L’ARTE A VENEZIA
Nel corso del Cinquecento l’arte rinascimentale conosce una diffusione a livello europeo che di fatto monopolizza l’intera scena artistica. Firenze non è più l’unico centro artistico italiano all’avanguardia, ma ad essa si affiancano, in maniera sempre più intensa, altre città, prime tra tutte Roma e Venezia. Ma se la città eterna prende l’eredità più diretta dell’arte nata a Firenze, Venezia, nel corso del XVI secolo, percorrerà una strada stilistica del tutto originale. L’incontro tra Venezia e l’arte rinascimentale avviene un po’ più tardi rispetto ad altre località italiane. Per buona parte del Quattrocento a Venezia si respira ancora aria di stile bizantino, mentre le sole novità sono l’introduzione di alcuni elementi gotici filtrati soprattutto attraverso i contatti con l’area tedesca
Nella seconda metà del Quattrocento il Rinascimento inizia a comparire grazie alla presenza a Venezia di Antonello da Messina e grazie ai contatti tra la famiglia Bellini e Andrea Mantegna. Quest’ultimo aveva sposato la figlia del pittore Jacopo Bellini, nonché sorella di Gentile e Giovanni, anche loro pittori come il padre. Fu soprattutto Giovanni Bellini a sintetizzare gli elementi appresi da Mantegna e da Antonella da Messina in uno stile del tutto nuovo, in cui non erano esenti alcune reminescenze tardo gotiche.
Andrea Mantegna, Orazione nell’orto, 1455, London, Nationa Gallery
gg Giovanni Bellini, Orazione nell’orto, 1465-70, London, National Gallery
A. Da Messina, S. Sebastiano, Gemäldegalerie, Dresda A. Da Messina, Annunciata, 1476, Palermo, Pal. Albatellis.
Questo nuovo stile, che dà luogo ad un Rinascimento che possiamo definire veneziano, consisteva in un uso del tutto nuovo del colore, che diede vita a quella pittura definita tonale. Questa nuova tendenza trovò nuovi interpreti e sperimentatori in due straordinari artisti: Giorgione e Tiziano.
Giorgione, La tempesta, 15, Galleria dell’Accademia, Venezia, 1502-1503
Tiziano, Amor sacro e Amor profano, 1515, Galleria Borghese, Roma
Il primo ebbe vita breve, anche se la sua opera rimane un punto fermo dell’esperienza pittorica veneziana agli inizi del Cinquecento. Fu invece Tiziano il grande protagonista della stagione rinascimentale veneziana, grazie ad una vita lunga ed intensa che lo portò ad operare anche fuori Venezia. La pittura di Tiziano rimase un grande esempio per le generazioni successive di pittori, esercitando un’influenza non meno vasta di Raffaello o di Michelangelo. La sua grande personalità riuscì quasi a monopolizzare la pittura a Venezia, determinando la diaspora di altri artisti, quali Lorenzo Lotto o Sebastiano del Piombo i quali ebbero però l’indiscutibile merito di diffondere la nuova visione artistica veneziana al di fuori della laguna veneta. Bisogna infatti attendere la metà del secolo per veder comparire a Venezia altri grandi pittori non meno dotati di Tiziano, in particolare Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, e Paolo Caliari, detto il Veronese. La loro esperienza pittorica, di matrice già pre-barocca, conclude con uno spettacolare canto del cigno il rinascimento veneziano, prima che il nuovo clima controriformista imponga nell’arte pittorica una visione più cupa e severa
Veronese, Nozze di Cana, 1563, Museo del Louvre, Parigi
Tintoretto, Il miracolo di S Tintoretto, Il miracolo di S. Marco, 1548, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Un diverso concetto di bellezza Le differenze tra il Rinascimento fiorentino e quello veneziano ha radici profonde che investe l’estetica stessa dell’arte. Il bello può avere due finalità principali: produrre un piacere intellettuale o produrre un piacere fisico, sensoriale. L’arte fiorentina nasce come ricerca di una bellezza che è soprattutto perfezione ideale, quindi di natura più intellettuale che sensoriale. Il clima che si respira a Venezia, soprattutto nel Cinquecento è ben diverso: la bellezza ha una sua natura e finalità legata più ai sensi che all’intelletto. Del resto bisogna considerare la differente cronologia e temperie culturale che divide i due ambienti artistici. Firenze, nel Quattrocento, è imbevuta di cultura neoplatonica che, oltre a dare una preminenza all’idea sul sensibile, fu importante per sdoganare la bellezza come valore positivo, superando l’idea medievale che il bello fosse pericoloso perché manifestazione del peccato e della lussuria. Venezia, invece, nel corso del Cinquecento è una città ricca, dove non manca il benessere, il lusso e anche una notevole tolleranza nei confronti dei piaceri della vita. È ovvio che il bello viene visto non come qualcosa di ideale, ma come una manifestazione positiva dell’essere perché capace di suscitare gioia, piacere, ecc.
