Immanuel Kant ( ) Critica della ragion pratica

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GABRIELE BIEL.
Transcript della presentazione:

Immanuel Kant (1724-1804) Critica della ragion pratica Storia della filosofia II

Il titolo La ragione serve a dirigere non solo la conoscenza, ma anche l'azione. Accanto alla ragione teoretica abbiamo quindi una ragione pratica. Mentre nella Critica della Ragion pura Kant ha criticato le pretese della ragione teoretica di trascendere l'esperienza, nella Critica della Ragion pratica, egli ha criticato invece le pretese opposte della ragion pratica di restar legata sempre e solo all'esperienza.

Kant distingue: ragion pura pratica (che opera indipendentemente dall'esperienza e dalla sensibilità) ragione empirica pratica (che opera sulla base dell'esperienza e della sensibilità). La ragione pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo perfettamente legittimo, obbedendo ad una legge universale. Invece nella sua parte non pura, cioè legata all'esperienza, la ragione pratica può darsi delle massime, cioè delle forme di azione, dipendenti appunto dall'esperienza, e perciò non legittime dal punto di vista morale. Perciò deve essere sottoposta a critica.

Il fatto che la ragion pura pratica non debba venir criticata, ma semplicemente illustrata nelle sue strutture e funzioni, non significa tuttavia che essa sia priva di limiti; infatti, come vedremo, la morale, secondo Kant, risulta profondamente segnata dalla finitudine dell'uomo e necessita di essere salvaguardata dal fanatismo, ossia dalla presunzione di identificarsi con l'attività di un essere infinito.

Il motivo che sta alla base della Critica della ragion pratica è la persuasione che esista, scolpita nell'uomo, una legge morale a priori valida per tutti e per sempre. Infatti: o la morale è una chimera, in quanto l'uomo agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica "pura", cioè capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile.

moralità = incondizionatezza = libertà = universalità e necessità La tesi dell'assolutezza o incondizionatezza della morale implica due concetti di fondo strettamente legati tra loro: la libertà dell'agire e la validità universale e necessaria della legge. Essendo incondizionata la morale implica la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto (postulato) della vita etica. Essendo indipendente dagli impulsi del momento e da ogni condizione particolare, la legge risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo.

Per Kant la morale è ab-soluta, cioè sciolta dai condizionamenti istintuali, non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto a essi. La morale si gioca infatti all'interno di una tensione bipolare tra ragione e sensibilità. Se l'uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità e impulso, è ovvio che essa non esisterebbe, perché l'individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa, se l'uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe ugualmente di senso, in quanto l'individuo sarebbe sempre in quella che Kant chiama «santità» etica, ovvero in una situazione di perfetta adeguazione alla legge. Invece la bidimensionalità dell'essere umano fa sì che per Kant l'agire morale prenda la forma severa del «dovere» e si concretizzi in una lotta permanente tra la ragione e gli impulsi egoistici.

La categoricità dell’imperativo morale Kant distingue i «principi pratici» che regolano la nostra volontà in «massime» e «imperativi». La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclusivamente per l'individuo che la fa propria. L'imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, ossia che vale per chiunque. Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e hanno la forma del "se... devi" . L'imperativo categorico, invece, ordina il dovere in modo incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi scopo, e ha la forma del "devi" puro e semplice.

Solo l'imperativo categorico, in quanto incondizionato, ha i connotati della legge, ovvero di un comando che vale in modo perentorio per tutte le persone e per tutte le circostanze. Solo l'imperativo categorico, che ordina un "devi" assoluto, e quindi universale e necessario, ha in se stesso i contrassegni della moralità.

Formalismo dell’imperativo categorico L’imperativo categorico, in quanto incondizionato consiste nell'elevare a legge l'esigenza stessa di una legge. E poiché dire legge è dire universalità, esso si concretizza nella prescrizione di agire secondo una massima che può valere per tutti. Da ciò la formula-base dell'imperativo categorico: Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale. (Critica della ragion pratica, A 54) L'imperativo categorico è quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un comportamento risulta morale solo se la sua massima appare universalizzabile.

La seconda formulazione Nella Fondazione della metafisica dei costumi troviamo anche una seconda e una terza formula. La seconda afferma: agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.(Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67) In altri termini, rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di ridurre il prossimo o te medesimo a semplice mezzo. In questo contesto la parola "fine” fa sì che alla persona venga riconosciuta la prerogativa di essere soggetto e non oggetto. Tant'è vero che Kant sostiene che la morale istituisce un «regno dei fini», ossia una comunità ideale di libere persone, che vivono secondo le leggi della morale e si riconoscono dignità a vicenda.

