Rita Fadda ha osservato come la formazione scorra parallela alla vita dell’uomo; finchè e dove c’è vita c’è anche formazione. “La nostra vita - scrive.

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Transcript della presentazione:

Rita Fadda ha osservato come la formazione scorra parallela alla vita dell’uomo; finchè e dove c’è vita c’è anche formazione. “La nostra vita - scrive la Fadda - è punteggiata da eventi che incidono su di noi, che lasciano un segno, che ci formano (…). La nostra storia di formazione ha inizio con un evento per antonomasia qual è la nascita. Evento in quanto noi non abbiamo scelto nulla: non lo spazio (il dove) non il tempo (il quando), non abbiamo scelto i genitori, non le caratteristiche genetiche e soprattutto non abbiamo scelto di nascere”

Guardini considera il nascere come la risultante di una serie di incontri casuali tra i nostri genitori, tra i genitori dei nostri genitori in una catena che si perde nel tempo. Così facendo sembra “attenuare” il concetto di “caso” dalla nascita introducendo un elemento rassicurante e consolatorio: persona si sono incontrate, forse amate, forse volute e accolte; anche noi a nostra volta incontreremo qualcuno che ci amerà e che ameremo e così via. In tale senso, invece dell’idea del mero essere gettati, che evoca la solitudine, la passività e la disumanità del nostro mero accidente, si possono introdurre, all’origine del nostro venire al mondo, gli elementi umani e non casuali dell’amore, della volontà, dell’accoglienza e della cura.

Potremmo anche dire che c’è qualcosa di non casuale nella assoluta casualità del nostro nascere, in quanto veniamo al mondo in virtù di qualcosa che ci precede e che può essere una passione, un gesto, una volontà. Appena venuti al mondo ci troviamo immessi in una rete di relazioni e di reciprocità. Heidegger afferma che l’essere umano è “il non-ancora”; l’incompletezza è la sua caratteristica fondamentale. Questo “non-ancora” altro non è che il processo formativo, che è senza fine.

Ogni persona assume quella forma, che è unica e irripetibile Ogni persona assume quella forma, che è unica e irripetibile. Perciò l’identità, la forma, quella forma che ci differenzia da ogni altro uomo, non è qualcosa che si acquisisce una volta per tutte e in cui ci si ferma, ma piuttosto ciò di cui continuamente andiamo alla ricerca. La persona è apertura, progettualità, capacità di intendersi e comunicare con l’altro, vivere nella società facendo propri, criticamente, cultura e tradizione; è affettività, cognitività, anima e corpo. Il soggetto su cui riflette l’educazione non è solo l’uomo naturale ma è anche l’uomo con i suoi bisogni, le sue credenze, i suoi sogni.

L’evento-morte è per la persona, gravida di significato pedagogico e formativo. A formarci non è la nostra morta, estrema esperienza della nostra vita, ma l’idea che di essa ci facciamo, il modo di concepirla, di pensarla e di dirla. Nessuno sfugge all’idea della morte neanche quando la nega, la ignora, la rimuove. Si può dire che tutti quanti noi siamo formati in qualche modo alla e dalla idea della morte. Odo Marquard in Apologia del caso ha scritto “Il caso che ci coglie nella maniera più carica di destino e più dura, a meno che non lo si consideri come la consolazione del non dovere continuare all’infinito con i nostri volteggi, è la nostra morte. Dalla nascita, per un caso del destino, noi siamo condannati a morte, vale a dire a quella brevità della vita che non ci lascia il tempo di liberarci a nostro piacere di ciò che per caso già siamo”.

L’idea espressa in questo passo, che noi uomini siamo più i nostri accidenti che la nostra scelta, non è da considerarsi una sfortuna dal momento che il caso è la nostra normalità storica, condizionata dalla mortalità. Jankélévitch in La mort scrive: “La morte dà forma alla vita. In ciò consiste la doppiezza del limite: nel dire insieme si e no, e cioè nel rifiutare affermando e nell’affermare rifiutando, in quanto il termine diventa ciò che determina e il limite risulta parte integrante della forma”.

La morte è l’altra faccia della vita. Vero è che nella morte dell’altro si annuncia la nostra morte e porta via una parte di noi, tutta quella parte di noi che gli appartiene. Con lui muore tutto un universo di possibilità. Perciò noi sperimentiamo la morte come perdita in tutto il corso della nostra vita: in un obiettivo mancato, in un desiderio inappagato, in un amore finito o mai cominciato, in una malattia, in un lutto. Ogni perdita rappresenta, in qualche modo, una esperienza di morte. In ciò consiste il nostro “ordinario morire”.

Su questo fatto che la morte può dare il via ad un orizzonte di umanizzazione della vita, concorda anche Ernesto de Martino, che mette in luce il significato della morte e dell’elaborazione di questa nei riti e nei lamenti funebri dell’antichità del cristianesimo, come condizione della forza rigenerante della cultura. Di fronte al problema della morte di chi ci è caro, abbiamo tre possibilità: dimenticarli e farli morire in noi, farli rivivere continuando la loro opera, perdere noi stessi morendo con colui che muore. Ma questo è il rischio di chi è disarmato di fronte al dolore e alla disperazione e non riesce a riportare la morte da mero fatto naturale a elemento di cultura, di civiltà, di valore. Forse in tale senso, la morte è la “silenziosa compiutezza della vita”. La vita senza la morte sarebbe come un’opera incompiuta.