Terzo Mondo, decolonizzazione, neocolonialismo.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale nascono circa un centinaio di nuovi stati, risultato delle spinte all’indipendenza dei paesi colonizzati. I nuovi stati si trovano in grosse difficoltà: miseria, corruzione, mancanza di cultura di governo, di una classe dirigente, di identità nazionale.
Sono noti il meccanismo di sfruttamento delle colonie e le sue conseguenze: prelevamento di materie prime a basso costo (salari bassissimi alla manodopera locale); rivendita di manufatti a prezzi imposti alla popolazione locale; sistemi sociali basati su ineguaglianza e soprusi; totale soggiogamento dei colonizzati alla potenza e alla cultura dei colonizzatori; mancanza di una borghesia locale in grado di sostituirsi ai dominatori.
Una volta ottenuta l’indipendenza, molti paesi si trovano alle prese con divisioni interne e/o conflitti etnici. Per ridare ai paesi la fisionomia di una patria, bisogna ricostruire istituzioni economiche e politiche. Le strade possibili sono due: restaurare il passato culturale (con il rischio di rinunciare alla modernizzazione); continuare a usare la lingua e la cultura tecnico-materiale degli ex-colonizzatori e consegnarsi al neocolonialismo.
L’Africa Negli anni ‘60 gli imperi coloniali africani crollarono con relativa facilità: solo nel 1960 nacquero ben 17 stati nuovi. Gli inglesi e i francesi riconobbero l’indipendenza delle colonie (tranne l’Algeria: vedi oltre), i belgi lasciarono il Congo, i portoghesi l’Angola e il Mozambico negli anni ‘70.
I nuovi stati si trovarono in un mare di miseria, corruzione, degrado, conflitti etnici, sfruttamento incontrollato delle risorse: il Congo, ricco di diamanti, oro, rame e uranio venne dilaniato in una guerra civile in cui entravano conflitti etnici e interessi economici delle potenze europee; in Nigeria ci fu la secessione del Biafra, la regione più ricca di petrolio (’67-’70); l’Angola fu teatro di una guerra civile più che ventennale per il controllo dei diamanti e del petrolio (’75-’02).
Patrice Lumumba (1925-1961) leader del partito nazionalista congolese e primo premier della Repubblica Democratica del Congo. Arrestato dai militari in seguito ad un colpo di stato pilotato dai belgi, fu assassinato nel gennaio del ’61.
Le potenze ex coloniali, intervenendo in queste situazioni conflittuali, crearono nuovi legami di dipendenza “neocoloniali”: condizionamenti creati dagli investimenti, dai prestiti, dalla rateazione dei rimborsi. Questi rapporti alimentarono, a loro volta, fedeltà politiche, protezioni, interventi militari per riportare la pace o favorire una delle parti in lotta: le vecchie potenze coloniali non subivano quasi nessun danno dalla perdita della sovranità politica sulle colonie.
Il caso del Sudafrica
Il Sudafrica rappresentava un caso particolare: aveva sì ottenuto l’indipendenza, ma le leve del potere e della ricchezza erano ancora in mano ad una comunità di bianchi. Dopo la seconda guerra mondiale fu istituito per legge l’apartheid, una segregazione totale fra le diverse comunità etniche regolamentata minuziosamente: la separazione dei bianchi dai neri nelle zone abitate da entrambi (per esempio rispetto all’uso di mezzi e strutture pubbliche); l’istituzione dei bantustan, i territori in cui molti neri furono costretti a trasferirsi.
Solo nel 1990, con la mediazione del presidente bianco De Clerk e di Nelson Mandela (imprigionato per 25 anni), leader dell’ANC, si è avviata la transizione alla democrazia in Sudafrica e al governo della maggioranza nera, evitando il bagno di sangue che tutti temevano.
La guerra d’Algeria
Primo dei paesi arabi ad essere colonizzato (1830), l’Algeria in più un secolo era profondamente francesizzata: un milione di pieds noirs (contadini poveri francesi) avevano la proprietà delle migliori terre algerine, mentre nove milioni di algerini erano privi di diritti politici e sottoposti al controllo militare francese. Dal 1954 al 1962 venne combattuta une vera e propria guerra di liberazione che vedeva opporsi il FLN algerino e i paracadutisti del generale Massu: vennero commesse da entrambe le parti atrocità, torture, massacri e attentati.
