ILIADE
La figura di Omero e la questione omerica Gli antichi non avevano dubbi sull’esistenza storica di un poeta chiamato Omero, autore di Iliade, Odissea e altre opere, tra cui gli Inni. Alcune città rivendicano l’onore di essere la patria di Omero: Chio, Smirne e Colofone. Sembra che la sua attività poetica possa essere datata intorno all’850 a.C. Per quanto riguarda la composizione dei due poemi, i problemi nascono dalle notevoli divergenze fra di essi, tanto che si è ipotizzato che l’Iliade fosse l’opera della giovinezza e l’Odissea quella della vecchiaia. Ciò che si può attualmente affermare è che, probabilmente, Omero avrebbe raccolto una serie di singoli canti e di brevi poemi antecedenti e li avrebbe elaborati, inventando nuove parti. Il poema che noi leggiamo sembra non essere quello originale scritto da Omero, in quanto, in seguito, furono aggiunte altre parti non presenti nel progetto originale del poeta. Ciò che rimane ormai chiaro è il carattere unitario dell’Iliade, frutto di una mente geniale che ha saputo trasformare episodi e racconti semplici in una grande opera letteraria, organica e ben strutturata. Prima di Omero il canto epico aveva esclusivamente i caratteri dell’oralità: gli aedi che percorrevano la Grecia possedevano un repertorio di storie mitologiche che raccontavano al pubblico o nei palazzi dei principi, utilizzando “formule” prestabilite e codificate, come gli epiteti attribuiti ai singoli eroi (Pelide Achille, Agamennone,pastore di popoli, Nestore domatore di cavalli o alle singole divinità, alcune immagini naturali (“quando sorse l’Aurore, dita rosate”). Su questa struttura di base, l’aedo improvvisava la propria poesia nell’atto stesso in cui la recitava. In sintesi, quello che noi chiamiamo Omero fu sicuramente colui che raccolse e selezionò il vastissimo materiale preesistente nei canti eroici dei rapsodi sulla guerra di Troia e lo trascrisse in una sua personale rielaborazione. In parallelo alla questione storica della figura di Omero, dobbiamo prendere in considerazione il problema dell’esistenza reale di Troia e soprattutto di una guerra, come quella descritta nell’Iliade. La svolta fondamentale a questo problema venne impressa da Heinrich Schliemann, che nel 1870 iniziò la ricerca della città che, secondo lui, si trovava sulla collina attualmente chiamata in turco Hissarlik, la quale sovrasta una piana formata da due fiumi (gli antichi Scamandro e Simoenta), in Anatolia. Qui Schliemann scoprì le tracce di insediamenti umani disposti su diversi strati; egli credette di riconoscere la Troia omerica nel secondo strato, dove, tra le rovine di un palazzo incendiato, trovò una grande quantità di splendide suppellettili d’oro, da lui battezzate “il tesoro di Priamo”.
Lingua, stile e struttura dell’Iliade Successivamente si sposto in Grecia, dove trovò le mura colossali di Tirinto, descritte da Omero e, a Micene, città di Agamennone, dove trovò una maschera aurea insieme ad un ricco tesoro. In seguito si accertò che Schliemann aveva sbagliato solo nel riconoscere la Troia omerica nel secondo strato, mentre in effetti si tratta dello strato denominato “VIIa”, che presenta i resti di una città distrutta da una spedizione militare intorno al XII° secolo a.C. Lingua, stile e struttura dell’Iliade Per quanto riguarda la lingua, essa risulta dalla mescolanza di numerosi dialetti, in particolare il dialetto ionico ed eolico. Il dorico è alla base della poesia epica, in quanto proprio nella Ionia si trovavano i rapsodi itineranti. Gli elementi eolici rappresentano la fase più antica e caratterizzano soprattutto le “formule”. In tali formue si evidenzia il carattere precipuo dello stile omerico: concreto ma allo stesso tempo libero di variare, secondo l’ispirazione, il rigido formulario rapsodico. Molto importanti sono le similitudini, cioè un modulo stilistico che stabilisce un rapporto tra un momento della narrazione e un dato dell’esperienza comune. Omero, in questi momenti, si concentra sui dettagli della realtà rappresentata, raggiungendo altissimi livelli descrittivi ed evocativi. Possiamo riconoscere due grandi gruppi di similitudini: - la descrizione dei fenomeni naturali e del comportamento degli animali - la rappresentazione della vita quotidiana dell’uomo. La similitudine viene introdotta da una formula di paragone, tipo “come, quando” e si conclude con l’espressione “proprio così” Due similitudini Canto XI, 544-565 “Allora il padre Zeus dall’alte vette spavento scagliò contro Aiace Che si fermò stupefatto, poi gettò indietro lo scudo, Tremò, guardandosi attorno tra il folto come una fiera, Voltandosi indietro, ginocchio a stento alternando a ginocchio. Come fulvo leone da un chiuso di bovi Scacciano i cani e gli uomini dei campi, Non gli lascian rapire il grasso pingue dei bovi, Tutta notte vegliando; quello bramoso di carne, Assalta, ma non può far nulla: dardi folti Gli cadono addosso, lanciati da intrepide mani, E fiaccole ardenti, che teme, per quanto furioso; E all’alba s’allontana col cuore avvilito; Così allora dai Teucri Aiace, avvilito in cuore, S’allontanava, a malgrado; tremava per le navi. E come un asino, quando all’orlo del campo resiste ai fanciulli Testardo, e molti bastoni sopra di lui son spezzati,
Ma esso entra a mietere il grano folto; i fanciulli Lo battono coi bastoni, ma la forza è bambina, E a stento lo spingono fuori, quando è sazio di grano, Così il grande Aiace di Telamone allora Insieme Troiani superbi e alleati famosi Continuamente inseguivano, colpendo con l’aste lo scudo.” Canto XII,277-289 “Così gridando i due, tenevano desta la lotta dei Danai: E allora, come le falde di neve cadono fitte In un giorno d’inverno, che i sagglio Zeus si leva A nevicare, e agli uomini mostra quali son le sue armi; I venti addormenta, e versa e versa, fino che copre Le cime dei monti alti e i picchi elevati E le pianure erbose e i grassi arati degli uomini; Perfino in riva al mare canuto cadon le falde, sui golfi e le punte, E l’onda dove lambisce le ferma; ma tutto il resto È coperto e nascosto, quando s’abbatte la tormenta di Zeus, Fitte così volavano di qua e di là le pietre, Queste contro i Teucri, quelle dai Teucri contro gli Achei, Ché sempre scagliavano: un rombo per tutto il muro s’alzava.”
