DIFFUSIONE DEL FIORENTINO NEL ‘400 E NEL ‘500
Nel Trecento il fiorentino scritto, reso illustre da Dante e fortificato da un’importante tradizione di opere volgari sia in prosa che in poesia (cronache, scritti religiosi, novelle, liriche d’amore e poesie comico-realistiche) appare rafforzato come lingua sia dal punto di vista sintattico che lessicale. La lingua scritta e la lingua parlata a Firenze nel Trecento trovano nel Decameron la loro manifestazione letteraria più completa. L’opera riflette quel momento storicamente fortunato in cui a Firenze è stato realizzato un vero e proprio scambio tra le due varietà linguistiche fonadmentali: scritto e parlato.
Questa realtà però è destinata a finire presto a Firenze: - fin dal Quattrocento, per la pressione esercitata dal modello umanistico di scrittura letteraria volgare, ricca di elementi colti e lontana dalla “naturalità” del parlato quotidiano - dal Cinquecento in poi, per una normalizzazione grammaticale, rivolta alla formazione di un italiano scritto comune, che porterà numerosi cambiamenti al fiorentino trecentesco che costituiva il modello-base.
L’affermazione del toscano non fu costante nel tempo; per l’aspetto letterario la sua espansione fu più lenta quando nel XV sec. subentrò l’Umanesimo. Gli umanisti ritenevano che il volgare fosse utile solo per gli usi pratici ma non era degno di essere usato in ambito letterario. LATINOVOLGARE usi letterari(ricco di forme varie) usi pratici (lettere)
Ma il volgare era ormai molto usato e non era più possibile ritornare al latino dei classici così come avrebbero voluto gli umanisti. Leon Battista Alberti prevedeva che, una volta regolarizzata la “grammatica” del volgare, esso avrebbe avuto un uso simile a quello del latino nell’antichità. Egli scrisse la prima “Grammatica del toscano” che si basava sul fiorentino dell’epoca. Alla corte dei Medici prevalse il modello tosco-fiorentino e la norma venne identificata nella lingua usata dai grandi scrittori del ‘300.
Nelle varie regioni d’Italia gli intellettuali usavano sempre più il volgare come lingua per usi letterari e i dialetti locali per uso quotidiano in un territorio limitato. I volgari delle diverse regioni d’Italia diventarono dialetti e si affermarono, dunque, a partire dai sec. XV-XVI.
La diffusione del volgare toscano in maniera decisiva si ebbe con l’invenzione della stampa (1430) che permise una rapida circolazione delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Nel ‘500 si ebbe la cosiddetta “questione della lingua” per stabilire le sorti del toscano: diventerà una lingua nazionale dell’uso o resterà la lingua degli scrittori?
Vi sono tre posizioni che riguardano tre diversi modelli: 1) Modello trecentesco Pietro Bembo nelle “Prose della volgar lingua” (1525) sosteneva che la lingua a cui ci si dovesse rifare fosse Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa non consiedra il modello di Dante perchè ha usato anche gli stili “bassi”; 2) La lingua cortigiana Con questa teoria si ha al centro il toscano ma si rimettono in luce anche gli altri volgari che venivano parlati nelle corti.
Il fiorentino parlato Viene ribadita la superiorità del fiorentino sugli altri volgari. Niccolò Machiavelli “discorso intorno alla nostra lingua” sostiene che la lingua della “Divina Commedia” è fiorentina e che il fiorentino del ‘500 è la continuazione di quello del ‘300. Bembo evidenzia la divisione tra la lingua letteraria dei colti (che si basava sull’imitazione di scrittori classici, immobile) e la lingua d’uso, del popolo (dinamica).