É un incontro tra persone, poiché essere al servizio del malato vuol dire prendersi carico di una persona e accompagnarla verso la salute, la disabilità,

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Transcript della presentazione:

É un incontro tra persone, poiché essere al servizio del malato vuol dire prendersi carico di una persona e accompagnarla verso la salute, la disabilità, la morte, ma anche interessarsi a lei, rivolgerle la parola, comunicare, ascoltare, comprendere. Mettersi al servizio del malato significa quindi entrare in una rete di rapporti umani molto intensi. Significato dell’assistenza secondo la spiritualità di San Giovanni di Dio

Questa stessa natura umana fa sì che questo rapporto assistenziale debba essere rettamente inteso. Non si tratta tanto di un rapporto fra «sani e malati», ma piuttosto di un rapporto fra persone ambedue limitate nella loro creaturalità. Questa consapevolezza ha risvolti pratici importanti nel favorire un corretto rapporto: essa infatti fa sorgere la simpatia, perché anche il «sano» sperimenta un qualche dolore, e nell'accostarsi alla persona malata può evitare di cadere in quegli atteggiamenti quali il compassionismo e il vittimismo che sono deleteri anche per il malato stesso.

La risposta assistenziale allora dovrebbe basar sulla consapevolezza che: * per il malato è importante che un «altro» lo guardi, gli parli, gli stringa la mano in un gesto di interessamento concreto; * nessun uomo potrà mai guidare un altro uomo senza rendere nota la sua presenza, senza cioè uscire dal ruolo, dall’anonimato e dall’indifferenza dell’ambiente rendendo così possibile un rapporto di amicizia.

In un processo assistenziale, mentre i bisogni fisici essenziali della persona sono soddisfatti primariamente dagli operatori professionali, il volontario e l'operatore pastorale provvedono, in particolare, a supportare altri importanti aspetti che contribuiscono al benessere e al conforto psicologico e spirituale del malato e che sono previsti in un concetto di assistenza correttamente inteso.

La persona malata si attende da quelli che lo curano non soltanto un farmaco, un atto terapeutico, la salute, ma piuttosto un'assistenza che sia destinata a lei come persona; un atto che sia rivolto a lei in quel dato momento della giornata e della sua storia; un ritorno alla salute, ma in quella determinata ora della sua vita personale, familiare e sociale.

Quindi una relazione di aiuto deve prevedere i seguenti interventi: - aiutare la persona a sviluppare una relazione di fiducia, cioè a vivere un rapporto di attesa positiva e di speranza con altre persone. Infatti, il malato non può riporre la sua fiducia nella tecnica e nella medicina, ma nelle persone che lo curano e nell'autenticità delle sue relazioni con loro; - aiutare la persona a mantenere o riprendere il controllo della sua vita, dando un significato e un senso alla sua «situazione» di malattia; - aiutare la persona a conservare la stima di sé, cioè a rinforzare positivamente il giudizio personale sul proprio valore.

Sono questi gli interventi necessari affinché la persona, anche quando il ritorno al benessere fisico si fa sempre più incerto, non cada preda della disperazione, convinta che niente oramai può essere di aiuto e che sta perdendo il controllo della propria vita.

É su questa base emotiva che poi si determina l'incapacità di mobilitare le proprie risorse e prevale la decisione di «abbandonarsi al proprio destino». Questa fase rappresenta il culmine di quel cammino che inizia già dall'avvilimento, cioè dal sentirsi in qualche modo triste, stanco, ostile, e che è frutto dell'emarginazione connaturale alla malattia. Malata, la persona è sottratta al suo mondo: «la vita continua il suo corso ma la persona non vi partecipa più. Tutti seguono la trama degli eventi quotidiani, tutto procede come prima, ma la persona si sente come ritardataria, isolata ed il mondo le diventa estraneo ed insolitamente lontano».

Una lontananza che può valere anche nei confronti del contesto familiare, che la persona malata può arrivare a sentire indifferente o poco preoccupato per la sua sorte; una lontananza che può valere anche nei confronti di Dio, che la persona malata può arrivare a percepire lontano e silenzioso. Il dolore, qualunque sia la sua causa ed in qualunque modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell'esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione. Il mondo si vede in un modo in cui mai s'era visto prima.

Nei confronti della persona malata il volontario poi può svolgere le seguenti funzioni: - una funzione relazionale, cioè l'instaurare rapporti interpersonali significativi; - una funzione terapeutica, in quanto membro dell'équipe curante e in quanto spesso uno dei problemi fondamentali della persona malata è l'aspetto relazionale; - una funzione integrativa, cioè il rendersi disponibili per una quantità innumerevole e varia di piccoli servizi; - una funzione sostitutiva dei legami primari, nei casi ovviamente di assenza di figure parentali.

Ma per aiutare occorre capire e amare. La comprensione e l'amore però devono cominciare da se stessi: si deve innanzitutto conoscersi, capirsi ed accettarsi così come si è per conoscere, capire ed accettare l' «altro». Per essere efficaci in una relazione di aiuto è importante possedere:

- la consapevolezza di sé e dei propri valori: Chi sono io? In che cosa credo? Cos'è importante per me? Qual è la mia esperienza della malattia, della sofferenza, della morte? Dov'è Dio in questa esperienza? Cosa spero di ottenere? Che cosa spero di dare? (Si deve essere in grado di rispondere a queste domande per poter aiutare un'altra persona a rispondere alle stesse domande); - la capacità di analizzare i propri sentimenti: si deve imparare a riconoscere e ad affrontare i propri sentimenti di gioia e dolore, potere e rabbia, realizzazione e frustrazione; - un sentimento di altruismo: che si esprime nell' aiutare le persone in modo umanitario; - un senso di responsabilità: che si esprime nella responsabilità delle proprie azioni e nella condivisione di responsabilità con altri.

La capacità di curare, propria anche del volontario e dell' operatore pastorale, fu espressa già da sant' Agostino: «Io non so come succeda, che quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l'alleviamento di questo dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri» (Lettere 99, 2). Fine prima parte