Iliade: il mondo omerico La forza che rende grandissima l’ Iliade è racchiusa nella poesia che sta alla base del racconto, in cui ritroviamo tutto ciò che ci è noto, tutto ciò che appartiene al nostro mondo, trasfigurato ed elevato a simbolo. Omero costruisce così un mondo che ha una sua temporalità ma anche una sua spazialità, che si dilatano ad evento cosmico. Troviamo così i tre Regni: gli Inferi, dominio di Ade, il cielo, il cui re assoluto è Zeus, il mare su cui regna Posidone. La terra e in comune, luogo fisico dove dei ed umani consumano la loro esistenza. Il cielo viene disegnato con i suoi astri, la luna, il sole, le costellazioni, il sorgere dell’ aurora, il tramonto della notte, che diventano il quadro essenziale della vita quotidiana. Non siamo più abituati a soffermare lo sguardo sulla luce della luna che illumina la notte, sull’instancabile dialogo delle stelle che si inseguono, sul sorgere dell’alba che Omero chiama “ροδοδάκτυλος”. Non è sentimentalismo ma necessità di fermare lo sguardo e l’anima su una parte fondamentale della nostra esistenza, che ha risonanze profonde sul nostro modo di vivere e provare sentimenti profondi. Di sconvolgente fascino doveva poi essere, a chi arrivava nella zona, per mare o per terra, la visione della pianura di Troia, con la rocca di Pergamo, con la quercia e il fico, le due fonti da cui scorreva acqua fredda e acqua calda, il rialzo del Collicolone con i due fiumi, lo Scamandro e il Simoenta, il monte Ida da un lato e l’Ellesponto dall’altro. Abbiamo poi la madre patria greca con Argo, Micene, Pilo, Tebe in Beozia, l’Etolia e tutte le contrade nominate nel catalogo delle navi. Ancora il mare, distesa infinita, fonte di pace ma anche di dolore e di morte. Per noi, ormai, è solo una distesa d’acqua da utilizzare per gli scambi commerciali, da temere per i suoi sconvolgimenti che portano distruzione e morte. Per i Greci, invece, il mare è popolato tanto quanto la terra e il cielo. Vi abitano Posidone, le Nereidi accanto al padre Nereo, e fra esse Teti, la madre di Achille, che emerge “come una nebbia” dalle onde. Vediamo ancora i grandi fiumi che sfociano in mare,l’Acheloo e lo Spercheo: tutto è circondato dal fiume universale Oceano, origine e gli dei e degli uomini. Ci sono poi le attività terrene, descritte con abbondanza di immagini: i banchetti, i sacrifici, le Troiane che lavano e tessono, i figli che giocano vicino le madri. Tutta la realtà si presenta agli occhi dell’uomo non ha nulla di statico: tutto si muove, tutto è posseduto da un’immensa “en-ergheia” (forza interiore). Che rimpianto per questo mondo e per la capacità visiva interiore di questi uomini, che scorgono sempre, in ogni atto della natura della vita, un significato che desta stupore; non c’è bisogno, come ormai è nostra abitudine, dare un giudizio su ogni avvenimento e persona: la vita è osservare con animo e occhi liberi da pregiudizi, con il solo scopo di cogliere il bello, l’armonia di ogni avvenimento e/o fenomeno. In tutto questo predomina sicuramente il male e il dolore, ma essi sono parte del creato e in esso vanno collocati dando loro un senso che non porti all’angoscia.
Iliade: analisi generale L’Iliade è il poema della guerra di Troia (Ilio), ma non è solo un racconto di guerra né solamente un poema di eroi. Se teniamo conto dell’epoca in cui Omero la scrisse(VIII° secolo a.C) possiamo trovare, nel modo in cui tutta la storia si sviluppa, l’intervento del fattore umano, l’inizio di una psicologia del comportamento umano che probabilmente risultò straordinaria ai lettori delle epoche successive. Ricordiamo che il mondo descritto da Omero non è quello della polis greca che siamo abituati a conoscere: affermazione della democrazia, figure e imprese eroiche a difesa della libertà della Grecia, fino alla conquista macedone. Omero, a posteriori, ci introduce in un mondo ormai scomparso, in cui eroi e dei dominavano la scena e preparavano l’avvento della Grecia classica del V° e IV° secolo a.C. Il poeta riveste tutti questi avvenimenti di un’aura,” umanistica” al cui centro si colloca l’avventura umana, con le sue passioni, le sue paure, le sue aspirazioni, il suo credo religioso. Si stagliano così i temi generali e universali della vita umana, che trasformano il poema di guerra in un evento universale. Si dichiarano così i tre temi conduttori dell’Iliade: 1) La morte: tutti i 24 canti sono permeati da questa visione di stragi, di ferite, di amputazioni, di odore di cadaveri abbandonati in pasto agli avvoltoi. Tutto culmina nella morte dei due protagonisti: Ettore, la cui fine viene descritta minuziosamente e Achille, su cui aleggia la premonizione della madre Teti: “ la morte per te è subito pronta, dopo quella di Ettore”(XVIII,96). 2) L’ira: è questo l’elemento più tradizionale, in cui l’eroe viene sopraffatto dalle passioni, che lo portano ad abbandonare i combattimenti e i suoi alleati questa passione assume toni così drammatici da sconvolgere il corso degli eventi; solo verso la fine, con la morte dell’amico Patroclo, Achille comprenderà quanto devastante, per gli Achei e per se stesso, sia stato l’abbandonarsi a tale ira sfrenata. 3) La compensazione: è questo l’elemento innovativo di Omero: sia gli dei che Achille comprendono che tutto ciò che è accaduto ha mutato i loro animi; tutto deve concludersi nell’affermazione dell’umana fragilità, rappresentata dalla visione del corpo senza vita di Ettore, dalle lacrime del re Priamo e di Achille stesso. Tutto ritorna all’uomo e al suo destino, tutto si ricompone nella solidarietà tra esseri umani, sola forza indistruttibile e sola pacificatrice dell’ansia di esistere.
Potremmo schematizzare così ciò che ci fa amare questo poema: Descrizione degli avvenimenti Sguardo di insieme su questo mondo Fenomeni naturali Passioni Dolore Morte Pietà Desiderio di conoscere sempre più ciò che ci ha preceduto e che ha formato il nostro patrimonio culturale, spirituale ed emotivo. Io, con il mio mondo interiore, sono Omero, Pindaro, Platone, Eschilo, Sofocle, Euripide. In me risiede la poesia del creato e dell’animo umano. Io sono il senso dell’esistenza del creato, con i miei simili, con cui creo un’empatia cosmica che va al di là dei contrasti e delle incomprensioni. “ Noi spariremo, verranno sciacalli, iene, agnelli. Ma noi Gattopardi resteremo come il sale della terra.” Il Gattopardo, Tommasi di Lampedusa Solo così noi potremo accettare la nostra morte, quella di chi ha condiviso questo tragitto sulla terra e potremo fare nostre serenamente le parole del principe di Salina: “ Stelle luminose, quando mi indicherete un cammino meno provvisorio, mete meno effimere?”
Personaggi principali dell’Iliade: Greci Andromaca: moglie di Ettore e figlia del re di Cilici Achille: Figlio della Dea Teti e di Pelèo e valoroso guerriero acheo; Patroclo: Amico fraterno di Achille ed eroe greco; Mirmidoni: Popolo di guerrieri agli ordini di Achille; Agamennone: Re di Argo e di Micene, fratello di Menelao, figlio di Atreo e marito di Klitemnestra; Menelao: Re di Sparta e marito di Elena; Elena: Moglie di Menelao che, sedotta da Paride grazie a un incantesimo di Afrodite, abbandona il marito e parte per Troia; Ulisse: Re di Itaca che sarà l'autore dell'inganno col quale i Greci conquistarono Troia; Calcante: Indovino greco; Aiace Telamonio: Eroe greco, re di Salamina Nèstore: Eroe greco, re di Pilo Diomede: Eroe greco, principe degli ètoli
Personaggi principali dell’Iliade: Troiani Priamo: Re di Troia e padre di Ettore, Paride, Cassandra, Cebrione (non legittimo); Cassandra: Profetessa, figlia di Priamo Paride: Principe Troiano figlio di Priamo e provocatore della guerra; Ettore: Eroe di Troia e fratello di Pàride; Ecuba: Moglie di Priamo Enea: Figlio di Anchise ed Afrodite.