Tiziano, Venere di Urbino, 1538, Galleria degli Uffizi, Firenze
DISEGNO VS COLORE Questa diversa concezione estetica è anche la premessa perché a Firenze si diede più importanza al disegno nella pratica pittorica, mentre a Venezia si diede più importanza al colore. Il disegno è il modo come il nostro cervello razionalizza le forme che percepisce; il disegno è la trascrizione del nostro pensiero del reale. Attraverso un disegno perfetto si percepisce un pensiero perfetto della realtà. Il colore è invece l’emozione degli occhi, rappresenta la parte della visione che i nostri sensi immediatamente percepiscono e che producono la diretta risposta emotiva. Il colore fa sì che l’immagine che vediamo in un quadro ci trasmetta anche sensazioni tattili, quasi che l’immagine sia qualcosa di reale e non solo la rappresentazione di una finta realtà.
La pittura tonale: prospettiva lineare vs profondità di toni Le novità dell’arte veneziana si sostanziano tutte nella pittura, dando luogo a quella tecnica chiamata tonale. In sintesi il tono di un colore può essere definito come la quantità di luce che esso riflette. Se un oggetto viene investito da una grande quantità di luce, esso rifletterà molta luce e il suo colore ci apparirà di tono chiaro, o insaturo. Se invece è illuminato da una fonte luminosa più debole, il suo colore diventerà di tono scuro, o saturo. L’occhio è naturalmente predisposto a interpretare i toni di colore come intensità luminosa presente nella scena che guarda. E l’occhio in genere interpreta in questo modo: su uno stesso piano non possono esserci contemporaneamente toni chiari e toni scuri, ma questi vanno collocati su differenti piani di profondità. Usando questa tecnica si può creare un inedito effetto di tridimensionalità nei quadri, senza ricorrere alla prospettiva tradizionale. Quest’ultima, come già detto, aveva bisogno delle architetture per poter pienamente manifestarsi nella scena pittorica, costringendo la pittura ad una sudditanza nei confronti dell’architettura dipinta che, prima o poi, doveva finire. Il tonalismo veneto è una nuova possibilità, insieme al movimento dei corpi o allo sfumato leonardesco, di suggerire la profondità spaziale nell’immagine pittorica, senza far ricorso alla prospettiva lineare.
Giorgione, Tramonto, 1505-1508, National Gallery, Londra Filippo Lippi, 1460 circa, poi 1472, Galleria dell'Accademia a Firenze.
Ma il tonalismo dei pittori veneti ha anche Ma il tonalismo dei pittori veneti ha anche altre valenze stilistiche: riesce a dare un carattere all’atmosfera dei quadri facendone un ulteriore elemento di suggestione. I cieli non sono più degli sfondi neutri, ma danno sensazioni atmosferiche di grande suggestione, come nel caso della Tempesta di Giorgione, dove uno degli elementi di maggior fascino del quadro è proprio la sensazione atmosferica che si coglie nel cielo e nell’aria che circola nella scena. Il tonalismo veneto, inoltre, portò ad una prima teoria dei contrasti tonali tra i colori complementari. In pratica, accostando opportunamente i colori tra loro, si ottiene una vivacità cromatica più intensa dei colori stessi. Se si accosta un verde ad un rosso, i due colori sembreranno più brillanti, esaltandosi a vicenda. Viceversa, se si accosta un verde ad un viola i colori visivamente si stemperano uno nell’altro dando una sensazione di opacità. Queste tecniche furono direttamente sperimentate nei quadri, prima ancora che essere teorizzate, e furono alla base del notevole fascino esercitato dalla pittura veneta: una pittura fatta di luce e di colore, ma soprattutto di intensità visiva.
