Il termine Vulnerabilità deriva da vulnus

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Transcript della presentazione:

Il termine Vulnerabilità deriva da vulnus che letteralmente significa possibilità di ferita o lesione.

La vulnerabilità può essere: Fisica (diritto di Difesa); Psicologica (diritto di non violazione degli affetti, delle emozioni, persecuzioni dell’anima)

La commissione Europea Center for Ethics and Law di Copenhagen ha introdotto nel 1998, e ratificato nel 2000, il principio di vulnerabilità, da affiancare a quelli di autonomia, integrità e dignità umana.

Esistono due ambiti concettuali di questo principio: Vulnerabilità come espressione della fragilità e finitezza dell’esistenza umana; Vulnerabilità come indicazione centrale nella discussione etica e applicabilità morale.

La Vulnerabilità esprime due idee fondamentali: La prima riguarda la fragilità e la finitezza dell'esistenza umana su cui poggia, nelle persone capaci di autonomia, la possibilità e la necessità di ogni vita morale. La seconda è l'oggetto di un principio morale che richiede l'esercizio della cura nei confronti delle persone vulnerabili.

In questo senso tutti gli esseri umani, Le persone vulnerabili sono quelle persone la cui autonomia e dignità o integrità può essere minacciata. In questo senso tutti gli esseri umani, in quanto portatori di dignità, sono protetti da questo principio.

Il principio di vulnerabilità richiede specificamente di non interferire con l'autonomia, la dignità o l'integrità degli esseri umani, ed essi ricevano assistenza affinché possano realizzare le loro potenzialità. Ne consegue che vi sono diritti positivi per l'integrità e l'autonomia, che fondano le idee di solidarietà, non discriminazione e comunità.

Vulnerabilità intesa come condizione di dipendenza fisica, psichica, etica.

Dalla tirannia dei principi alla dignità della persona, da un sistema etico formattato, ad uno rivolto all’inter-esse della difesa del soggetto vulnerabile. R. Sinno, La bioetica e la persona umana, Corso di Pastorale Sanitaria, STIP di Bari, 2009.

Le dimensioni della Vulnerabilità.

ciò che i sociologi definiscono La vulnerabilità come esposizione ad eventi esterni non dipendenti da propria volontà, ciò che i sociologi definiscono possibilità e stabilità della felicità.

Vulnerabilità come condizione di fragilità nella competizione sociale ed economia.

Vulnerabilità nella percezione di essere feriti: Essere ferti per; Essere feriti da; Essere feriti con.

Essere vulnerabile per una evidente ragione; Essere ferito per un motivo apparente; Per “costruire una rete di protezione”.

Essere feriti da un sistema sociale; Essere feriti da una comunità specifica, lavorativa, familiare, personale.

Essere ferito con gli altri, per fronteggiare i pericoli sia personali che sociali.

Vulnerabilità Ontologica intesa come la “mancanza” della percezione del Valore dell’essere-persona, fondamento dell’essere umano.

Vulnerabilità della vita buona, vita morale

Vulnerabilità dei sistemi funzionanti e delle capacità individuali.

Vulnerabilità dei parametri sociali : Di che cosa? Di quali condizioni di benessere; Degli status relazionali.

“ Se l’uomo vive in un corpo e in un tempo, è realtà innegabile che viva con gli uomini e in una tensione continua al superamento del tempo. Egli è un essere che è naturalmente teso verso il trascendente come dimensione non diversa dagli altri, ma semplicemente consequenziale.” Cfr. Hannah Aredent, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.

I livelli di vulnerabilità da indagare : Nella vita sociale; Nella corporeità; Nella vita etica-morale;

g

Nella vita sociale il senso di sicurezza nasce con la convivenza umana Nella vita sociale il senso di sicurezza nasce con la convivenza umana. Esistono due linee interpretative riguardo la vulnerabilità e l’azione dell’uomo nella comunità.

Vulnerabilità e azione dell’uomo come soggetto egoistico che massimizza il proprio beneficio a danno degli altri.

2. Vulnerabilità dell’uomo simpatico, per il quale la propria massimizzazione dei benefici non esclude quella degli altri.