La terza formulazione La terza formula prescrive di agire in modo tale che «la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76) Questa formulazione sottolinea l'autonomia della volontà, chiarendo come il comando morale non sia un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci a essa, non facciamo che obbedire a noi stessi. Tant'è vero che nel "regno dei fini", precisa Kant, ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso. In altre parole: la volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge.

La "formalità" della legge e il dovere Caratteristica strutturale dell'etica kantiana è la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo. Se non fosse formale, bensì "materiale", e prescrivesse quindi dei contenuti concreti, sarebbe "vincolata" a essi, perdendo inevitabilmente in termini di libertà da un lato e di universalità dall'altro. Questo significa che l'imperativo etico non può risiedere in una casistica concreta di precetti, ma soltanto nella legge formale-universale: quando agisci tieni presenti gli altri e rispetta la dignità umana che è in te e nel prossimo. Sta poi a ognuno di noi "tradurre" in concreto, nell'ambito delle varie situazioni esistenziali la parola della legge.

Il carattere formale e incondizionato della legge morale fa tutt'uno con il carattere anti­utilitaristico dell'imperativo etico. Infatti, se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile, si ridurrebbe a un insieme di imperativi ipotetici e comprometterebbe la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dare la legge a se medesima, ma gli oggetti a dare la legge alla volontà. Noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere: Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che importi lusinga; ma esigi la sottomissione; che tuttavia non minacci nulla [...] ma presenti semplicemente una legge che penetra da sé sola nell'animo e si procura venerazione. Da ciò il cosiddetto "rigorismo" kantiano, che esclude dall'etica emozioni e sentimenti, che sviano la morale, oppure, quando collaborano con essa, ne inquinano la severa purezza.

Il dovere-per-il-dovere nel rispetto della legge: ecco l’unica condizione affinché vi siano moralità e virtù e non si passi dalla moralità alla semplice "legalità". Non basta che un'azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ovvero in modo conforme a essa. La morale implica una partecipazione interiore, altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento. Kant sostiene dunque che non è morale ciò che si fa, ma l'intenzione con cui lo si fa (morale dell'intenzione), essendo la «volontà buona», ovvero la convinta adesione della volontà alla legge, l'unica cosa incondizionatamente buona al mondo.

Il dovere e la volontà buona, secondo Kant, innalzano l'uomo al di sopra del mondo sensibile (fenomenico), in cui vige il meccanismo delle leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo intelligibile (noumenico), in cui vige la libertà. La vita morale è la costituzione di una natura sovrasensibile, nella quale la legislazione morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale.

Questa noumenicità del soggetto morale non significa tuttavia l'eliminazione di ogni legame con il mondo sensibile. Difatti, proprio perché l'uomo partecipa strutturalmente dei due mondi, egli non può affermare quello intelligibile se non nel e in virtù di quello sensibile. Anzi, la noumenicità dell'uomo esiste solo in relazione alla sua fenomenicità, in quanto il mondo soprasensibile, per lui, esiste solo come forma del mondo sensibile.

La rivoluzione copernicana morale Il senso profondo dell'etica kantiana, e della sua sorta di "rivoluzione copernicana morale", consiste infatti nell'aver posto nell'uomo e nella sua ragione il fondamento dell'etica. Se la libertà, presa in senso negativo, risiede nell'indipendenza della volontà dalle inclinazioni, in senso positivo si identifica con la sua capacità di autodeterminarsi, ossia nella prerogativa autolegislatrice della volontà, la quale fa sì che l'umanità sia norma a se stessa. Di conseguenza, Kant polemizza aspramente contro tutte le morali eteronome, cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento del dovere in forze esterne all'uomo o alla sua ragione, facendo scaturire la morale, anziché dalla pura "forma" dell'imperativo categorico, da principi "materiali".

I postulati pratici e la fede morale Nella Dialettica Kant prende in considerazione l'assoluto morale o sommo bene cui tende irresistibilmente la nostra natura. La felicità non può mai erigersi a motivo del dovere, perché in tal caso metterebbe in forse l'incondizionatezza della legge etica. La virtù, pur essendo il "bene supremo", non è ancora, secondo Kant, il "sommo bene”, il quale consiste, invece, nell'addizione di virtù e felicità. C'è in noi il bisogno di pensare che l'uomo, pur agendo per dovere, possa anche essere degno di felicità.