Canto IV Canto V Canto VI Canto VII Canto I Canto II Zeus, con un sogno ingannevole, suggerisce ad Agamennone l’idea di attaccare Troia con tutte le truppe. Per saggiare il morale dei soldati, il re finge dapprima di ordinare il ritorno in patria e solo a stento riesce a impedire che gli uomini si precipitino alle navi. Dopo essersi rifocillati, gli Achei muovono in armi e i Troiani si preparano allo scontro. Il canto si chiude con il “catalogo delle navi”, a cui segue l’elenco dei guerrieri schierati a difesa di Troia. Canto III Prima che gli eserciti si affrontino, Menelao scorge Paride, il rapitore di sua moglie Elena e si lancia contro di lui. Su richiesta di paride, si stabilisce che le ostilità siano sospese e che la sfida tra i due sia decisiva per l’esito della guerra. Dalle mura di Troia, Elena indica a Priamo i più famosi guerrieri greci. Il duello inizia e menelao sembra avere la meglio, ma Afrodite gli toglie dalle mani l’avversario e lo trasporta in salvo fra le braccia di Elena. Gli Achei chiedono che Menelao sia proclamato vincitore. Canto IV Il troiano Pandaro, su consiglio di Atena, scaglia una freccia contro Menelao, ferendolo lievemente: la tregua è violata. Agamennone gira tra le truppe incitandole a punire il nemico che no ha rispettato gli accordi. La battaglia divampa furiosa. Canto V Diomede fa strage di nemici; lo affrontano Enea e Pandaro: il primo viene ferito, il secondo ucciso. Nel tentativo di salvare il figlio, Afrodite è colpita alla mano e deve fuggire sull’Olimpo. Ares si schiera a favore dei troiani, mentre Era e Atena parteggiano per gli Achei. Anche Ares viene ferito e si rifugia sull’Olimpo. Canto VI Ettore rianima i Troiani. Diomede e Glauco stanno per affrontarsi, ma scoprono che tra loro esiste un antico legame di ospitalità. Ettore ritorna in città per chiedere alla madre Ecuba di pregare Atena e poi incontra la moglie Andromaca e il figlioletto Astianatte in quello che sarà il loro ultimo saluto. Canto VII Ettore lancia una sfida a un guerriero che voglia combattere con lui: viene scelto Aiace Telamonio, ma la notte separa i due eroi. Il giorno successivo si celebrano i riti funebri per i caduti di entrambe le parti. Gli Achei erigono un muro in difesa delle navi. Canto I Apollo suscita una terribile pestilenza nel capo acheo per vendicare l’offesa recata al proprio sacerdote Crise, a cui Agamennone ha rapito la figlia. Agamennone, durante l’assemblea, per restituire Criseide, chiede in cambio la schiava di Achille. Achille, indignato, lascia l’assemblea e giura di non combattere più.
Canto VIII Canto XI Canto XII Canto XIII Canto XIV Inizia una nuova battaglia, favorevole ai Troiani. Ettore, scatenato, ferisce Teucro e Zeus ispira nuovo ardore ai Troiani, ordinando a Era e Atena di non soccorrere gli Achei. Canto IX I capi achei si riuniscono a consiglio, per decidere sul da farsi. Viene deciso di mandare una delegazione da Achille, guidata da Odisseo, Aiace Telamonio e fenice, per chiedergli di tornare a combattere. Achille rifiuta e annuncia di voler tornare in patria. Canto X E’ il canto delle esplorazioni notturne. Diomede e Odisseo per gli Achei, Dolone tra i Troiani. Il canto viene anche chiamato “Dolòneia” I due Achei catturano Dolone, gli strappano alcune informazioni e lo uccidono. Diomede e odisseo penetrano poi nel campo troiano, facendo strage di Traci. Canto XI Nuovo giorno, nuova battaglia. Agamennone, dopo aver eroicamente combattuto, viene ferito e Diomede viene colpito al piede da una freccia di Paride. Il vecchio nestore illustra a Patroclo la gravissima situazione degli Achei e Patroclo promette di parlare con Achille. Canto XII I Troiani incalzano i nemici fin presso il muro difensivo presso le navi; tra di essi si mettono in evidenza Sarpedone e Glauco. Ettore scradina con un masso la porta della muraglia e apre la via ai suoi: gli Achei fuggono verso le navi. Canto XIII Interviene Poseidone in difesa degli Achei e l’assalto troiano viene respinto. I Troiani sembrano in difficoltà, quando vengono scossi da un grido terribile di Ettore. Canto XIV Era distrae Zeus per poter aiutare gli Achei: con un inganno ottiene da Afrodite, in prestito, il suo cinto che è un irresistibile strumento di seduzione. Zeus viene colto da improvviso ardore amoroso per la sposa,i due si amano sul monte Ida e Zeus, dopo l’amplesso, si addormenta. Gli Achei, così, incitati da Poseidone, riprendono in mano la situazione.
Canto XV Libro XVI Libro XVIII Libro XIX Canto XX Zeus si risveglia e, resosi conto della situazione, si arrabbia con Era e da ordine a Iris di allontanare Poseidone dalla battaglia. Apollo incita Ettore e i Troiani, per la seconda volta, superano il muro. Scontro tra Ettore e Aiace Telamonio. Libro XVI Mentre su una nave divampa l’incendio, Patroclo ottiene da Achille la sua armatura per entrare in battaglia. Il suo arrivo terrorizza i Troiani, che lo scambiano per Achille. Patroclo arriva fin sotto le mura di Troia ma viene affrontato e ucciso da Ettore. Libro XVII Ettore spoglia delle armi il cadavere di Patroclo e le indossa. Gli Achei più valorosi difendono il corpo di Patroclo, finché Menelao e Merione riescono a riportarlo verso le navi. Libro XVIII Achille, appresa la morte dell’amico, è straziato dal dolore. La madre Teti accorre a consolarlo e gli promette nuove armi Per tutta la notte gli Achei piangono Patroclo. Teti si reca da Efesto e ottiene da lui una nuova armatura. Meraviglioso è soprattutto lo scudo. Libro XIX Achille convoca l’Assemblea e si riconcilia con Agamennone, ottenendo da lui la restituzione di Briseide Gli Achei si rifocillano prima della battaglia; Achille medita vendetta e si prepara alla battaglia. Canto XX Zeus concede agli dei si scendere in campo a fianco degli eroi preferiti. Enea affronta Achille e sta per soccombere, quando viene salvato da Poseidone. Sotto i colpi di Achille muore Polidoro, fratello di Ettore.
Libro XXI Libro XXII Libro XXIII Libro XXIV I Troiani fuggendo da Achille, giungono alla Scamandro ma vengono raggiunti dall’eroe che ne fa strage. Il fiume, sdegnato che le sue acque siano lordate di sangue, tenta di travolgere con un’onda Achille che viene salvato da Efesto che asciuga le acque con il fuoco. Libro XXII Solo Ettore è rimasto fuori dalle mura Scee, deciso a battersi con Achille. Inizialmente viene preso da timore e fugge, inseguito dall’eroe greco. Dopo aver percorso per tre volte il giro delle mura, Ettore viene ingannato da Atena, che gli compare nelle vesti del fratello Deifobo e si ferma. Achille uccide Ettore e, come estremo oltraggio, trascina con il carro il cadavere attorno alla città. Dall’alto delle mura assistono, impietriti, Priamo, Ecuba e Andromaca. Libro XXIII Achille da sepoltura a Patroclo, in onore del quale vengono celebrati giochi funebri, a cui partecipano i migliori Achei che si cimentano in varie specialità atletiche. Libro XXIV Per nove giorni Achille infierisce sul cadavere di Ettore, finché Teti lo esorta a restituire il corpo. Quando Priamo, guidato da Ermes, arriva alle tende degli Achei per riscattare il figlio morto, Achille si commuove alla vista del dolore del vecchio. Priamo torna in città con il cadavere di Ettore, cui viene data una splendida sepoltura.