Giorgione, I tre filosofi, 1508,Kunsthistorisches Museum, Vienna
Tiziano, Inconorazione di Spine, 1542-1544 Museo del Louvre a Parigi Olio su tela
Dipinto per la chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie, l'Incoronazione di spine è un esempio della personalissima interpretazione del manierismo offerta da Tiziano. Le pose e le anatomie sono in relazione con la "terribiltà" di Michelangelo e con la statuaria classica: d'altro canto, la drammatica scelta delle luci e l'impeto tragico dei gesti sono altrettante revisioni" del rigido codice stilistico del manierismo in chiave di sofferto e amaro naturalismo. Il dipinto, rimasto a Milano fino al tempo delle spoliazioni napoleoniche, ha svolto un ruolo importante nella formazione del giovane Caravaggio L'Incoronazione di spine, eseguita tra il 1542 e il 1544 per la chiesa di Santa Maria delle Grazie e oggi al Louvre, è il dipinto-chiave di questo periodo. I carnefici di Cristo sono figure massicce e muscolose, di carattere michelangiolesco: ma il senso di tragedia, di brutalità bestiale è espresso con un uso del colore e della luce che riporta l'immagine a un senso di immediata verità, quasi anticipando Caravaggio.
Tiziano, Incoronazione di spine, 1570, Alte Pinakotek - Monaco
In questo caso, la ripresa da un tema di diversi decenni prima è ancora più diretta: il rapporto con L'Incoronazione di spine del Louvre è stringente dal punto di vista compositivo, ma il colore "sporco", quasi colato sulla tela, accresce l'amara, angosciosa resa della bestialità del dramma. Nel paragone fra le due tele risulta anche evidente la scomparsa di dettagli classici omaggio alla cultura del manierismo. Gli esperimenti manieristi sono soprattutto rivolti ai grandi dipinti religiosi, mentre nei ritratti di Tiziano conserva sempre la caratteristica franchezza ed energia: anzi, proprio nel campo della ritrattistica, il maestro compie i primi assaggi di un tipo di stesura del colore che a poco a poco diventerà la sua nuova caratteristica. Tiziano non si preoccupa più di unire le pennellate in campiture compatte di colore, ma lascia sempre più spesso bordi sfrangiati, particolari appena accennati, residui consistenti di grumi di materia cromatica sulla tela.
Intorno al 1570, superati gli ottant'anni, Tiziano si accorge di essere rimasto davvero solo: la morte del vecchio amico Sansovino, le preoccupazioni per il carattere indolente del primogenito Pomponio, avviato senza vocazione alla carriera ecclesiastica, le stesse difficoltà politiche e militari della Repubblica, impegnata in guerre contro mi turchi, hanno precise conseguenze sullo stato d'animo del maestro. Inoltre, nel 1571, un incendio di Palazzo Ducale manda in fumo parecchie opere d'arte, fra cui alcuni dei dipinti ufficiali di Tiziano: un secondo incendio, nel 1577, avrà conseguenze ancora più rovinose. Negli ultimi sei anni della sua lunga vita, Tiziano è ancora capace di rinnovare profondamente il proprio stile: eppure, il punto di partenza è un'attenta rilettura dei temi e delle composizioni giovanili. Il drammatico episodio dell'Incoronazione di spine di Monaco di Baviera riprende appunto alla lettera l'identico soggetto oggi al Louvre, ma la tragica pasta del colore, quasi un'enorme macchia di sangue e di fango, è nuova. Tiziano dipinge ormai senza alcuna traccia di disegno, lavorando con accanimento su strati sovrapposti e spessi di colore.
