PRIMA PARTE: DAL RANCORE… PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI 3° giorno Anno Pastorale
Il tema della relazionalità, considerata in tutti i suoi aspetti, trova una particolare caratterizzazione nel rapporto che l’uomo instaura con se stesso.
La nostra interiorità, intesa come la sede dei pensieri, dei sentimenti e della volontà, è il luogo delle scelte e delle decisioni, dove si gioca tutta la propria vita e si determina positivamente o negativamente il suo andamento.
Le varie esperienze, le emozioni, le suggestioni, le informazioni che ricaviamo dall’esterno, contribuiscono in vario modo a formare la nostra personalità che trova modo di esprimersi nel rapporto con gli altri.
Pertanto, una personalità matura ed equilibrata è alla base di relazioni profonde e libere, mentre quando il vissuto umano è stato segnato da situazioni drammatiche, che hanno determinato il sorgere di malesseri interiori, allora anche la sfera dei rapporti interpersonali viene compromessa.
Quando il rancore si manifesta contro se stessi, lo si definisce più comunemente con il termine “rimorso”, che etimologicamente significa ri-tornare a pensare frequentemente una situazione passata, una persona, un comportamento che ha procurato una ferita.
Spesso il rimorso si manifesta attraverso pensieri ossessivi che portano a rimuginare situazioni già trascorse, in cui non si è stati in grado di operare determinate scelte, in cui ci si è pentiti di quanto si è detto o fatto.
Insomma, si ritorna sugli errori commessi e, quindi, si rimpiange di non avere assunto un determinato comportamento che, probabilmente, avrebbe determinato diversamente il corso degli eventi.
Quando tale rimorso diventa un pesante giudizio sulla propria persona, fino a infliggersi condanne esagerate, amplificando le colpe o addirittura addossandosi false colpe, nasce il sentimento di rancore verso se stessi.
In questi casi, viene compromessa l’autostima, con la conseguente nascita di vere e proprie patologie psichiche quali: depressioni, esaurimenti, sensi di frustrazione, incapacità di reagire e di continuare a svolgere serenamente anche le attività ordinarie della giornata.
Chi si trova in questa situazione assume, anche inconsapevolmente, alcuni atteggiamenti negativi: cupezza, tristezza, rabbia e intolleranza verso se stessi.
Si verifica anche un annebbiamento nella capacità di esprimere un giudizio sereno e oggettivo sul proprio vissuto, diventando incapaci di leggere la propria storia in tutte le sue sfaccettature, in quanto ci si concentra esclusivamente su un aspetto di essa, possibilmente quello più deleterio, facendo passare in secondo piano gli altri aspetti positivi che vengono dimenticati e vanificati.
In un contesto spirituale, il rancore verso se stessi è il frutto di una mancanza di umiltà e di abbandono fiducioso alla volontà di Dio.
orgoglioarroganza Il non accettare le sconfitte, le delusioni, il non riconoscere i propri limiti è sintomo di orgoglio e di arroganza, segno evidente di avere fatto troppo affidamento sulle proprie capacità umane, senza mettere in conto che le nostre aspettative non sempre possono raggiungere i risultati sperati.
Nel Vangelo, Gesù invita spesso ad assumere l’atteggiamento dell’umiltà come condizione necessaria per diventare suoi discepoli:... «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23).
Il rinnegare se stessi non è da intendere in senso negativo, come un rinunciare alla propria personalità, mortificando le proprie capacità o avere una bassa considerazione di se stessi fino ad annullarsi.
Al contrario, nello spirito evangelico, la chiamata al discepolato presuppone una coscienza viva e forte, dove si è coinvolti attivamente in un dialogo di amore in cui Dio chiama e attende una risposta cosciente e libera da parte dell’uomo.
“rinnegare se stessi” Inoltre, il “rinnegare se stessi” diventa capacità di sapere leggere nel profondo del proprio essere, accettando i propri limiti, pervenendo a una giusta ed equilibrata considerazione di se stessi, sapendo fin dove si può arrivare, per evitare di assumere atteggiamenti farisaici intrisi di orgoglio e di superbia già duramente condannati da Gesù.
Anche san Paolo, nella Lettera ai Romani, invita a sperimentare una carità autentica che abbraccia anche i nemici e ammonisce di mantenersi in uno stile di vita umile e semplice: «Non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rm 12, 16).
Quando, invece, si ripensano le proprie colpe, dando a esse un peso eccessivo, allora nascono i cosiddetti “scrupoli di coscienza”, che diventano non solo motivo di turbamento e di angoscia a discapito della pace interiore, ma anche occasione di vere e proprie tentazioni riguardo la bontà e la misericordia di Dio.
Infatti, il pensiero che qualche peccato grave non sia stato perdonato rivela, fondamentalmente, una mancanza di fiducia in Dio, il quale nella Sacra Scrittura si manifesta “ricco di misericordia, lento all’ira e grande nell’amore” anche per coloro che si sono macchiati di gravi colpe, come sottolinea il profeta Isaia: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana» (Is 1,18).
L A STORIA DEL FIGLIO MINORE A questo proposito, risulta interessante la vicenda del figlio minore, protagonista di una delle parabole più belle raccontate da Gesù per illustrare proprio la grande misericordia di Dio, il quale non si scandalizza davanti alle ribellioni, ai tradimenti, ai sospetti e alle tante infedeltà dell’uomo.
La vicenda si svolge all’interno di un contesto familiare, dove emergono di volta in volta i personaggi che vengono ritratti nel loro specifico carattere. Tra questi emerge la figura del figlio più giovane, sulla quale si è sempre concentrata l’attenzione, tanto da caratterizzare lo stesso racconto come parabola del “figlio prodigo”.