Libro primo L’Iliade, come in ogni poema epico dell’età arcaica, si apre con la “Protasi” o invocazione alla Musa, che deve assistere il Poeta nella composizione. La preghiera è rivolta alle Muse in quanto esse sono figlie di Mnemosyne, la Memoria: dal canto epico trasmesso per via orale, si passa alla codificazione del racconto scritto, che richiede grande capacità mnemonica a cui si aggiunge il dono dell’ispirazione, frutto della benevolenza divina. Il poeta racconta attraverso la voce della Musa e il riconoscere in lei la fonte della narrazione propizia lo svolgersi del racconto. “ L’ ira di Achille”: è uno dei temi del ciclo troiano di cui l’Iliade rimane l’unico testo a noi pervenuto; purtroppo nulla ci è giunto di antecedente e possiamo solamente pensare che l’Iliade rappresenti l’anello conclusivo di una lunga tradizione orale, portata a perfezione stilistica e poetica da Omero. Nel primo libro si descrive l’origine di questa ira, causata da un affronto operato da Agamennone, il comandante supremo, Che sottrae la schiava Briseide ad Achille come compenso per aver dovuto restituire al padre Crise, sacerdote di Apollo, la figlia Criseide. Il primo libro si può pertanto così schematizzare:
la peste falcia l’esercito acheo Protasi Racconto dell’ira di Apollo per il torto subito dal suo sacerdote Crise, a cui Agamennone ha sottratto la figlia. Agamennone ignora le suppliche di Crise, che chiede e ottiene vendetta da Apollo: la peste falcia l’esercito acheo Riunione dei capi achei, a cui l’indovino Calcante rivela la causa della peste. Agamennone si rifiuta di cedere Criseide, a meno di ricevere in cambio un premio di pari valore, cioè la schiava di Achille, Briseide. Achille, furioso per l’oltraggio subito, scaglia a terra lo scettro, abbandona la riunione annunciando di ritirarsi, con i suoi Mirmidoni, dalla guerra. Briseide viene prelevata dalla tenda di Achille e portata ad Agamennone. Achille si siede sulla riva del mare e piange, invocando sua madre Teti. Teti, seduta a fianco del figlio, promette che il torto verrà vendicato dallo stesso Zeus. Colloquio Teti – Zeus, in cui la Dea chiede al re degli Dei di abbandonare gli Achei fino a che il torto non sarà riparato. Zeus assente con un cenno del capo che fa tremare l’Olimpo. Riunione degli Dei, in cui Zeus annuncia la sua decisione. Litigio con la moglie Era, che sostiene gli Achei. Il volere di Zeus, tuttavia, prevale.
L’origine della parola Μῆνιν (Ira) Ἀνδρα (Uomo) Ecco le due parole che determinano l’inizio della nostra letteratura occidentale. Una esprime uno stato d’animo, l’altra identifica l’insieme dei componenti la personalità umana, che saranno sviluppati nel corso dell’Odissea. I due momenti in cui si presentano le rispettive parole sono distanti uno dall’altro: nel primo termine abbiamo l’indicazione che tutta la vita sia ira, dolore, morte, anche se poi si vedrà che non è proprio così. Nel secondo, il cambio di prospettiva è grande, si cerca di definire un uomo nella sua totalità, soprattutto nella sua capacità di affrontare dolori e disgrazie con animo fermo e deciso, ben chiara nella mente la meta finale.
Due grandi scene occupano il Canto I: Achille convoca un’assemblea dell’esercito, durante la quale giunge a una lite fatale con Agamennone. Teti si reca da Zeus, il quale dopo un lungo silenzio accoglie la sua preghiera e conferma la sua decisione con un cenno del capo che fa tremare l’Olimpo. Momenti poetici e sapienziali nel Canto I: V. 69: “Calcante……./che sapeva le cose che furono, sono e saranno.” Il potere profetico, in tutta l’antichità, era affidato a personaggi rivestiti di un’aura misteriosa, in contatto diretto con la divinità. Nei tragici classici, sovente si trovano queste figure, per esempio nell’Edipo Re di Sofocle, dove essi tentano, inutilmente, di strappare gli uomini dalla loro visione limitata della realtà. Ma l’uomo disprezza chi contatta le stelle, perché la sua cecità lo illude di sapere tutto e di non avere bisogno dell’aiuto dei profeti. Ma il Greco sapeva affidarsi alla visione ultraterrena, come nel caso dell’oracolo di Delfi, a cui si rivolgeva ogniqualvolta la sua razionalità lo poneva ad un bivio oscuro. Tutta la filosofia presocratica ha il carattere di un messaggio sapienziale, in particolare Eraclito, detto “l’oscuro” per i suoi messaggi di difficile interpretazione. Ricordiamo il frammento in cui Eraclito sembra riassumere il suo pensiero: “la natura ama nascondersi”. V. 201 “e, articolando la voce, le rivolgeva parole che volano”. Tutto, nei poemi omerici, assume forma e significato. Il dialogo fra 2 persone o tra umani e dei, si riveste di concretezza. Ma si tratta di una concretezza poetica (apparente contraddizione) che interrompe di colpo la narrazione e fa capire come anche Omero, al pari dei profeti di cui si parlava prima, riceva da mondi lontani l’ispirazione che dà le ali alla poesia. Poco più avanti, un altro squarcio di luce: “dalla cui lingua più dolce del miele scorreva la voce” (V. 249) Si è già sottolineata l’importanza delle immagini naturali, nell’Iliade e ancor più nell’Odissea; ogni pagina ne è piena ed è impossibile riportarle tutte. I Greci erano navigatori e allora le rotte marine diventano: “liquide strade” (V.312); il mare viene descritto in tutti i suoi modi di manifestarsi e, al V. 316, lo troviamo definito “irrequieto”, forse a significare il suo continuo movimento o forse per i pericoli a lui connessi. Vv:458 – 474: “Allora, dopo aver pregato e lanciato i chicchi d’orzo, sollevarono/prima all’indietro le teste degli animali e li sgozzarono/e li scuoiarono e tagliarono le cosce e le avvolsero nel grasso/facendo un doppio strato, e sopra vi sparsero pezzi vari di carne;/il vecchio le bruciava sulla legna e vi libava sopra/vino scintillante; i giovani, accanto a lui, reggevano le forche./Quando poi le cosce furono bruciate ed ebbero mangiate le viscere,/tutto il resto divisero in pezzi ed infilarono sugli spiedi,/ed arrostirono con cura, e tolsero poi dal fuoco./Quando poi ebbero terminata la fatica e preparato il banchetto,/banchettavano, né all’appetito era negata la giusta porzione di cibo./Quando poi si furono tolta la voglia di bere e mangiare,/i ragazzi riempirono di bevanda i crateri/e distribuirono a tutti, libato nelle coppe il primo vino;/per tutto il giorno quelli col canto placavano il dio,/intonando un bel peana, i figli degli Achei,/e celebravano il Saettatore; questi, ascoltando, godeva in cuor suo.”
Sono qui descritte le fasi fondamentali del sacrificio animale, cioè l’uccisione ritualizzata di una vittima. Una volta sgozzato l’animale, vengono bruciate le cosce o le ossa delle cosce avvolte nel grasso. Su di esse sono deposti piccoli pezzi di ogni altra parte, allo scopo di ricomporre simbolicamente l’essere smembrato e di offrirlo al dio: Contemporaneamente si compie una libagione, cioè si offre al dio una piccola quantità di vino, versandolo a gocce sulle fiamme. La cerchia più ristretta degli officianti ha il privilegio di mangiare le interiora, quindi vengono arrostite sulla brace le restanti parti, destinate al banchetto, a cui prendono parte tutti. L’offerta preliminare dei chicchi d’orzo sta a significare il desiderio di comprendere nell’offerta anche elementi del mondo vegetale.