La prima posizione è espressa dal pensiero del filosofo empirista Hobbes.

o sottomettersi a vicenda.“ “ In primo luogo pongo, come inclinazione generale di tutti gli uomini, un desiderio perpetuo e senza tregua di potere e potere, che cessa solo con la morte. [...] Quindi se due uomini desiderano la stessa cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, essi divengono nemici, e, nel perseguire il loro fine (che è principalmente la conservazione di sé, e a volte solo il piacere), si sforzano di distruggersi o sottomettersi a vicenda.“ Cfr.Th. Hobbes, Leviatano, Editori Riuniti,Roma 1976, pp. 64 e 71

La seconda posizione si ricollega alla visione aristotelica sociale di ζοων πολιτικóν, ossia di una comunità naturale umana retta dalla cooperazione di mezzi e fini tra individui per la costruzione di un bene comune .

Per Hobbes la convivenza, e non vulnerabilità, si ottiene con una patto o alleanza giuridica in cui la convivenza pacifica si ottiene dall’osservanza delle leggi di uno stato.

“Le leggi di natura (come la giustizia, l'equità, la modestia, la pietà, e, insomma, fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi) di per se stesse, senza il terrore di un potere che ne causi l'osservanza, sono contrarie alle nostre passioni naturali, che ci inducono e i patti, senza le spade, sono solo delle parole, prive della forza di dare agli uomini una qualsiasi sicurezza. “ Cfr. Th.Hobbes, Leviatano, Editori Riuniti,Roma 1976, p 10

La vulnerabilità rimane confinata nella Legge. Un equilibrio tra diritti positivi e sistema negativo di azioni, un rapporto del dovere tra Ego e Alter.

Esistono tre direttive per superare la visione legalista di Hobbes sulla vulnerabilità.

La vulnerabilità intesa come fattore esclusivo esterno. Questa posizione riprende l’idea di Locke che posiziona la socialità e la relazione morale all’interno dello stato di natura, descrivendo l’uomo come creatura socievole e razionale.

In questa sua recuperata originaria apertura alla socialità, per Locke l'uomo può rispondere alle sue esigenze di protezione attraverso la proprietà.  “È la proprietà che protegge l'uomo dalle fragilità dovute alla sua costitutiva esposizione al mondo e alle sue minacce”. Cfr. J. Locke, Il secondo trattato sul governo, Rizzoli, Milano 2001

Una seconda posizione è quella di Mauss, secondo cui la società si regge su un continuo scambio o dono reciproco di relazioni positive.

“La scommessa sulla quale si basa il paradigma del dono è che il dono costituisca il performatore per eccellenza delle alleanze. Ciò che le suggella, le simboleggia, le garantisce e le rende vive. Si tratti di un dono iniziale o di un dono ripetuto talmente tante volte da non apparire più neanche tale, è donando che ci si dichiara concretamente pronti a giocare il gioco dell'associazione e dell'alleanza e che si sollecita la partecipazione degli altri allo stesso gioco”. A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 12

La teoria del dono genera il concetto dello scambio. Questa integrazione determina instabilità sociale e indeterminatezza, un indebitamento comunitario.

del modello del mercato”. “Contrariamente al mercato che è fondato sulla liquidazione del debito, il dono è fondato sul debito. [...] Il debito volontariamente mantenuto è una tendenza essenziale del dono, così come la ricerca dell'equivalenza è una tendenza del modello del mercato”. J. T. Godbout, Dallo scambio al dono, in “Animazione Sociale”,n. 8-9/1999, p. 38

Queste due teorie prevedono la presenza di uno stato forte capace di proteggere dalle vulnerabilità individuali o da uno strapotere di gruppi. Il pericolo è uno statalismo sociale ed etico.

La terza teoria riguardo il rapporto tra Vulnerabilità e coesione sociale è definita quella del “munus”.

Munus deriva dal sostantivo Communitas. E’ un atto donativo che appartiene per specie alla categoria del donum, ma che non condivide con questi la particolare dinamica del dono e contro-dono individuata da Mauss.

Com-munitas diviene il luogo abitato da persone che condividono una condizione debitoria a seguito di un beneficio ricevuto, e che si relazionano conseguentemente rispondendo alla doverosità del munus, all'obbligo posto dalla gratitudine che esige una nuova donazione.

ne è affetto, a differenza di colui Ne risulta che communitas è l'insieme di persone unite non da una proprietà, ma, appunto, da un dovere o da un debito. Non da un più, ma da un meno, da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura una modalità difettiva, per colui che ne è affetto, a differenza di colui che ne è, invece, esente o esentato”. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino1998, p. 15.

