurare che la concorrenza sul mercato non sia ristretta in modo tale da portare detrimento alla collettività, cioè da ridurre il benessere sociale complessivo. Il punto di riferimento ideale è l’allocazione ottimale delle risorse, con relativo massimo del benessere sociale, ottenibile all’equilibrio di un mercato di concorrenza perfetta (PC). Nirvana fallacy: l’ideale della PC serve come metro di giudizio per valutare i diversi esiti di mercato del mondo reale, non come traguardo effettivo di policy-making. –Il rischio è che per creare una struttura di mercato “come quella PC” si generino ulteriori distorsioni e perdite di benessere. –L’approccio corretto è quello di comparare i diversi assetti istituzionali, spontanei e non, del mercato e scegliere quello che massimizza il benessere come soluzione di second best.

Fonti normative di competition policy In USA:  Sherman Act 1890 –§1: restraint of trade; –§2: monopolization.  Clayton & FTC Act 1914 In Europa:  Trattato di Roma 1957 e successivi –Art.2: concorrenza come strumento per il benessere dei cittadini europei; –Art.81: accordi verticali tra imprese; –Art.82: abuso di posizione dominante. In Italia:  Legge 287/1990 istitutiva dell’AGCM

Quali obiettivi per competition policy? 1.Garantire la libertà d’impresa e la dispersione del potere di mercato, evitandone la concentrazione in pochi operatori. 2.Tutelare la libertà economica dei partecipanti al mercato anche a fronte degli esiti delle forze spontanee del mercato. Il problema del “monopolio per merito” Criterio guida: tutelare la concorrenza, non i concorrenti! 3.Favorire l’allocazione efficiente delle risorse Il problema del criterio del benessere: CS versus TS Argomento pro-CS: difendere powerless consumers Ma: non esistono riferimenti legislativi a CS Ma: se CS fosse obiettivo, meglio regulation (P = CM) Ma: visione dinamica del benessere sociale vs CW statico  come si favorisce meglio l’innovazione? 4.Altri obiettivi: difesa piccole impresa, difesa dei “campioni nazionali”, promuovere l’integrazione dei mercati  tutti discutibili. Unico obiettivo indiscutibile è quello che proviene dalla teoria economica, ovvero massimizzare TS.

Perché combattere i monopoli Il primo e principale motivo per cui le politiche per la concorrenza cercano di contrastare la formazione di monopoli è per evitare la DWL connessa al monopolio. In realtà, sul piano del benessere sociale, la presenza di un monopolio comporta due effetti: –Effetto distributivo: spostamento di welfare da CS a PS –Effetto allocativo: riduzione del benessere totale  DWL Tale effetto lo si può considerare anche come prodotto da uno “sviamento” di risorse rispetto al first best della PC. L’effetto distributivo è qualcosa di negativo solo se l’obiettivo dell’antitrust è CS. Inoltre il monopolio comporta altri due costi in termini di benessere sociale: –Rent seeking costs –Managerial slackness

Monopolio efficiente? Il monopolio può anche comportare un aumento di efficienza  efficienza tecnica, non allocativa. Potrebbero esistere economie di scala ed altri guadagni di efficienza per sfruttare i quali è necessario che la produzione sia concentrate in un’unica impresa. Caso tipico: merger to monopoly. –E’ efficiente una fusione tra due o più rivali che crei un monopolio? –Efficiency defense: le imprese che si fondono possono invocarla davanti alle autorità antitrust. Per confrontare il trade-off tra perdita di efficienza allocativa e guadagno di efficienza tecnica si ricorre al c.d. Williamson’s diagram. –Anche in questo caso il confronto può o meno considerare l’effetto distributivo, ovvero il fatto che comunque CS si riduce. –P.e. «ok alla fusione, ma guadagno di efficienza deve andare a CS»

Williamson’s diagram MR

Come misurare il potere di mercato Un’impresa possiede technical market power (TMP) tutte le volte che fronteggia una domanda non perfettamente elastica (cioè inclinata negativamente). –L’unica impresa priva di TMP è quella PC. –Nella realtà, tutte le imprese hanno un po’ di TMP! Indice di (Amoroso/)Lerner: Misura TMP in termini del mark-up del prezzo sul costo marginale. TMP risulta tanto maggiore quanto minore è l’elasticità della domanda. –L’indice si ricava dalla relazione tra prezzo e ricavo marginale, per cui RM < P sempre, salvo che in PC. –Se, allora L = 0.

