Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Nel canto primo Dante inizia il viaggio ideologico.

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Transcript della presentazione:

Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Nel canto primo Dante inizia il viaggio ideologico della sua Divina Commedia la notte del venerdì santo del 7 aprile Ha trentacinque anni e si trova a metà della vita di un uomo che, all'epoca, si considerava di circa settanta anni. Il suo stato d'animo è quello dell'uomo cosciente d'esser caduto nel peccato (la “selva oscura”) e nel tormento che lo stesso infligge. Dopo aver trascorso la notte in questa selva giunge nei pressi di un colle che il poeta identifica con la salvezza poiché illuminato dai raggi del sole. È la visione della “luce” che gli indica il cammino tutto in salita lungo un sentiero spirituale non facile. Ecco infatti che tre belve gli sbarrano la strada…

È la prima delle tre fiere incontrate nella selva oscura, nel primo canto dell’inferno. Il suo nome deriva probabilmente dal latino «lynx» e rappresenta un grosso felino dal pelo maculato, anche se non è certo che si possa identificare come l’animale da noi conosciuto. Sembra che nel 1285 a Firenze una «leuncia» fosse tenuta in una gabbia, presso il palazzo del podestà. È stata anche identificata anche come un leopardo o una pantera, tutti animali dal significato demoniaco nei bestiari medievali. Nel primo canto, essa ha un significato allegorico e rappresenta quasi certamente la lussuria, una delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante di scalare il colle. Alcuni commentatori l’hanno invece interpretata come simbolo di invidia e altri dei peccati di eccesso, ipotesi entrambe poco probabili secondo la critica moderna. La lonza viene nuovamente citata da Dante in Inferno, «lo avea una corda intorno cinta / e con essa pensai alcuna volta / prender la lonza e la pelle dipinta» dove il poeta porge la corda che gli cinge i fianchi a Virgilio, che la getta nel burrone e richiama così Gerione.

È la seconda delle tre fiere incontrate da Dante nella selva oscura, nel Canto I dell'Inferno. Il leone è generalmente interpretato come allegoria della superbia, una delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante la salita del colle (la lonza è la lussuria, la lupa è l'avarizia). Alcuni commentatori l'hanno invece interpretato come simbolo di violenza, in base alla tripartizione dei peccati nella topografia morale dell'Inferno dantesco (la lonza sarebbe allora l'incontinenza, la lupa invece la frode). Non è escluso che entrambe le interpretazioni siano valide.

La lupa è la terza delle tre fiere incontrate da Dante. Ha il significato allegorico della cupidigia e del desiderio sfrenato, la più grave delle tre disposizioni peccaminose che impediscono a Dante la salita del colle. Già San Paolo definiva l'avarizia radix omnium malorum (radice di tutti i mali) ed è chiaro che l'avarizia rappresenta per Dante la causa prima del disordine morale e politico in cui versava l'Italia del primo Trecento, simboleggiato anche dalla selva oscura. L'allegoria di Dante associa proprio alla lupa (simbolo di Roma) le caratteristiche che identificano lo Stato Pontificio del XIV Secolo che, sotto la guida di Papa Bonifacio VIII, viene accusato di preoccuparsi più di fatti mondani (potere temporale) che della salvezza delle anime (potere spirituale). Lo stesso Plutone, custode demoniaco del III cerchio dell'inferno, è definito da Virgilio un lupo e la lupa ritorna nella famosa apostrofe di Purg.XX 10-12(Maledetta sie tu, antica lupa,/ che più di tutte l'altre bestie hai preda/ per la tua fame senza fine cupa) dove si parla proprio del peccato di avarizia espiato nella V cornice. Questo animale è del resto accostato al peccato di avarizia in molti bestiari medievali, inoltre in Purg.XIV, 49-51Guido del Duca allude ai Fiorentini chiamandoli lupi, con evidente accenno al peccato di avarizia di cui erano esempio. L'accusa di avarizia viene rivolta a Firenze anche in Par.IX, 127ss, dove Folchetto di Marsiglia definisce Firenze come “città del demonio che produce e spande il maledetto fiore/ c'ha disviate le pecore e fli agni/ però che fatto ha lupo del pastore”. Il fiore è naturalmente il fiorino, colpevole di trasformare pecore e agnelli del gregge cristiano il lupi famelici.

Il veltro dantesco rappresenta nella mente di dante un’azione di riforma promossa da Dio. Nel veltro si deve quindi vedere una forza capace di assumere il compito di riformare la chiesa e di riportarla alle sue origini. Potrà essere un imperatore, che ristabilisce la netta separazione tra potere temporale e potere spirituale, o pontefice che operi dall’inferno il rinnovamento e il senso evangelico degli istituti ecclesiastici. Il veltro è emanazione della Trinità, e la Trinità si serve dell’impero e della Chiesa per la sua opera di salvezza. È questo uno dei celebri enigmi della commedia. Nel significato letterale il veltro è un cane da caccia adatto, quindi, a snidare la lupa da ogni luogo, ma trattandosi di una profezia il linguaggio è ermetico.