Ma in questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, poiché lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, in quanto l'imperativo etico implica la sottomissione delle tendenze e l'umiliazione dell'egoismo. Di conseguenza, virtù e felicità costituiscono l'antinomia etica per eccellenza. Afferma Kant l'unico modo per uscire da tale antinomia (che rischia di rendere impossibile il sommo bene e di ridurre la morale che lo prescrive a un'impresa senza senso) è di "postulare" un mondo dell'aldilà in cui possa realizzarsi ciò che nell'aldiquà risulta impossibile: l'equazione "virtù = felicità".

I postulati di Kant sono quelle proposizioni teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizione della sua stessa esistenza e pensabilità, ovvero quelle esigenze interne della morale che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che di per se stesse non possono venir dimostrate. I postulati tipici di Kant sono l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio.

La realizzazione del sommo bene (santità) implica il postulato dell'immortalità : poiché solo la santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge, rende degni del sommo bene e poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, si deve per forza ammettere che l'uomo, oltre il tempo finito dell'esistenza, possa disporre, in un'altra zona del reale, di un tempo infinito grazie a cui progredire all'infinito verso la santità. La felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell'esistenza di Dio, ossia la credenza in una «volontà santa ed onnipotente», che faccia corrispondere la felicità al merito.

Accanto ai due postulati "religiosi" dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio, Kant pone un altro postulato che ci è ben noto: la libertà. Quest'ultima è infatti la condizione stessa dell'etica, che nel momento in cui prescrive il dovere, presuppone anche che si possa agire o meno in conformità di esso e che quindi si sia sostanzialmente liberi. «Devi, dunque puoi», afferma Kant: se c'è la morale deve, per forza, esserci la libertà. Mentre la libertà è la condizione stessa dell'etica l'immortalità e Dio rappresentano soltanto delle condizioni ipotetiche affinché la morale trovi, in un altro mondo, quella realizzazione che in questo le è negata.

Kant sostiene che non sono le verità religiose a fondare la morale, ma è la morale, sia pure sotto forma di "postulati", a fondare le verità religiose. Dio, per Kant, non sta all'inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. L'uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere-per-il-dovere, con, in più, la «ragionevole speranza» nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza di Dio.

Il male radicale nell'uomo Nella natura dell'uomo, accanto a una propensione al bene (testimoniata dalla presenza della legge morale), vi è un'ineliminabile inclinazione al male: è quello che Kant chiama il male radicale. Dire che nell'uomo vi è un'inclinazione naturale al male non significa per Kant presuppone una forza estranea alla volontà (che, in quanto tale, non sarebbe imputabile all'uomo) né identificare il male con l'istinto naturale (che non è valutabile in termini morali). Il male radicale è quella tendenza, dovuta alla finitezza e alla fragilità dell'essere umano, ad adottare una massima di comportamento contraria alla legge morale, pur essendo consapevole di questa.

Come il male morale sia comparso per la prima volta è, secondo Kant, incomprensibile per noi. Altrettanto incomprensibile è allora come possa essere «che un uomo naturalmente cattivo si renda da se stesso buono». E tuttavia noi sappiamo che dobbiamo divenire migliori, e quindi anche che possiamo farlo: e farlo da noi stessi, sottolinea Kant, perché l'idea di un aiuto sovrannaturale, come grazia, è «difficilmente compatibile con la nostra ragione», oltre che pericolosa, in quanto può ingenerare indolenza morale. La vita dell'uomo si svolge allora in una lotta tra il principio ideale della perfezione morale e l'inclinazione innata al male

È necessario che venga istituita una «comunità etica», un'associazione di uomini sotto «le sole leggi della virtù», perché è proprio nella dimensione della socialità che il male si esprime con maggior forza. Questa comunità etica è una chiesa invisibile, retta da Dio, che trova nei comandamenti divini l'espressione assoluta dei propri doveri morali. La religione di questa chiesa è la religione naturale, che consiste in una fede religiosa pura, una «semplice fede della ragione».

La religione naturale è una sola, in quanto «concetto pratico della ragione», anche se si esprime poi, per il bisogno dell'uomo di cercare sempre appoggio e conferma nella realtà, nelle diverse confessioni religiose che «il caso ha fatto capitare sotto mano». È dunque un elemento storico, puramente accidentale, che differenzia e contrappone le diverse religioni. Quando la vita religiosa "empirica" si allontana dalla fede razionale pura si determinano degenerazioni: il feticismo e la superstizione di chi crede che la buona condotta consista nelle pratiche di culto; il fanatismo di chi si illude di poter entrare in rapporto diretto con Dio.