Voci ‘legittime’ e ‘illegittime’ nella narrazione di un disastro

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Transcript della presentazione:

Voci ‘legittime’ e ‘illegittime’ nella narrazione di un disastro Una storia orale del terremoto del 1980 nel centro storico di Napoli Nick Dines, Università Roma Tre/John Cabot University

Napoli, la notte del 23 novembre 1980 Giornalista RAI: Non ridere, per piacere… Bambino: Eh? Giornalista RAI [alzando la voce]: Non ridere! Operatore RAI: Non ridere!! Giornalista RAI [evidentemente irritato]: Ma che c’hai da ridere? Dai Gigi, è inutile che fai la gente che ride, per favore!

Voci ‘legittime’ e voci ‘illegittime’ Ha senso parlare di voci ‘legittime’ e ‘illegittime’ nella storia orale? Nella storia orale, ogni voce si presume legittima e rilevante! Oltre ad accogliere una molteplicità di voci sul passato, la storia orale complica le modalità perentorie con cui si tende a descrivere un disastro: prima/dopo; vittima/sciacallo; zona colpita/zona non-colpita; bene/male; morale/immorale. La storia orale non ha soltanto la capacità di arricchire o di riempire i ‘vuoti’ del racconto, ma può fungere anche come un ‘irritante’: riesce a disturbare la costruzione delle narrative ‘ufficiali’ e ‘egemoniche’.

SLIDE EXTRA: Spiegazione del progetto di ricerca su Napoli (detta a voce) La ricerca è svolta all’interno del progetto ‘Place and Memory in the Twentieth-Century Italian City’ che ha voluto esaminare il rapporto tra la memoria e i luoghi in 5 città che si è svolto tra il 2002 e il 2005 [quindi 5 anni fa]. Ognuno ha prodotto un film (il mio si intitola: Fuggifuggi. Memorie di un terremoto). Già abitavo a Napoli e avevo svolto una ricerca sui cambiamenti negli anni 90. Interessato all’impatto del terremoto e il discorso sugli anni 80 come ‘anni bui’. Come siti di ricerca, ho scelto due quartieri: Quartieri Spagnoli e Montesanto, e più specificamente due zone: Largo Montecalvario – colpito duramente dal sisma – e Vico Lepre ai Ventaglieri, dove c’è stato uno dei pochi progetti di ricostruzione nel centro storico di Napoli.

Immagini del film Fuggifuggi. Memorie di un terremoto (2004)

SLIDE EXTRA: Spiegazione del progetto di ricerca su Napoli (detta a voce) Le interviste sono state fatte prima del ‘crollo’ di Napoli: cioè l’importanza del momento storico in cui si fa una ricerca di storia orale. Numero di interviste: 40 (di cui 21 filmate). Numero di persone intervistate: 44 – 12 donne e 32 uomini. Due principali gruppi di informatori: abitanti delle due zone prima del terremoto [quindi sia chi è rimasto sia chi è andato via] e persone che hanno avuto un rapporto con i due quartieri ma non ci abitavano [politici, tecnici, fotoreporter, vigile urbano]

Questioni trattate nelle interviste Il sisma e le sue immediate conseguenze La vita prima del terremoto Le strategie di sopravvivenza e le forme di lotta La trasformazione del quartiere La trasformazione della vita quotidiana e il rapporto con il quartiere

Temi contesi nel ‘terremoto freddo’ L’impatto del terremoto a Napoli Il cambiamento della città Le lotte sociali Il rapporto affettivo con il quartiere

L’impatto del terremoto a Napoli ‘Ma il terremoto non ha fatto niente a Napoli, non tutti quei danni che si è pensato. I palazzi di tufo sono lesionati per natura. […] Il tufo è un materiale buonissimo ed è molto umano. [...] Infatti non è caduto nessun palazzo a Napoli, solo uno in cemento [a Poggioreale].’ N.R. (m.), architetto che verificava la staticità degli edifici nel centro storico di Napoli. ‘I danni di Napoli poi furono essenzialmente – quelli materiali – di lesioni gravi e meno gravi in varie parti di Napoli ma prevalentemente i Quartieri Spagnoli. Penso l’epicentro, più forte, è stato quello. I danni morali del terremoto invece sono gravissimi. Ci hanno accompagnati per anni, poi, nel proseguo della nostra storia.’ G.F (m.), fotografo che ha lavorato sia in Irpinia che a Napoli

‘Il terremoto ha distrutto Avellino ‘Il terremoto ha distrutto Avellino. Napoli non ha avuto proprio grandi danni, però quel danno che ha avuto penso che ha rovinato migliaia e migliaia di famiglie, perché come me ci sono anche amici miei; quelli là che sono andati a vivere a Cercola, chi a Secondigliano: hanno perso fratelli, sorelle nella droga, pure.’ C.I. (m.), abitante di Montesanto, senzatetto già prima del terremoto.

