Modulo IV L’empatia perduta Problemi contemporanei di antropologia culturale.

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Modulo IV L’empatia perduta Problemi contemporanei di antropologia culturale

Disturbi dell’empatia L’atto empatico ha luogo spontaneamente di fronte ai nostri simili, dei quali siamo in grado di avvertire con immediatezza il vissuto. Tuttavia, si riscontrano varie forme di deviazione, sospensione, rottura della relazione empatica o attacco ad essa, quali: - il contagio empatico, - la disempatia, - l’oppositività - l’esteriorizzazione - la trasformazione in dovere.

L’empatia esteriorizzata «Vivo in un contatto continuo con persone irriducibilmente estranee o troppo note. In realtà, così come non riesco a cogliere nel gesto di uno straniero la traccia di un’antica tradizione, spesso non mi viene nemmeno in mente di cogliere nel vecchio che mi sta davanti, al di là dell’età o delle righe, il “sentirsi vecchio”. Non è che io non veda o non senta: la mia esperienza[=rendermi conto] dell’incontro con l’altro è ridotta ai minimi termini, atrofizzata, impoverita. E’ carente sul piano conoscitivo, del riconoscimento, dell’attestazione di chi è l’altro; sul piano etico del rispondere alla sua richiesta di aiuto, di attenzione; infine sul piano linguistico, del trovare le parole non equivoche».

L’empatia esteriorizzata (2) «Le mie conoscenze, la mia educazione sentimentale sono, quasi sempre, solo un limite, che mi impedisce di scambiare la mia esperienza con quella di un altro, rendendola momento di una relazione, facendola entrare nel contesto della vita altrui». Così oggettivate, esse saturano lo spazio in cui prendono forma relazioni concretamente vissute: se l’esperienza dell’altro è già da sempre avvenuta, qual è la consistenza reale dell’incontro sempre diverso e sempre avventuroso con l’altro?

L’empatia esteriorizzata (3) Tale è la conseguenza paradossale del fatto che la nostra epoca ha acquisito la consapevolezza definitiva della struttura intersoggettiva della realtà, per cui l’esistenza degli altri, l’essere insieme, la pluralità è diventato un dato di senso comune. L’acquisizione fondamentale che un soggetto, nascendo, entri a far parte di un mondo, che esisteva prima di lui e in cui incontra altri esseri umani, ha reso il legame stesso con gli altri un dato di fatto esistenziale e ontologico, completamente indipendente dalla relazione vissuta con l’altro. Gli altri sono diventati così una componente “oggettiva” dell’esistenza umana, che sussiste, cioè, senza bisogno di tradursi in un’esperienza reale-personale di relazione.

L’empatia esteriorizzata (4) «C’è dunque uno scarto profondo tra il dato oggettivo dell’infinità di scambi sociali, in cui siamo giornalmente coinvolti e l’esperienza corrispondente del singolo. La pluralità, l’essere insieme è dispersione e disparità, un incrociarsi di mondi privati, a partire dai quali occorre istituire sempre di nuovo il senso dell’essere-in-comune così come dell’essere-in-relazione» [cfr.: H. Arendt, Vita activa oppure Le origini del totalitarismo] (p. xxvi)

L’empatia doverosa Come contraccolpo all’oggettivazione dell’esperienza della relazione con gli altri, si è affermata la forza etica dell’altro, rispetto al quale siamo da sempre responsabili: dell’altro dobbiamo addossarci le pene, le sofferenze, vivendo al suo posto, sperimentando non la nostra, ma la sua debolezza, fragilità, mortalità, consegnandoci al destino umano come a qualcosa che riguarda non noi, ma il nostro simile [E. Lévinas].

L’empatia doverosa (2) «E’ innegabile che abbiamo di fronte molti passaggi bruciati, passaggi relativi a momenti concreti di vita quotidiana, che probabilmente spiegano le enormi difficoltà che caratterizzano l’esperienza della relazione con altri. Non si può fare a meno di constatare che l’urgenza della responsabilità per altri, anche quando sia sentita in tutta la sua forza moralmente vincolante, non equivale affatto alla capacità di fare esperienza appropriata, viva della relazione» (p. xxv).

L’empatia doverosa (3) Un medico così si esprime: «…avverto forte in me il desiderio di far percepire la mia presenza alla persona che aiuto,…di entrare nella sua vita…con la vicinanza fisica, con una parola di conforto…come anche con un colloquio che la induca a riflettere…pian piano però quel volere diviene dovere…e…accade per due ragioni. La prima è attribuibile al momento in cui gli altri, scoperta questa mia predisposizione, sembra pretendano l’aiuto come atto dovuto. La seconda, è che l’helping diventa un must quando comincio a temere che nessuno possa fare altrettanto con me. Nasce così un alter ego, che porge aiuto sia a quella parte di me che lo esige sia alla persona che voglio o forse credo di aiutare…Sarà forse una voglia di buonismo o sciocco e melenso buonismo?»

L’empatia doverosa (4) 1)La mente esausta dell’operatore attiva emozioni conflittuali, che investono l’autopercezione e vi introducono la logica della divisione tra osservante e osservato; 2)tali emozioni conflittuali attaccano direttamente il processo empatico, riducendolo a percezione esterna e osservativa e trascinandolo nel dominio della ragione strumentale 3)non si esercita più la risorsa empatica ma ci si sforza di attivare il contagio empatico, per essere certo del coinvolgimento del paziente, piegando la relazione interpersonale alla logica osservativa della visibilità e rappresentatività 4)Si comanda a se stessi: «Sii empatico» e così si distrugge dalle fondamenta la base spontaneamente implicativa della relazione interpersonale.