La vulnerabilità e corporeità.

che lo animano dall'interno. ll mio corpo è, più essenzialmente, corpo-vulnerabile: vulnerabile ai colpi dell'altro uomo, vulnerabile alle forze della natura, vulnerabile alle cadute dei fragili equilibri psichici che lo animano dall'interno.

La dea Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po'e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre “la Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda “la Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus

“L'aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla «cura», sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto. Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati. [...] Gli altri possono essere trasformati in dipendenti e in dominati, anche se il predominio è tacito e dissimulato”. M. Heidegger in Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976,p.157.

“Posto in questi termini, questo modo di aver cura sembra presentificare un rischio insito nelle relazioni d'aiuto [...]: quello di occuparsi dell'altro vedendone solo il bisogno di cure, prevedendo ogni sua richiesta, decidendo per lui. L'aver cura in cui si «sostituisce dominando» sembra ben evocare la forma di una relazione educativa che rende il destinatario della cura oggetto di essa, senza concedere il minimo spazio alla sua capacità intenzionale, espressiva, al suo desiderio, al su poter essere”. C. Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell'educare, Franco Angeli, Milano 2000, p. 27. 

L’aver cura non è solo la manifestazione dell’essere è, invece, atto costitutivo della persona e dei rapporti tra persone.

lo invoco, lo chiamo, lo nomino. Lévinas afferma la coestensività dell'atto di comprensione dell'Altro e della inseparabile sua invocazione nei confronti dell'Io. Afferma un primo principio particolarmente significativo: nella mia relazione con l'Altro l'atto dell'invocazione è un atto costitutivo, contestuale all'atto della comprensione; nel momento stesso in cui comprendo l'altro, io lo invoco, lo chiamo, lo nomino.

“Nella mia analisi, il Volto non è affatto una forma plastica, come un ritratto: la relazione con il Volto è al tempo stesso il rapporto con l'assolutamente debole - il rapporto con ciò che è assolutamente esposto, nudo e denudato. E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all'altro, Jaca Book, Milano,1998, p. 138.

La vulnerabilità, così, si trova ad essere considerata come condizione che si esprime tra due polarità.

La prima è abitata dal Volto dell'altro, che si espone vulnerabile nella sua nudità, e che dalla sua vulnerabilità chiama alla responsabilità nei suoi confronti, Volto vulnerabile di cui sono ostaggio nell'obbedienza al comandamento "tu non ucciderai“. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, pag 204

La seconda è abitata dal darsi della mia sollecitudine fondata sulla stima di sé come persona capace di "aspirazione ad una vita buona-con e per gli altri - in istituzioni giuste" Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1996 

L’aver cura della persona, e il prendersi cura, genera un sistema di connettività sociale. In tal modo la condizione di vulnerabilità è affrontata con un sistema pubblico, che non rinnega le particolarità individuali, e le integra in una difesa dei più deboli. Cfr. R. Sinno, Bioetica al femminile. Il Care di Maria, Auxiliatrix, Benevento 2008

“La cura come etica pubblica produce politiche di condivisione volte a contrastare l'incuranza ed a promuovere un aver cura delle relazioni. [...] Assumersi la responsabilità etico - politica dell'esterno significa porre l'accento sul ruolo della cultura della domiciliarità, che è cultura del sentirsi accolti e riconosciuti in un contesto di comunità territoriale”. V. Iori, Cura, in Quattordici voci per un glossario del welfare, I libri del Fondo Sociale Europeo, Roma, ISFOL, 2008, p. 41;

La Cura se non indirizzata o ipertrofizzata diviene essa stessa sistema di vulnerabilità

La vulnerabilità da cura non è l'esito della rottura, dell'assenza o dell'indebolimento spinto dei legami familiari, quanto il risultato di una loro tenuta ad oltranza, sia per fattori endogeni alle famiglie sia per le condizioni di contesto in cui esse si trovano a fronteggiare gravi problemi di cura. Chi è posto di fronte a problemi e bisogni di cura di un familiare non più in grado di badare a se stesso vede minacciato il proprio benessere e la propria capacità di scelta perché condivide [la] comune condizione di fluttuazione nello spazio sociale [...] o perché si sente sospeso [...] sopra un piano che sa essere destinato a inclinarsi. È qualcuno che, preso dentro il cerchio del care, è sottoposto a strettoie inedite; è qualcuno [...] che è più esposto a rischi di invalidazione sociale. G. Costa, Quando qualcuno dipende da te. Per una sociologia della cura, Carocci, Roma 2007, p. 27.