Elasticità firm specific Nella realtà i monopoli “puri” sono rari quasi quanto le imprese PC. Molto più diffusi sono i casi di impresa dominante, cioè leader di un mercato in cui operano comunque anche altre imprese. In questo caso però l’elasticità della domanda di mercato non coincide con l’elasticità della domanda che si rivolge all’impresa dominante. Il concetto di elasticità firm specific consente di calcolare nel modo corretto il valore di elasticità da inserire nella formula dell’indice di Lerner. dove  D è l’elasticità della domanda di mercato,  R è l’elasticità dell’offerta delle imprese rivali e S è la quota di mercato dell’impresa. –Se S = 1, l’elasticità firm specific coincide con quella di mercato. –Se S < 1, l’elasticità firm specific sarà sempre maggiore di  D

Modello di Bain Il modello spiega come la presenza di rivali, anche solo potenziali, limita il potere di mercato di un’impresa leader. Hp1: esiste un’impresa dominante, con monopolio temporaneo ma senza barriere all’entrata. Hp2: postulato di Sylos Labini  la quantità del leader è data, cioè non consideriamo la reazione del leader alla decisione dell’entrante. –Il modello quindi è non strategico: chi agisce ignora la reazione altrui. Decisione dell’entrante: E entra se e solo se il suo profitto post-entrata (cioè dopo che il mercato è stato modificato dalla sua decisione di entrata) è positivo, cioè se il prezzo post-entrata eccede CMeT. Domanda residua: ciò che residua della domanda di mercato dopo che il leader ha soddisfatto una parte dei consumatori. Quindi l’entrante E sceglie se entrare considerando la sola domanda residua (ed il connesso ricavo marginale residuo). Costi di entrata: sono quei costi sostenuti dall’entrante per accedere al mercato (p.e. costi di raccolta di informazioni sul mercato). Sono costi irrecuperabili (sunk costs) che il leader non deve sostenere (in realtà li ha già sostenuti in passato). La presenza di tali costi rende l’entrante comunque meno efficiente del leader.

La decisione del leader Il leader può impedire l’entrata decidendo di produrre più della quantità di monopolio. Quantità limite: è quella quantità prodotta dal leader tale da lasciare a disposizione dell’entrante una domanda residua insufficiente a rendere l’entrata profittevole. In pratica, massimizzando sulla sola domanda residua, E determinerebbe, con la sua eventuale entrata nel mercato, una riduzione del prezzo tale da rendere non profittevole l’entrata stessa. –Aggiungendo la sua produzione a quella del leader l’entrante determina condizioni di mercato post-entrata non profittevoli. –Tali condizioni sono sintetizzata dal concetto di prezzo limite, ovvero un prezzo così basso da non consentire ad E di coprire i propri costi medi di produzione. E’ il prezzo che consente al leader di vendere la quantità limite. La quantità limite dipende dai costi di produzione di E (in particolare dall’entità dei suoi sunk costs) e dall’entità della domanda di mercato.

Due casi limite Entrata bloccata: quando i costi di E sono così elevati e/o la dimensione del mercato è così piccola che l’entrata non può avvenire in alcun caso, neppure se il prezzo è al livello di monopolio. –Qui il leader può agire da monopolista, ignorando i rivali. Mercato perfettamente contendibile: costi di entrata pari a zero, cioè l’impresa E è identica al leader. Quest’ultimo, per impedire l’entrata, dovrebbe creare condizioni di mercato che rendono non profittevole produrre neppure per il leader stesso. –Quindi o l’entrata ci sarà sempre... –… oppure l’unico modo per impedire l’entrata è fissare il prezzo pari al minimo di CMeT, per cui l’esito del mercato è quello PC anche se il leader rimane l’unico a produrre.

Perché il monopolio non basta I due casi limite illustrano bene perché osservare l’esistenza di un monopolio non è sufficiente per dedurre la necessità di un intervento antitrust. Ciò che conta è la causa di esistenza del monopolio, perché il potere di mercato dipende da questo. Se il monopolio esiste perché l’entrata è bloccata, allora l’impresa gode del massimo potere di mercato e quindi si giustifica l’intervento del policy-maker. Se però esiste un monopolio ma il mercato è contendibile, l’intervento non è giustificato perché il potere di mercato di fatto non esiste. –Tesi di Chicago: il monopolista in un mercato contendibile è comunque costretto a comportarsi da impresa PC se vuole evitare l’ingresso di rivali. Quindi il mercato si autoregola, senza l’intervento pubblico.

Il prezzo limite conviene davvero al leader? Ha senso chiedersi se al leader conviene davvero fissare il prezzo limite. Infatti imporre il prezzo limite comporta un costo opportunità per il leader, in termini di rinuncia ai profitti – sia pur temporanei – di monopolio, ed un beneficio, in termini di mantenimento della posizione di monopolio. Al leader potrebbe convenire fissare ora il prezzo di monopolio, godere del massimo extraprofitto finché non avviene l’entrata, e poi “convivere” con le imprese rivali in un mercato concorrenziale. Per rispondere a questa domanda il semplice modello di Bain non è adatto perché statico.

Il modello di Bain dinamico Il cuore della versione dinamica del modello è il concetto di profitto intertemporale, cioè la somma dei profitti scontati che il leader otterrà oggi e nel futuro. La strategia di esclusione implica per il leader ottenere oggi e per sempre il c.d. profitto limite, cioè il profitto che deriva dal fissare il prezzo limite. Una strategia alternativa, c.d. strategia accomodante, consiste nell’imporre al tempo 1 il prezzo di monopolio, e quindi ottenere il profitto massimo, e poi dal tempo 2 in avanti accontentarsi dei profitti minori risultanti da un mercato (più) concorrenziale. La strategia di esclusione viene scelta solo se il relativo  intertemporale è maggiore di quello della strategia accomodante.