Legami affettivi ‘Si sono uniti diversi quartieri di Napoli. Allora ogni quartiere ha la sua mentalità. Tu metti 4 quartieri insieme: si scannano uno con l’altro. Perché quello là pensa in un modo, quello in un altro, quello in un altro. E si scannano proprio. Allora hanno messo tutto Forcella, Sanità, Quartieri, Montesanto, tutto insieme! Pensa che ne esce!’ B.C. (f.), abitante di Montesanto, non è mai andata via. ‘Noi siamo stati i primi ad andare a Pomigliano. Abbiamo scelto il terzo piano. Siamo prima andati a vedere: era bellissimo, era tutto nuovo. Il palazzo era comunale, costruito da privati se non mi sbaglio ma acquistato dal comune. Avevo sei stanze io – più rispetto a prima. Era una villa: due bagni, doppi accessori, grandi, grandissimi, un corridoio che non finiva mai, bellissime case…Però il posto era da schifo, quando siamo andati noi, non c’era nessuno, sette gatti c’erano.’ C.I. (m.), abitante di Montesanto, senzatetto già prima del terremoto.

‘In casa mia ci sta un sarto ‘In casa mia ci sta un sarto. Mi ha fatto una cosa proprio al cuore, veramente. Quando sono passato ho visto il mio basso, io abitavo in un basso. No? Era poco più grande di questa cucina e lì ci stavamo io, mia moglie. Poi quando ho visto il sarto ho detto mannaggia! casa mia! All’epoca era bella. Ma è normale che non ci tornerei mai.’ V.M. (m.), ex-abitante dei Quartieri Spagnoli (m.), assegnatario di casa a Parco Verde, Caivano nel 1986. ‘Loro [gli uomini] questa mancanza [di Napoli] non la soffrono, perché loro è solo la sera che stanno a casa. Invece noi, io mi affaccio e non vedo mai niente. La mattina vado a portare i bambini a scuola e quando escono poi è finito. Se scende Carmela, che ci ha da fare, può darsi che la vedo, ma se no, non vedo nessuno. Invece a Napoli, si. Se pure io voglio scendere per 10 minuti vedo i negozi, vedo tanta gente poi ti distogli il pensiero. Là non c’è bisogno della macchina.’ A.A. (f.), ex-abitante dei Quartieri Spagnoli (f.), assegnataria di casa a Parco Verde, Caivano nel 1986.

SLIDE EXTRA (questa parte veniva detta a voce) La storia orale inevitabilmente apre delle narrative divergenti, che difficilmente si possono legare a una memoria lineare, univoca. Ma emergono anche degli aspetti dissonanti rispetto ai racconti ‘ufficiali’ e ‘egemonici’. Ne voglio considerare tre: I registri dissonanti Il concetto di ‘centro storico’ Il discorso della deportazione

1. Registri dissonanti La memoria del terremoto viene evocata in diverse maniere: in italiano/dialetto; come un racconto epico e drammatico ma anche comico; con aneddoti personali oppure fornendo ‘fatti oggettivi’; esprimendo protagonismo, distacco, cinismo o indifferenza Storia orale negli anni 70: ascoltare le voci delle classi non-egemoniche. Ma anche all’interno di questi gruppi, alcuni erano egemonici rispetto ad altri: la classe operaia e i contadini. La voce ‘civile’/‘politica’ vs. la voce ‘folcloristica’. Il ‘folcloristico’ come negazione della memoria e della storia pubblica.

Una riflessione fuori luogo? ‘Al finale, secondo me, il terremoto è una bella cosa. È un atto della natura, poi al finale ti mette in tensione ma ti da anche l’adrenalina, quella voglia di salvarti la vita. A quante persone capita questo? Solo in casi come questi qua.’ S.V. (m.), abitante di Montesanto, nel 1980 aveva 18 anni.