Libro II Sogno di Agamennone: Troia sarà presa in giornata; il sogno personificato, mandato da Zeus, inganna l’Atride. Agamennone mette alla prova l’esercito acheo, invitandolo a fuggire; Odisseo li incita invece a combattere. Catalogo delle navi: vv.761-815 Catalogo degli eroi e dei migliori cavalli: vv. 761-815 Catalogo dell’esercito troiano: vv.816-fine I cataloghi hanno una funzione di memoria storica, in un mondo in cui prevaleva la tradizione orale. Sogno: esistono due tipi: -sogno oggettivo, in cui chi dorme viene visitato da una persona, un Dio, uno spettro, non creato dalla mente del sognatore. sogno soggettivo, in cui è la mente ad elaborare visioni. - Aussentraume - Innertraume 2) Il sorgere del giorno: v 48: qui si parla solo dell’ Aurora, ma in molti altri punti l’aurora viene aggettivata come “rododàctulos”, “dalle dita rosate”. Solo chi ha l’animo disposto alla contemplazione, solo chi sa vedere e ammirare il mondo che lo circonda, può associare al sorgere del sole quel rosa delle nuvole che davvero sembrano dita di una mano. Poesia non è solo un viaggio interiore nei meandri della mente ma anche capacità di fermare il proprio sguardo sulle bellezze del creato e poi trasformare queste immagini reali in pensieri di quiete interiore. In epoca recente, basti pensare all’Infinito di Leopardi. 3) Immagini del mare: nel libro II abbondano le similitudini marine attraverso cui Omero rende le immagini di ciò che avviene sulla terra, tra gli eserciti schierati. Al v. 144 vediamo il dispiegarsi dell’esercito acheo, riunito in assemblea: magnifico il paragone di questa moltitudine di persone con le onde del mare che si prolungano all’infinito senza interruzione. Anche la cadenza del verso, in greco, sottolinea il senso di infinito del mare: “xumata maxpà thalasses”.
Al verso 455 possiamo notare alcune similitudini che si susseguono, allo scopo di evidenziare il moto inarrestabile dell’esercito acheo che si prepara alla battaglia. Dapprima un’immagine di luce abbagliante, poi l’immagine sonora, inizialmente tranquilla, dello stormo di oche e di gru, poi il fastidio dello sciame di mosche. Non è un caso la disposizione di queste tre similitudini: il poeta vuole incalzare la nostra immaginazione fino a portarla all’ansia di strage e morte che dagli eroi achei si trasferisce nei nostri cuori. Poi il quadro si fa più particolareggiato e possiamo vedere, sulla piana di Troia, distintamente, i vari gruppi con i loro comandanti; il centro è occupato da Agamennone, duce supremo dell’esercito, paragonato al toro che pascola in mezzo al gregge ma che sa distinguersi dal gruppo per possanza e valore. Al verso 494 inizia il catalogo delle navi, chiamato anche “boiotìa”, in quanto inizia con le 50 navi dei Beoti. Il catalogo ha un triplo valore per noi: - geografico, in quanto ci fa conoscere le varie regioni della Grecia. - topografico, in quanto ci parla di ogni gruppo che partecipa alla spedizione. - storico, in quanto è un affresco del mondo antico, con i suoi equipaggiamenti di guerra, i re e principi che lo governano, le discendenze storiche e mitiche. Il numero totale delle navi è 1180; il numero totale dei guerrieri viene calcolato, dagli antichi commentatori, in 142.300. Al verso 816 inizia il catalogo delle forze troiane, formate da: Troiani in senso stretto, cioè gli abitanti di Troia, comandati da Ettore. - Gli alleati della Troade.
Tersite: Iliade, II, 274-352 Durante la confusione che sorge in seguito alle parole di Agamennone e Odisseo, a proposito dell’idea di lasciare Troia e la guerra, prende la parola Tersite, l’Impudente, che tenta con un veemente discorso di convincere gli Achei a partire, lasciando Agamennone da solo a Troia. I versi che il poeta dedica al ritratto di Tersite ne fanno il prototipo dell’antieroe, sia fisicamente (è calvo, zoppo e gobbo) sia moralmente (è vile e malevolo). La sua caratteristica più degradante è costituita dall’assoluta incapacità di comprendere la dimensione eroica della vita, interpretata da lui secondo una visione plebea e grossolana, finalizzata a scoprire volgarità e bassezze negli eroi più grandi e nelle gesta più gloriose. Sappiamo, da altre tradizioni antiche, che Tersite era un uomo di nobili origini; nell’Etiopide, poema ciclico perduto, egli partecipava alla spedizione a Troia come principe degli Etoli ed era cugino di Diomede. Notevole il fatto che qui Tersite, mentre esorta i soldati a rientrare in patria, riprende le stesse argomentazioni che Achille aveva usato, nel canto I, quando aveva dichiarato il suo odio nei confronti di Agamennone. Ciò rivela un raffinato intento artistico: Tersite, a rigore, parla bene, ma poiché ripete le parole di Achille senza possederne le qualità e i meriti, il suo discorso è del tutto inadeguato. Nella mentalità epica il valore di qualsiasi discorso non dipende tanto dal suo contenuto, quanto dalla virtù di chi lo pronuncia. V 219: la calvizie di Tersite è un tratto che lo allontana dal mondo eroico: nei poemi omerici gli Achei sono spesso designati con l’epiteto “xaph xomoontes”, cioè “dai lunghi capelli”. V 241: sorprendente che Tersite svilisca l’ira di Achille proprio quando tutto il poema è basato su quell’ira e le conseguenze a cui essa porta. Come curiosità, segnalo che per indicare l’ira Omero usa il termine “Xolos” che significa letteralmente “bile”. V 270: in mezzo ad una scena di preparazione alla battaglia, con tutte le truppe pronte al combattimento, fa da contrasto questa scenetta di ilarità generale, che sembra portare un attimo di svago nel tumulto dei sentimenti di dolore e di morte che invadono gli animi dei combattenti.
Elena sulle mura di Troia, Iliade III, 170-322 All’inizio del canto III i due eserciti nemici si fronteggiano; Ettore propone ai greci una soluzione che eviti la strage: Paride si batterà in duello con Menelao e il vincitore si terrà Elena. La dea Iris raggiunge Elena e la invita a assistere al duello dall’alto delle mura. Priamo e i vecchi di Troia assistono dall’alto mentre Elena indica loro i capi dei Greci. Si tratta di una situazione che in origine doveva avere luogo al principio della guerra; è impossibile che dopo 10 anni di guerra, Priamo non conosca ancora i condottieri nemici. Questo spiega il processo formativo del poema in cui confluivano materiali concepiti indipendentemente. La verità dell’Iliade appartiene alla sfera dell’arte e la presentazione dell’ eroina che fu causa di tanti lutti per Greci e Troiani cade nell’esatto momento di tensione. Elena appare come oggetto passivo della contesa ma tale ruolo è riscattato dagli spasimi umani che la travagliano: il rimorso e la vergogna, la nostalgia per la figlia e le compagne, le memorie di un tempo che appare irrimediabilmente perduto, il rimpianto del primo marito. Nell’alta malinconia di Elena, che culmina nella sgomenta constatazione dell’assenza dei suoi grandi fratelli fra i Greci e nel tentativo di inventare le ragioni che distolgono il sospetto della verità, ormai tutto è lontano, divorato dallo scorrere del tempo che gli eroi omerici raramente avvertono, ma che rappresenta il motivo sottinteso di questo episodio. V 211: la gentile apostrofe, in cui si concentra l’umanità del vecchio re, dimostra che per lui Elena, come sposa di Paride, fa ormai parte della famiglia. V 182: Omero si sofferma sul lato umano di Elena, che, nel vedere Menelao prepararsi al duello con Paride, sente rinascere in sé una nostalgia per i tempi passati con lui, per i suoi cari e la sua patria. Già gli antichi avevano elaborato una versione favorevole a Elena, dicendo che non lei in persona, ma un suo simulacro, era presente a Troia. La passione improvvisa che invade l’animo di Elena e che la fa fuggire dal suo sposo si è ormai assopita: sa che Troia, prima o poi, cadrà e lei dovrà rendere conto del suo operato. Quando la rivedremo, nell’Odissea, nuovamente regina di Sparta, accanto a Menelao, troveremo un’altra donna, maturata attraverso il dolore e serena accanto all’uomo che aveva sposato. Sembra che il ruolo di amante infedele mal le si addica e proprio qui ne abbiamo una prima avvisaglia. V 270: molto bella e profonda la distinzione che Antenore fa del carattere dei due guerrieri – ambasciatori: Menelao, uomo di poche parole che sa però arrivare al nocciolo della questione; Odisseo scaltro, dall’aspetto più rozzo e impacciato, ma grande tessitore di trame e inganni. Ià qui sdi delinea il “polutròpos” che saprà trovare sempre una soluzione, al tempo stesso ingegnosa e ingannatrice, ad ogni suo problema. Ricordiamo che sua sarà l’idea del cavallo, che segnerà la fine della guerra. v. 312: Castore e Polluce sono i Dioscuri, figli di Zeus e della madre di Elena, Leda. Essi sono già morti; secondo un’altra tradizione invece Polluce, che era immortale, avrebbe trasmesso l’immortalità al fratello ed essi dimoravano sull’Olimpo e nell’oltretomba a giorni alterni.
