La ginestra o il fiore del deserto di Giacomo Leopardi

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Transcript della presentazione:

La ginestra o il fiore del deserto di Giacomo Leopardi Poesia multimediale di Biagio Carrubba

Qui sopra le falde del terribile e sterminatore monte Vesuvio, dove né fiori né alberi sopravvivono, tu, o profumata ginestra, che vivi bene anche nei deserti diffondi i tuoi cespugli tutt'intorno. Già io ti vidi abbellire con i tuoi steli le campagne che circondano la città di Roma, la quale fu un tempo dominatrice degli uomini; e queste campagne solitarie pare che ricordino con il loro aspetto insalubre la grandezza del perduto impero.

Ora ti rivedo in queste terre, amante di tristi e solitari luoghi e compagna di grandezze decadute. Queste terre, che ora sono ricoperte di cenere bruciata e di lava pietrificata, dove la serpe si nasconde e si contorce al sole, dove il coniglio ritorna al suo nido, una volta erano piene di ville lussuose e di campi di spighe che maturavano e dove si sentiva il muggito di armenti ed erano piene di giardini e di palazzi dove i potenti si riposavano, e vi fiorivano anche città popolose che il superbo vulcano distrusse con i suoi torrenti di lava fulminandole e bruciandole insieme ai suoi abitanti.

In queste terre venga colui che ha in uso di esaltare la condizione umana e veda quanto poco la stirpe umana è amata dalla Natura. E in queste terre egli può giudicare la potenza del genere umano che la natura con un lieve sussulto sotterraneo può distruggere in parte e con un movimento più forte lo può distruggere totalmente, quando meno se lo aspetta.

Egli vedrà, allora, dipinte in queste terre le magnifiche e progressive sorti dell'umana gente.

Secolo XIX Seconda strofa. Secolo XIX, superbo e sciocco, che hai abbandonato il risorto pensiero risorgimentale ed il sensismo illuministico, ti vanti di questo ritorno indietro e lo chiami progresso. Tutti i letterati, di cui tu sei il loro padre per disgrazia, ti adulano, anche se dentro di loro ti hanno a ludibrio. Io non morirò con questa vergogna, poiché avrò mostrato il mio disprezzo apertamente verso di te, anche se so che sarà dimenticato chi si rese odioso ai suoi contemporanei. Ma io rido assai di questo mio oblio che avrò insieme a te. Secolo XIX

Tu, secolo superbo e sciocco, vai sognando la libertà di pensiero, ma ad un tempo vuoi fare servo il pensiero grazie al quale noi risorgemmo dal medio evo e dalle usanze medievali, e grazie al quale si cresce in Civiltà, che solamente guida il progresso sociale. non hai accettato la verità data al genere umano e il basso luogo che la natura gli diede. Per questo motivo hai vigliaccamente voltato le spalle alla filosofia rinascimentale e chiami vile chi la segue mentre chiami magnanimo colui che schernendo se stesso o per astuzia o per follia esalta la sorte degli uomini al di sopra delle stelle.

Terza strofa. Un uomo di povera condizione e malato nel fisico, ma che sia generoso e nobile nell'animo, non ostenta e non stima se stesso ricco e forte e non dà ridicolo spettacolo di sé tra persone di vita splendida e vigorosa. Ma, senza vergogna, lascia apparire se stesso privo di forza e di ricchezza e, parlando, si dichiara tale apertamente e giudica le sue cose conformemente alla verità. O, essere umano, io non credo già (a niente), ma credo stolto chi sa, che pur destinato a morire, Che pur nutrito con difficoltà, si vanta di essere nato per godere e riempie di spregevole orgoglio i suoi scritti e promette una grandissima felicità, che non è conosciuta non solo nella terra, ma nemmeno in cielo, a popoli che un maremoto, o un'epidemia o un terremoto possono distruggere tanto che di essi ne rimane a malapena il ricordo.

Nobile natura è, invece, quella che ardisce di sollevarsi e di guardare con gli occhi la faccia del destino e che con un linguaggio onesto e chiaro, non togliendo nulla alla verità, accetta il male che fu dato in sorte agli uomini accetta la bassa condizione umana e,invece, si mostra grande e forte nelle angosce e si mostra forte nelle sofferenze, e non aggiunge odi ed ire contro i suoi simili, che sono più gravi di ogni altro danno e non incolpa l'uomo del suo dolore, ma dà la colpa a chi è veramente la colpevole, la quale è madre dei mortali perché li genera ed è loro matrigna perché è ostile alla loro volontà.

Questi pensieri, quando saranno conosciuti dal popolo, e quando l'orrore, che per primo strinse gli uomini in catena umana contro l'empia natura, sarà guidato da un saper vero, allora l'onesto e il corretto vivere civile, la giustizia e la pietà umana saranno guidati da altre e giuste idee che non le false e stupide credenze religiose le quali oggi governano la probità degli uomini, le quali hanno fondamento sull'errore.