La stessa opinione pubblica francese si divise: la destra sosteneva i coloni, la sinistra criticava il mancato rispetto al di là del Mediterraneo dei valori di libertà e uguaglianza scaturiti dall’89. Le alternative non erano semplici: concedere la totale indipendenza significava o rimpatriare più di un milione di persone da collocare nella società civile o lasciare i pieds noirs in balìa della vendetta degli algerini. Come spesso accaduto nella loro storia, i Francesi decisero di affidare la questione all’uomo forte:
il generale De Gaulle, già leader della resistenza antinazista francese, fu proclamato Presidente, con il compito preciso di porre fine alla guerra.
La proposta federalista di De Gaulle trovò però l’opposizione dello stesso esercito e del generale Massu, che diede vita all’OAS (un’organizzazione terroristica clandestina): il FLN riuscì a vincere e nel 1962 si arrivò alla pace con il rimpatrio dei coloni francesi. Fino al 1970 il paese fu tormentato da guerre civili e colpi di stato; dagli anni ’90 è in corso una strisciante guerra civile tra il governo militare e il FIS islamico
Franz Fanon: i dannati della terra Medico, neurochirurgo e neuropsichiatra, nato in Martinica nel 1925, Franz Fanon dal ’53 lavora in un ospedale in Algeria, dove è testimone dell’inizio della guerra di liberazione. Sospettato di collusione con il FLN, denunciò nel suo celebre libro I dannati della terra (1961) la “sistematica disumanizzazione” dell’arabo da parte dei francesi.
La tesi fondamentale del libro è che la decolonizzazione, intesa come processo storico di sostituzione di una “specie” di uomini (i colonizzatori) con un’altra “specie” di uomini (i colonizzati), è un programma di disordine assoluto, privo di fasi di transizione.
La decolonizzazione è violenza, in quanto incontro di due forze ontologicamente antagoniste. Il mondo colonizzato è manicheo, scisso in due: vi è un’esclusione reciproca tra europeo e africano, tra colono e colonizzato che deriva dal fatto che il colono è sempre uno straniero (per citare Camus) che fa del colonizzato un'incarnazione del male assoluto, privo di etica e di valori. Pertanto, la violenza deve diventare metodo di lotta politica, e ciò è tanto più comprensibile giacché la decolonizzazione avviene in un contesto, quello della guerra fredda, che è “violenza pacificata”. La violenza “disintossica” il colonizzato, lo libera dalla depressione, dal senso di inferiorità, dalla mistificazione in cui ha vissuto.
Joseph Conrad: il cuore di tenebra della civiltà In Heart of darkness (1902) Conrad giudica e denuncia l’imperialismo europeo di fine '800: personaggio-chiave e simbolo della logica occidentalistica del potere è l'agente della Compagnia, Kurtz, "faro" della civiltà, l'uomo venuto in Africa con grandiosi piani di colonizzazione e nobili idee di progresso e sviluppo; emissario della scienza e del sapere europeo, incarna la luce che deve illuminare la tenebra della wilderness (la natura selvaggia e impenetrabile), il bene che deve redimere il male. Ma Kurtz, nell'appropriarsi della natura, la distrugge, ne distrugge gli uomini riconducendoli a sé, all'identità della propria civiltà: la macchina imperialista procede e si ingigantisce eliminando ciò che è altro da sé.
La cosiddetta "missione civilizzatrice" europea (le tre C: commercio, cristianizzazione, civilizzazione) nasconde sotto i valori del progresso e della civiltà nient'altro che rapina e violenza: prodotta storicamente da questi due fattori, l'Europa imperialista li riproduce altrove. La civiltà è, appunto, il cuore di tenebra che oscura il blank space (la macchia bianca) africano - e, per estensione, non-europeo - rendendolo a place of darkness: l'oscurità che è dentro la nostra stessa civiltà.
Quando Marlow incontra finalmente Kurtz, si trova di fronte ad un folle, ad un uomo che, avendo scoperto l'orrore, è ormai ben al di là del bene e del male: la follia di Kurtz, sembra dirci Conrad, sta ad indicare che la ragione occidentale ha fallito, non potendo più arrogarsi il diritto di dire e rappresentare una realtà che non gli appartiene, né esercitare il proprio potere su un mondo "Altro" e inconoscibile.