Glauco e Diomede: Iliade VI,150-295 Nel folto della battaglia si incontrano due guerrieri e, come prescrive il codice cavalleresco degli eroi omerici, prima di affrontarsi, si presentano, dichiarando ciascuno la patria, i genitori e gli antenati. In questo modo il troiano Glauco e il greco Diomede scoprono di essere legati da un vincolo di ospitalità, poiché lo furono i loro padri: il duello non può aver luogo. Poiché le armi di Glauco erano d’oro e quelle di Diomede invece di semplice bronzo, gli antichi considerarono questo episodio come esempio di ingenuità commerciale e coniarono il proverbio “oro in cambio di bronzo”. Questo episodio offre due momenti altamente poetici: la prima e unica menzione di Dioniso nei poemi omerici (vv 132-136) e la celeberrima similitudine “come le foglie”, con cui Glauco esprime la fugacità dei destini individuali (vv 164-170). Riguardo a Dioniso, esso non è quasi mai nominato nei poemi omerici in quanto il mito dionisiaco non presenta alcun punto di contatto con la saga troiana. La similitudine venne spesso ripresa nella letteratura greca da Mimnermo a Nonno di Panopoli. L’episodio è importante per la conoscenza del rapporto tra poeta e pubblico nella diffusione dell’epica e per l’antropologia dell’uomo omerico. In primo luogo appare significativo constatare che, quando Glauco menziona i suoi antenati, presuppone che il suo pubblico li conosca perfettamente. Questi versi pongono inoltre l’accento sull’importanza della “xenia” (ospitalità), un vincolo Di reciproca amicizia che si crea tra individui originari di paesi diversi e si estende anche ai discendenti. Zeus xenios, nume tutelare dell’ospitalità, sancisce l’inviolabilità dell’ospite in terra straniera: la violazione di questo codice è considerata nei poemi omerici particolarmente spregevole e se ne rendono colpevoli soltanto gli infami (come Paride che, ospite di Menelao, gli sottrasse la moglie Elena) o i selvaggi (come, nell’Odissea, il ciclope Polifemo). Chi dona non lo fa solo per generosità, ma per sanzionare tangibilmente il legame ospitale. V 180: facendo un salto nella poesia del 900, possiamo vedere come la similitudine delle foglie venga ripresa, sempre in ambito guerresco, da Ungaretti nella poesia dedicata alla memoria dei caduti della prima guerra mondiale: “ Si sta come d’inverno sugli alberi le foglie”. V 191: viene qui ricordato il mito di Bellerofonte, nonno di Glauco. Nel mezzo di scontri e uccisioni in campo acheo e troiano, si apre uno squarcio di umanità, con la descrizione di sentimenti forti e contrapposti: la gelosia di Antea, rifiutata; la sua vendetta contro il giovane che la rifiuta. Due versi ci descrivono la bellezza e la nobiltà d’animo di Bellerofonte (vv.192 – 193). Amore (passione), nobiltà d’animo e ira: il mondo degli affetti e dei sentimenti umani interrompe il racconto di morte.
Mito di Bellerofonte Bellerofonte è nipote di Sisifo ed era originario di Efiria (Corinto). Avendo ucciso il fratello, si rifugia dal re Proteo per purificarsi, ma qui si trova coinvolto nelle lotte per il potere fra i due fratelli Proteo e Acrisio, che si conclusero con la spartizione del regno: Proteo divenne re di Tirinto e Acrisio re di Argo. Alla corte di Proteo, la moglie del re, Stenebea o Antea, si innamorò di Bellerofonte, che la rifiutò; la donna dichiarò al marito che Bellerofonte l’aveva insidiata. Proteo allora manda Bellerofonte con una lettera da Iobate, re della Licia: la lettera chiedeva di uccidere Bellerofonte. Iobate invia allora Bellerofonte ad uccidere la Chimera, mostro dotato di tre teste (di leone, capra e serpente): Bellerofonte, in groppa al cavallo alato Pegaso, la uccide. Successivamente l’eroe viene incaricato di eliminare le Amazzoni e anche in questo caso, compie l’impresa. Iobate, resosi conto che Bellerofonte era protetto dagli dei, lo accoglie in casa e gli da in sposa la figlia Filonoe. In seguito Bellerofonte cade in disgrazia presso gli dei e viene scacciato in Cilicia, lontano da contatti con altri esseri umani. Glauco è il nipote di Bellerofonte e combatterà a Troia a fianco dei Troiani. L’intermezzo sereno occupa ancora gran parte del Canto VI, dapprima con i segni di amicizia tra Glauco e Diomede, che si rifiutano di duellare, in nome dell’amicizia che lega le loro famiglie, poi con l’incontro fra Ettore e sua moglie Andromaca, ultimo saluto dell’eroe troiano alla famiglia, presagio di una morte imminente e di un destino inevitabile.
L’incontro di Ettore e Andromaca Il canto VI si apre e si chiude con immagini di guerra: ma l’abilità evocativa della narrazione fa sì che il motivo della guerra rimanga costante anche nel racconto dell’incontro di Ettore con la sposa e il figlioletto. E’ da sottolineare l’evidenza simbolica e altrettanto realistica, dell’armatura di Ettore che spaventa il piccolo Astianatte e gli fa rifiutare l’abbraccio del padre: con un tratto di altissima poesia, anche il senso dei rapporti d’amore viene accentrato nella presenza angosciosadella guerra, che li stravolge e li blocca. Il canto VI costituisce forse il punto più alto della meditazione omerica sulla vanità stessa del confronto crudele e insensato fra gli uomini, che sono comunque destinati alla morte dalla norma di natura. Rieccheggiano qui ancora le parole di Glauco sulla sorte degli uomini. Ettore, nella sua breve sosta, riassume i momenti di un’intera esistenza, sintetizzati nella figura delle tre donne che incontra: la madre, che gli ha dato la vita; Elena, a causa della quale dovrà morire in battaglia; e infine Andromaca, la sposa e la madre di suo figlio, speranza di un futuro che continua e tuttavia già venata dall’incombere della fine e dal presentimento della rovina di Troia. Queste pagine sono il vero canto d’addio di Ettore alla vita, in un ultimo dolente sguardo di rimpianto. V. 507: Ettore attraversata la città, giunge nuovamente alle porte Scee,da dove dovrà uscire per scendereal campo di battaglia. Siamo fra la città e il campo, tra la vita e la morte: da una parte s’innalza la maestosa rocca di Ilio, dall’altra si distende la pianura fatale dove, di lì a poco, Ettore cadrà per mano di Achille. V. 513: l’aggettivo “polùdoros” indica propriamente la ricchezza, ma allude anche ai doni della bellezza, della pietà e delle virtù domestiche, che in Omero caratterizzano la sposa ideale. V. 520: Astianatte deriva da “astu” e “anax” e significa “signore della città”, in omaggio al valore del padre, di cui il bambino avrebbe seguito l’esempio. Ma il destino volle diversamente: Euripide, nelle Troiane, racconta come i Greci, presa Troia, uccisero Astianatte scagliandolo giù dalle mura. V. 564: Pindaro, Olimpica VIII, 42 sgg, sostiene che questa parte delle mura era più debole perché costruita non dagli dei artefici delle fortificazioni di Troia, Poseidone e Apollo, ma dal mortale Eaco, che collaborava con loro. V. 624: l’elmo che Ettore si toglie per non impaurire il bambino resta posato a terra, e con la sua presenza irraggia sull’abbraccio di padre e figlio il senso incombente della guerra. V. 627: il verbo greco è “pallo”, che indica espressivamente l’azione del padre che “palleggia” il piccolo fra le mani: è un tratto finissimo, che rientra nell’atmosfera di dolce realismo della scena. V. 658: un’altra traduzione, qui, si rivela più libera ma più aderente al sentimento della donna:”ed ella lo accolse nel seno odoroso sorridendo lacrime”: lo strazio per la tragedia imminente viene compensato da un sorriso rivolto alla vita che continua, a quel figliolo di cui lei ignora la triste sorte. Dolore e speranza, pianto e sorriso, sono le sole cose che la donna sa esprimere, rimanendo estranea al mondo e alle concezioni idealistiche degli uomini.