Da cosa dipende il  intertemporale? La differenza tra profitto di monopolio e profitto limite. Il comportamento delle rivali, cioè: –la rapidità con cui entrano nel mercato (quanto dura  M ?), –quante imprese effettivamente entrano, –quanto aggressivamente competono con il leader. Il tasso di sconto, cioè l’importanza dei profitti più vicini nel tempo rispetto a quelli più lontani  un tasso di sconto elevato significa che per l’impresa i profitti futuri contano poco.

Strategie escludenti nel modello di Bain Dal punto di vista antitrust il modello di Bain sembra offrire una conclusione tutto sommato “ottimistica”. –Il prezzo limite è comunque sempre inferiore a quello di monopolio –Se il prezzo limite è MOLTO inferiore a quello di monopolio, il leader preferisce “accomodare” l’entrata delle rivali. –Se il mercato è contendibile, l’esito è quello di PC. –Solo se l’entrata è bloccata serve l’intervento pubblico, e molto spesso si tratterà di regulation (monopoli naturali), non di antitrust. Il problema è che le imprese leader posso mettere in atto molte altre strategie, diverse da quella di prezzo, per ostacolare l’ingresso di imprese rivali. Tali comportamenti sono noti come strategie escludenti e sono accomunati dal fatto di richiedere al leader un “investimento” in genere non duplicabile dall’entrante. –Esempi: integrazione verticale a monte o a valle, excess capacity, sovra- remunerazione degli input, bundling, ecc. Sono tali strategie a rendere necessaria la competition policy.

Vincoli verticali Si tratta di accordi tra imprese del tipo: 1.il prezzo di rivendita imposto: quando il produttore impone al distributore il prezzo a cui vendere il bene; 2.le restrizioni territoriali: quando il produttore vieta al distributore di operare al di fuori di una definita area geografica; 3.le clausole di fornitura: quando il distributore si impegna a rispettare determinati standard nella vendita del prodotto (p.e. in termini di visibilità sugli scaffali del negozio) 4.i contratti di esclusiva: quando il distributore accetta di non vendere i prodotti di altre imprese e in cambio ottiene di essere l’unico a vendere un determinato prodotto in una certa area. Questi vincoli sono in apparenza automaticamente vietati dalle norme antitrust (Sherman Act, §1; Trattato UE, art.81). Ma è davvero efficiente vietarli sempre e comunque?

La rule of reason americana Nell’antitrust USA la c.d regola di ragionevolezza si applica agli accordi tra imprese che non rientrino tra le categorie proibite per se (c.d. per se prohibitions) da precedenti sentenze. Sono proibiti gli accordi che restringono in modo irragionevole la concorrenza, dove il parametro di ragionevolezza è, sin dal 1918, quello del c.d. “promote or suppress test” (PST). PST: ci si chiede se l’effetto complessivo di un accordo sia di promuovere o ridurre la concorrenza. Nel primo caso l’accordo è ragionevole, nel secondo irragionevole. Il problema è che la teoria economica NON fornisce un indice di “ragionevolezza” dei comportamenti delle imprese. Quindi si deve valutare caso per caso, lasciando ampio margine di discrezionalità alle corti antitrust.

La soluzione europea Il terzo comma dell’art.81 UE afferma che il divieto di cui al primo comma può essere dichiarato inapplicabile agli accordi (o categoria di accordi) tra imprese che… > e tali che NON: a) impongano alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi, b) diano a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi. Quindi: 4 condizioni per le c.d. “§3 exemptions”: due positive e due negative. Si parla di “codified rule of reason”, cioè di una specie di rule of reason che può essere applicata solo seguendo delle prescrizioni ben precise.

Un “evergreen”: il PRI Il prezzo di rivendita imposto (PRI) è soggetto alla proibizione per se nell’antitrust USA sin dal Si ha quando il produttore oppure il distributore (grossista) impongono il prezzo minimo a cui può vendersi un certo prodottto. –Spesso il PRI è imposto dal grossista, più che dal produttore, ed è espressione del potere di mercato del primo verso il secondo (oltre che verso il dettagliante). –Spesso il PRI è semplicemente usato come “pratica facilitante”, cioè come strumento per favorire la collusione: nessuna impresa potrà infatti deviare dal prezzo concordato tra i partecipanti al cartello. Per la scuola di Chicago il PRI può invece essere la soluzione ad un fallimento del mercato e quindi non va proibito. –Con il PRI il produttore può infatti evitare il free riding dei negozianti che non offrono i (costosi) servizi alla vendita (p.e. assistenza tecnica o dimostrazione del prodotto), sfruttando il fatto che altri negozianti lo faranno. Questo consente ai free riders di vendere a prezzo più basso. –Ma se ciò accadesse, nessun negoziante razionale offrirebbe tali servizi e quindi la domanda per il bene sarebbe inferiore al livello efficiente. –Il PRI serve ad impedire che la concorrenza intramarca si basi sul prezzo; questo favorisce una concorrenza basata sulla qualità dei servizi di vendita a tutto vantaggio del produttore (e del benessere totale).