2. Il concetto di ‘centro storico’ Anni 80: anni di contro-riforma in ambito urbanistico; crescente interesse imprenditoriale e fondiario nel centro storico. Con il ‘riflusso’, le campagne per la tutela dei centri storici assumono un carattere moralizzante. Emerge un nuovo lessico pubblico sulla città (‘senso civile’, ‘identità’, ‘degrado’). La mancanza di interventi di ricostruzione dopo il terremoto fa sí che i quartieri diventino oggetto di contesa tra chi propone il loro risanamento e chi li vuole preservare. Il post-terremoto viene ridotto a una prova di forza tra buoni (conservatori) e cattivi (speculatori) oppure, secondo un recente revisionismo, tra realisti (progettisti) e integralisti (intellettuali). Gli abitanti dei quartieri non sono mai protagonisti: prima erano vittime del terremoto, ora sono potenziali vittime della speculazione oppure i futuri beneficiari del risanamento. Il centro storico viene svuotato del sociale e anche di altri significati, per esempio…

La 167 in centro! ‘Secondo l’ipotesi di questo architetto, eliminando anche gli edifici su Via Ventaglieri si potevano costruire cinque edifici a stecca [mimando con le mani] Con una distanza di 18 metri da un edificio all’altro, con verde attrezzato, aiuole, e addirittura a piano terra gli artigiani. Primo piano i negozi, dal secondo piano in poi fino al quinto piano, sfruttando proprio il dislivello che c’era, potevano venire fuori 250 appartamenti. […] Noi avremmo voluto costruire case e fare rientrare tutta la popolazione che era stata evacuata. Volevamo che tornassero tutti quanti in una zona diciamo risanata, ricostruita, più decente.’ M.P. (m.), abitante di Montesanto, presidente della sezione PCI di Avvocata

3. Un discorso illegittimo: la ‘deportazione’ Una parola che è ancora controversa oggi e suscita rabbia tra alcuni protagonisti della ricostruzione ‘Deportazione’ (oppure il sinonimo più leggero ‘espulsione’) venivano utilizzate prima del terremoto. Dopo il terremoto si usa pubblicamente già nel dicembre 1980. Viene utilizzata per sottolineare una violenta cesura nelle relazioni sociali.

‘Il dibattito sulla ricostruzione […] si intrecciò con l’incalzante minaccia del terrorismo e la strumentale campagna sulla deportazione del sottoproletariato.’ Maurizio Valenzi, Il Mattino, 23 novembre 2000. ‘Questa gente veniva proprio deportata. Quando non se ne volevano andare noi andavamo con le forze pubbliche, si metteva sui camion e si li portavano là.’ A.V. (m.), architetto del comune. ‘Io e la mia commissione andammo là con dieci persone a vedere in che posto ci volevano mandare. [...] Era un lager, delle case nella palude. O perché il tempo era gennaio, cosa trovi in quella zona? Non trovi il sole in un posto di mare d’inverno figurati com’era! Poi era abbandonato quel posto perché ci andavano solo gli estivi.’ G.B. (m.), abitante di Montesanto, perde la casa dopo il terremoto.

‘Diciamo che il termine era molto usato da alcuni gruppi più o meno politicizzati che temevano questo esodo in massa, che in parte c’è stata – ora non vorrei sbagliare ma probabilmente in quegli anni la popolazione di Montecalvario che era di 45,000 be’ probabilmente è arrivato a 30,000, quindi un esodo, non la deportazione forzata ma insomma anche gente che se ne è andata volontariamente, giovani coppie che hanno trovato casa altrove’ N.F. (m.), presidente di circoscrizione (Avvocata-Montecalvario). ‘Lì [nella scuola Paisiello] ti dovevi difendere dal comune che arrivava con l’autobus per far le deportazioni a Castel Volturno.’ M.D. (m.), occupante della Scuola Paisiello nel 1975 ‘Magari se l’avessero fatto questa deportazione, così andavano in delle case decenti, magari in periferia, ma con bagno e il resto insomma…l’ascensore che è pure una cosa importante per il vecchietto…’ C.R. (m.), pasticciere ai Quartieri Spagnoli, organizzatore delle proteste dei commercianti a Via Roma nel gennaio 1981.