Morte di Patroclo All’inizio del Canto XVI, Patroclo, profondamente turbato dalla violenza con cui Ettore trascina i suoi all’assalto del muro eretto a protezione delle navi achee, si reca da Achille e gli chiede di poter entrare in battaglia vestito delle sue armi, così da atterrire i Troiani e concedere un po’ di respiro agli Achei. Achille, pur timoroso della sorte dell’amico, acconsente ma gli raccomanda di non inoltrarsi nella pianura per inseguire i nemici. Tuttavia Patroclo è vittima del suo ardore: inebriato dai suoi successi e dalla fuga disordinata dei Troiani al suo solo apparire, si lancia all’inseguimento dei nemici, giungendo fin sotto le mura di Troia. Di fronte a Patroclo si ergono due formidabili nemici: il dio Apollo, protettore dei Troiani ed Ettore. Avvolto in una fitta nebbia, Apollo colpisce Patroclo alle spalle e lo consegna, inerme, prima ai colpi di Euforbo, poi a Ettore, che lo uccide. Nella morte di Patroclo c’è qualcosa di misterioso e sovrannaturale: l’asta dell’eroe si spezza, cade a terra lo scudo, la corazza si slaccia e Patroclo è colpito da un’asta che balza improvvisa dal vivo della mischia. Il breve discorso che Patroclo morente rivolge a Ettore dimostra la consapevolezza e l’accettazione della necessità imposta dal destino: non si vanti Ettore per la sua vittoria; sappia piuttosto che Patroclo fu vinto dal destino e dalla mano di Apollo e che presto il destino gli darà la morte per mano di Achille. Le ultime parole di Patroclo non hanno solo la funzione di sancire l’inevitabilità della sorte stabilita dagli dei, ma servono anche ad imprimere un’accelerazione decisiva alla trama del poema. V. 1105: il poeta si rivolge direttamente a uno dei suoi personaggi. E’ un fatto eccezionale nei poemi omerici e contribuisce ad accrescere la tonalità patetica dell’episodio. V.1109: Apollo “simile alla notte” era sceso nel campo acheo all’inizio del poema, a provocare una tremenda pestilenza. Espressioni analoghe sono spesso usate da Omero per indicare l’invisibilità di un dio o la sottrazione di un eroe dalla mischia ad opera di qualche divinità: l’ambiguità accresce l’aura di mistero che circonda l’intervento di Apollo. V 1133: altre versioni traducono il termine “ate” con vertigine, volendo indicare l’accecamento mentale che di solito prelude alla rovina di chi lo subisce. Essa è provocata dall’intervento di un dio che determina nell’uomo comportamenti improvvisi e inspiegabili che, talvolta, vanno persino contro la volontà di chi li compie. V. 1144: l’asta scagliata da Euforbo, che ferisce gravemente Patroclo, sembra sbucare improvvisa fuori dalla mischia, senza che l’eroe abbia il tempo o il modo di evitarla. E’ possibile che l’intervento di Apollo costituisca l’interpretazione mitica di questo fenomeno: anche il più forte degli eroi può essere vittima del destino e cadere sotto i colpi di un nemico invisibile. V. 1205: la vita (psyché) vola via dal corpo del moribondo come un sospiro. Chiunque sia l’uomo che muore, il destino che attende l’anima dopo la morte è sempre il medesimo: un’esistenza oscura, fatta di un eterno rimpianto della vita e della giovinezza perdute.
Achille e Teti (Canto XVIII, 86 – 155) Giunta la notizia dell’uccisione di Patroclo da parte di Ettore, Achille cade in preda alla più desolata disperazione. Una nube nera di strazio lo avvolge, si strappa i capelli, giace nella polvere, poi singhiozza a lungo, mentre Antiloco gli tiene le mani, nel timore che l’eroe voglia trafiggersi con la spada. Pochissimi versi bastano al poeta per evocare i tratti esteriori del lutto di Achille, la manifestazione fisica del suo dolore. Poi la scena cambia all’improvviso. Nelle immobili serenità degli abissi marini, la madre Teti lo sente e partecipa alle sorelle Nereidi la sua angoscia; poi accorre sulla terra, da Achille. La dea sa che presto anche suo figlio dovrà morire, ma ancora più l’affligge il fatto di non poter alleviare il dolore che segna i suoi ultimi giorni. Questo è ciò che accomuna i due tipi di amore qui rappresentati: l’amore per il figlio e quello per l’amico. In entrambi, Teti e Achille, vive l’angoscia di vedere l’amato travolto dal destino, senza poter fare nulla per sottrarlo alla crudeltà inesorabile di ciò che è stabilito. Anche Achille, rispondendo alla madre, pone l’accento sull’inutilità della sua vita, dal momento che a niente è valso il suo amore, se Patroclo è morto senza che lui potesse portargli aiuto. Nel discorso di Achille, il dolore si è fatto più cupo e interiore, mentre si fanno più chiari, nel ragionamento, i motivi universali che uniscono l’angoscia individuale alla sofferenza della comune condizione umana. La morte di Patroclo induce Achille a meditare sulla morte di tanti altri giovani e a riconoscere gli ingiusti e fatali effetti dell’ira, che avvolge nel suo fumo il cuore dell’uomo. La rivelazione della propria inadeguatezza umana si identifica, per Achille, con quella, ancor più profonda, dell’inutilità della guerra e della vita stessa, quando questa sia votata non più all’amore ma alla solitudine. V.111: le splendide armi di Achille erano state offerte come dono a Peleo dagli dei nel giorno delle sue nozze con Teti. V. 153: altri traducono le Chere, generalmente identificate con le Parche; tuttavia le Chere hanno un compito più specifico, simboleggiando le morti violente in battaglia. Figlie della Notte, il loro numero è variabile nel poema. A questo punto è utile analizzare da vicino il significato della parola “θυμός”, che ricorre infinite volte nel poema. Ne disperato colloquio di Achille con la madre, questa parola ricorre tre volte con altrettanti significati diversi. Al verso 118 l’eroe lo usa per indicare il proprio interiore come sede di un impulso individuale, quasi attribuendogli la concretezza di un organo, il cuore. Al verso 122 il termine significa la “vita” fisica dell’individuo, che si annulla nella morte. Al verso 150 indica una specifica emozione, che qui è la collera, ma in questo uso rientra un’estesa gamma di comportamenti che vanno dal “desiderio” al “coraggio”, dalla “volontà” allo “sdegno”.