Quarta strofa. Spesso io mi siedo in queste terre desolate che la lava riveste di scuro e sembra che i flussi pietrificati ondeggino; e dalla solitaria landa vedo le stelle brillare nel purissimo cielo, che da lontano riflette il mare, e vedo tutt’attorno brillare il mondo nei vuoti spazi celesti. E poi quando fisso i miei occhi alle stelle che per loro sono un punto mentre, invece, sono immense, cosi ché la terra e il mare in confronto a loro sono un punto;

in confronto a loro non solo l'uomo è sconosciuto, ma anche la terra è del tutta sconosciuta; e quando guardo le nebulose, quei nodi di stelle lontanissime, che a noi appaiono come nebbia, nei confronti delle quali, non solo l'uomo e non solo la terra, ma anche tutte le nostre stelle, infinite per numero e per grandezza, e tutto il sistema solare sono ignoti, o al massimo appaiono come le nebulose alla terra, cioè un punto annebbiato; di fronte a questi spazi immensi, o stirpe umana, che cosa sembri al pensier mio?

e ricordando la tua condizione quaggiù di cui, è un segno, il suolo che io calpesto, e ricordando, dall'altra parte, che tu, o uomo, ti ritieni fine dell'universo; e ricordando quante volte hai immaginato che gli Dei per tuo motivo scendessero in questo oscuro granello di sabbia che ha nome di terra, e, ricordando, quante volte hai immaginato che essi conversassero con te piacevolmente; e pensando che perfino l'età presente, che sembra superare tutte le precedenti in sapere ed in civiltà, ha riesumato le antiche credenze (medievali) che offendono i saggi; allora un sentimento e un pensiero, o infelice razza umana, mi stringono il cuore verso di te? Per cui non so se, in me, prevale il riso (per la tua superbia o per la tua stupidità) o la pietà (per la tua misera condizione).  

Quinta strofa. Come un piccolo pomo, cadendo da un albero senza nessuna forza, sul finire dell'autunno, distrugge, devasta e schiaccia in un solo momento i dolci nidi di un popolo di formiche, le quali con tanta fatica e con gran lavoro avevano provveduto a costruire in estate, così la lava, scagliata in alto dal profondo vulcano scendendo tra gli arbusti, o lungo il fianco della montagna piena di terra infuocata, cade, distrugge e seppellisce in un solo momento le città che erano bagnate dal mare;

per cui oggi su questi posti la capra vi pasce e altre città, nate da quelle sepolte, ora vi sorgono; e sembra che il tremendo vulcano, ancora oggi, vuole calpestare le città distrutte. La Natura non stima gli uomini più delle formiche; e se le distruzioni sono più frequenti fra le formiche che non fra gli uomini ciò è dovuto perché gli uomini hanno generazioni meno feconde.

Sesta strofa. Ben mille e ottocento anni sono passati da quando le popolose città di Pompei ed Ercolano sono state distrutte dalla forza della lava eppure ancora oggi il contadino, che coltiva i suoi vigneti, che la terra morta e incenerita a stento nutre, alza lo sguardo ansioso alla vetta del vulcano, che per nulla domato è là che ancora minaccia di distruggere i suoi pochi averi a lui e ai suoi figli.

E spesso il contadino, guardando dal tetto della sua modesta casa e balzando in piedi di notte, osserva il sentiero della lava che arriva fino alla spiaggia e al cui bagliore rilucono e rosseggiano la marina di Capri e il porto di Napoli e Mergellina.

Il contadino, se lo vede avvicinare o se sente gorgogliare l’acqua nel fondo del pozzo, allora sveglia la moglie e i figlioli e fugge via con quante cose può portare con sé, e da lontano guarda la sua abituale dimora e guarda il suo piccolo campo che era il suo unico mezzo di sostentamento; e intanto inesorabilmente arriva la lava, crepitando, la quale si sovrappone durevolmente sopra i campi. Pompei, dopo la lunga dimenticanza, torna alla luce del sole, come uno scheletro dissotterrato, o per l'avidità di scoprire nuovi tesori o per la pietà di trovare resti antichi;

e se il visitatore guarda dal centro della piazza lungo le file delle colonne spezzate, allora vede la doppia cima del monte e vede il cono fumante che ancora oggi minaccia di distruggere le rovine rimaste. E il fuoco della lava mortale scende attraverso l'ombra della notte e rosseggia e tinge tutt'intorno e scorre attraverso l'orrore della segreta notte e passa per i vuoti teatri e per i templi diroccati e attraversa le case abbandonate, dove i pipistrelli nascondono i figli, come una fiaccola sinistra e fumosa vaga per i vuoti palazzi.

La natura, incurante degli uomini e del tempo che passa, che egli chiama età antiche, e incurante delle generazioni da padri in nipoti, se ne sta sempre uguale a se stessa e procede cosi lenta tanto che sembra che stia ferma. Intanto gli Stati cadono, i popoli e i linguaggi passano; essa non si accorge nulla di tutto ciò, eppure l'uomo si vanta di essere eterno.

Settima strofa. E tu, fragile Ginestra, che abbellisci con i tuoi fiori profumati queste desolate campagne, anche tu sarai distrutta dalla crudele forza della lava, che ritornando al luogo già colpito dall'eruzione stenderà la sua ombra avida sui tuoi fragili cespugli.

E tu piegherai il capo innocente sotto il peso mortale senza fare nessuna resistenza: ma tu non hai piegato fino allora il capo invano, codardamente, e non hai supplicato il tuo futuro oppressore; ma non hai eretto il capo con forsennato orgoglio né contro le stelle né contro il deserto, dove tu avesti la nascita e la sede non per tuo volere ma per caso; ma tu sei tanto più saggia dell'uomo, ma tu sei tanto meno malata di orgoglio, perché non hai creduto che i tuoi fragili arbusti siano stati fatti immortali né dal destino né da te stessa.

Giacomo Leopardi e Biagio Carrubba

e Il grande poeta e il suo modesto ammiratore vi salutano ricordandovi di amare sempre la Poesia Fine Modica 16 luglio 2006