Tiziano, Pietà, Gallerie dell’Accademia, Venezia
Esteticamente parlando (per “estetica” s’intenda il gusto comune) pare davvero un quadro decisamente poco gradevole, dalla composizione perfino sproporzionata: le figure così piccole, in basso e l’architettura così invadente, incombente su di loro in altezza e proporzioni. E poi, la pennellata: decisamente inconsueta se si pensa scaturita da cotanta mano; è data a tocchi, a guizzi ed il colore è scuro, impastato, “sporco” rispetto ai passati splendori. Per colore “sporco” chi scrive generalmente intende quello che, magari mescolato da un inesperto pittore, non risulti brillante alla fusione, che diventi “fangoso”: bene, non si può arrivare che alla conclusione che quel “colore non colore” sia assolutamente ed appositamente voluto e che sia proprio il filo conduttore del dipinto, creato con una tavolozza fatta esclusivamente di terre brune e gialle, di verdi e rossi, in accostamenti e fusioni tutt’altro che luminosi e gradevoli. E poi l’effetto generale dell’Opera è sconvolgente: tutto in quel dipinto pare essere inconsistente, sgretolarsi e venir giù dalla tela. Anche le statue suscitano stupore: Mosè a sinistra e la figura femminile con la Croce, a destra (potrebbe essere S. Elena), hanno un aspetto altezzoso, da eroi pagani e sembrano doversi sbriciolare da un momento all’altro.
Quanto all’impianto compositivo, è decisamente incredibile, rispetto alla consuetudine anche del Tiziano stesso, ad esempio il cero del putto assume un significato compositivo: serve a “bilanciare” la scena che sennò tenderebbe tutta a sinistra. Abilissima trovata, ovviamente; ma quel che conta in una composizione sono le direttrici che portano l’occhio a mettere a fuoco ciò che l’autore ritenga essere il fulcro del dipinto. Ci si chiede dove sia, qui tale fulcro, ma non si capisce. L’occhio è confuso, non sa dove guardare;. Alla fine, inevitabilmente, conclude come tutta la composizione appaia la contraddizione di se stessa. Allora si volge ai personaggi: è su di loro che punta lo sguardo, dopo il primo, violento impatto visivo con l’insieme; ma non lo aspetta sorte migliore. Quelle figure vengono fuori dalla tela spaesate, incerte, sopraffatte dall’impianto stesso della composizione. La Madonna sta lì con Gesù in braccio con l’espressione di chi voglia dire: “Eccolo: mio figlio è qui, morto, me l’hanno ucciso. Ma non importa a nessuno.”; la Maddalena chiama qualcuno, ha uno scatto di movimento, ma resta come impietrita: nessuno le risponde? Il putto a terra raccoglie in un sacchetto di stoffa bianca non si sa bene cosa, forse qualche reliquia; ma lo fa furtivamente, come se temesse di essere scoperto dagli stessi protagonisti della tragedia (uno strale del Tiziano anticlericale contro l’avidità della Chiesa terrena?).
Non serve a nulla al puttino in volo cercare d’illuminare qualcosa con quel lungo cero di cui prima si parlava. E poi, che luce proietta? Non è lui che illumina, anzi quel cero non emette luce per nulla, non crea alcuna ombra propria: la luce principale pare venire dall’aureola di Cristo ed è una luce radente, che è difficile da individuare ed inganna chi guardi e cerchi nel dipinto una fonte luminosa preponderante: a prima vista non si trova. E infine, che dire di quel povero vecchio prono, seminudo, che, desolato, strisciante, assiste alla scena? Pare guardare in viso più la Madonna che Cristo; ma la Madonna lo ignora, Cristo è morto e quindi non può vederlo né ascoltarlo, Maddalena è volta a chiamare chi non accorre. Ci si chiede cosa ci stia a fare, lì, quel povero vecchio. L’unico motivo pare sia per trascinarsi a guardare da vicino quegli esseri che sarebbero da ritenersi ultraterreni, ma che egli vede lì, accanto a sé, e che pure, evidentemente, sente così palesemente lontani, tanto da dar fondo ad un’umanissima, estrema, straziante curiosità.