La rappresentazione epica della mente umana, come sede di pensieri e sentimenti, coincide con la graduale scoperta della propria interiorità da parte dell’uomo primitivo, Egli opera come se osservasse da un punto di vista esterno ciò che accade in lui stesso: infatti la sua esperienza abituale ha per oggetto le cose e gli eventi del mondo e da ciò dipende la tendenza primitiva a oggettivare, come distanziandoli dal soggetto, anche i fatti dell’interiore. I termini relativi alle attività interiori tendono così a esprimere simultaneamente due livelli di realtà: il “luogo” corporeo in cui esse si formano e la loro manifestazione nell’individuo. “θυμός” sono la gioia, il piacere, l’ira, l’amore; ma “θυμός” è anche l’organo, “animo” o “cuore” che li produce. L’uomo primitivo ritiene che esso sia unico e comune per tutti i fatti interiori. Al campo delle passioni appartiene il terzo di questi casi, mentre il primo riguarda il significato di “θυμός” come forza attiva e impulso generatore. Da questo significato, come manifestazione di vitalità dell’individuo, assimilabile al più usato termine di “ψυχή”, “anima”, “spirito vitale” dipende il significato di “θυμός” come vita intesa come funzione di esistere. Nella storia successiva della lingua greca, questo valore tende a scomparire e θυμός” passò a significare sia una serie di comportamenti promossi da passioni ed emozioni, sia l’energia interiore che incita l’individuo all’azione o, comunque, alla soddisfazione di un proprio impulso, al di là di ogni valutazione razionale, di tipo pratico o morale.
Lo scudo di Achille Dopo la morte di Patroclo, le armi di Achille sono cadute in possesso di Ettore e l’eroe greco, per vendicare l’amico scendendo in battaglia, deve procurarsi una nuova armatura. Sebbene angosciata per l’ormai inevitabile destino del figlio, è Teti a recarsi dal fabbro divino, Efesto, per ottenere da lui i terribili strumenti di strage. Efesto compiange la pena della madre e il fasto del giovane eroe; ma l’unico conforto non può essere che forgiare per lui la più splendida delle armature ed egli si accinge subito all’opera, ponendo mano allo scudo , che è l’orgoglio e l’insegna del guerriero. Si apre qui un’ampia sezione, che inaugura un modello stilistico desdtinato ad avere grande fortuna nella letteratura greca: la “exfrasis”, ossia “digressione” di carattere descrittivo, che interrompe il racconto dei fatti con la raffigurazione verbale di un’opera d’arte, di un paesaggio, di un’architettura o di altri soggetti analoghi. Le scene raffigurate sullo scudo evocano l’esistenza stessa dell’uomo e della società, che si snoda in un succedersi di momenti essenziali. Il lavoro e la festa, la città della pace e quella della guerra, i ritmi dei campi e la presenza corposa dei paesaggi e degli animali, i tribunali e le nozze e i giochi si alternano nella gioia creatrice dell’artista divino e di quello umano. La normalità delle occupazioni quotidiane costituisce così un antidoto potente ai tragici traumi del mito guerresco. Le zone in cui è diviso lo scudo sono cinque: La prima descrive l’universo, con terra, cielo e mare, il sole e la luna. Le Pleiadi e le Iadi sono costellazioni visibili nel cielo invernale, come pure Orione; quest’ultimo era un cacciatore gigantesco, ucciso da Artemide e tramutato in una delle più grandi costellazioni. L’Orsa, o Carro, non scompare mai al di sotto dell’orizzonte e quindi non sembra mai calarsi nell’Oceano. La seconda scena rappresenta due città, una in pace, con scene di vita quotidiana, l’altra in armi, in cui viene descritto un agguato di un esercito contro un altro per il possesso dei capi di bestiame. Vi è poi una scena agreste, con le varie fasi dell’aratura, semina e raccolto dei prodotti della terra .Segue la scena della vendemmia e dell’allevamento dei bovini e degli ovini. Segue una scena di danza, con le danzatrici circondate dalla folla esultante e rapita dalla bellezza delle movenze e della musica. Conclude lo scudo il fiume Oceano.
Vorrei sottolineare, a questo punto, il fatto che, al tempo di Omero, l’arte figurativa è rappresentata soprattutto dalla pittura vascolare, di stile geometrico, in cui venivano rappresentati corpi umani o parti di esso. Si trattava soprattutto di ceramiche (vasi, anfore, etc.. La popolarità delle ceramiche ateniesi era dovuta alla qualità raffinata, alle proporzioni armoniose dei modelli, alle vivaci scene narrative delle decorazioni. I primi vasi decorati nello stile a figure rosse risalgono circa al 530 a.C. in breve questa maniera decorativa soppiantò quella tradizionale a figure nere. Tuttavia le descrizioni dello scudo richiamano maggiormente i modelli naturalistici dell’arte cretese – micenea. Con la descrizione dello scudo, Omero volle probabilmente dichiarare che poesia e arte figurativa rientrano in un medesimo campo poetico, in cui si fondono realtà e immaginazione. Come lo scudo è la metafora dell’Universo, così Efesto è la metafora dell’artista che con la parola riproduce la realtà del mondo.
La morte di Ettore E’ l’episodio in cui convergono le due linee portanti dell’Iliade: l’ira di Achille che si spegne di fronte a un’offesa più straziante e l’eroica lotta di Ettore in difesa della sua patria, che lo porta ad uccidere Patroclo e a scatenare la vendetta di Achille. L’intera narrazione dell’Iliade tende verso questa soluzione estrema: tutto il contorno scompare e i due eroi sono rimasti soli uno di fronte all’altro, in un drammatico isolamento. Ci sono accessorie presenze divine: Apollo che deve rinunciare alla difesa del suo eroe e Atena che con l’inganno contribuisce alla morte di Ettore; ciò rappresenta però la metafora di ciò che si svolge nella mente di Ettore, che si precipita consapevolmente verso una morte a cui sa di non potersi sottrarre. Profonda e precisa è la caratterizzazione individuale dei due eroi: da un lato persiste la tipizzazione del protagonista epico, ancorato ad una serie ristretta di valori, dall’altro egli, nel momento supremo, rivela un’intima personalità, in cui affiorano passioni e pensieri. L’ardore guerresco di Achille si fonde alla sete di vendetta che ignora ogni senso di umana misura e pietà. Ettore è segnato dalla morte ma a questo presagio egli oppone una dolente nostalgia della vita, che si rivela in un’umana fragilità che lo porta a incrinare il suo coraggio, facendolo sperare in un’impossibile conciliazione e poi travolgendo in una fuga disperata. Alla fine però prevale la legge inesorabile dell’onore ed egli attende il nemico, illudendosi di poterlo sconfiggere e infine accettando un destino che sarà di mote ma anche di gloria. L’ultima voce che esala dalla sua gola ferita è un’implorazione per sé, ma soprattutto per i suoi cari: che possano avere almeno il conforto di stringere in un estremo abbraccio il suo cadavere, di salvarlo dall’ignominia di uno strazio feroce. V 390: la similitudine ha la funzione di ritardare l’azione e fissare lo sguardo sui protagonisti subito prima della catastrofe. Ettore che si lancia sul nemico brandendo la spada; Achille che lo fronteggia imbracciando lo scudo, pronto a vibrare il colpo fatale. V. 454: nonostante le ripetute minacce, Achille sarà persuaso da Priamo a restituire il cadavere di Ettore, in cambio di doni infiniti. In quell’episodio il giovane eroe riconosce nel vecchio Priamo, prostrato dal dolore, un’immagine del padre Peleo, cui sovrasta l’amara pena di apprendere da lontano la morte dell’unico figlio e di trovarsi abbandonato in una solitaria vecchiaia.