Vulnerabilità e vita morale

Ogni vita individuale o sociale è finalizzata ad un rapporto fondato sul bene. Ogni vita non può prescindere da una giusta vita morale

La vita buona tende alla felicità come insegna la filosofia aristotelica .

“Poniamo come opera propria dell'uomo una certa vita, e questa consiste in un'attività e in un'azione accompagnate da ragione, ed è proprio dell'uomo virtuoso realizzare bene e perfettamente queste cose, ed ogni cosa è ben compiuta secondo la virtù che le è propria; se è così, il bene umano consiste in un'attività dell'anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta”. Aristotele, Etica Nicomachea, I 1098, a.12-18

Aristotele indica alcune acquisizioni importanti: L'uomo ha un'opera che gli è propria, e tale opera è una certa vita attiva secondo ragione, capace di realizzare costantemente nella prassi la virtù del giusto mezzo; Tale opera è realizzata in misura eccellente dall'uomo virtuoso, capace cioè di deliberare saggiamente in relazione all'universale e al particolare; Il fine che tale opera persegue è il bene supremo: la felicità.

Essa non è una disposizione, La felicità non consiste nel semplice possesso della virtù, ma nel suo uso. Essa non è una disposizione, ma un'attività desiderabile per se stessa. 

L'ergòn dell'uomo, l'opera che più gli è propria ha per fine un bene supremo che si rende manifesto in quanto attività desiderabile per se stessa. Il bene supremo perseguito dall'uomo attraverso l'opera a lui più propria rivelandosi come attività si caratterizza contestualmente nella prospettiva del divenire. 

Ogni attività dell’uomo coincide la vita buona

“La felicità è una sorta di attività, e l'attività è evidentemente un divenire e non sussiste come qualcosa che si sia acquistato una volta per tutte. Ora, l'esser felice consiste nel vivere e nell'esser attivi, e l'attività dell'uomo dabbene è virtuosa e piacevole per se stessa”. Aristotele, Etica Nicomachea, I 1098, b.28-32

La vita felice, pertanto, l'eudaimonia, in quanto attività umana, è possibile all'interno di quello che Heidegger definisce come mondo-ambiente,e nella misura in cui, nel mondo-ambiente che lo contiene, l'uomo vive relazioni e stabilisce legami sociali.

Prospettiva della "vita buona“; Con e per l'altro ; Questa prospettiva della vita buona è ripresa nella ricerca filosofica di Paul Ricœur, il quale definisce l'orizzonte etico della persona secondo un ritmo ternario:  Prospettiva della "vita buona“; Con e per l'altro ; All'interno di istituzioni giuste . Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1996, p.266

Per ottenere tale percorso etico, che evita di ampliare la solitudine della sopraffazione dell’Io, quindi la vulnerabilità dell’altro e di me stesso, è opportuno riconoscere nella stima di sé l’elemento fondamentale della costruzione di una società giusta.

La stima di sé supera la dimensione dell'astrattezza e dell'autocompiacimento solo se si colloca nella prospettiva dialogica imposta dall'irrompere dell'altro nel mio orizzonte, e solo se si completa nel cogliersi pienamente all'interno di istituzioni giuste. 

La stima di sé risponde alla chiamata dell’altro grazie alla sollecitudine.

“La sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma [ “La sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma [...] ne dispiega la dimensione dialogale. Per spiegamento [...] intendo certamente una rottura nella vita e nel discorso, ma una rottura che crea le condizioni di una continuità di secondo grado, tale che la stima di sé e la sollecitudine non possono viversi e pensarsi l'una senza l'altra Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1996, p.275

Vivere all’interno di istituzioni giuste è possibile perché tali strutture sono una comunità storica, non solo riconducibili ad un sistema di relazioni regolate dal vivere comune o dalla legge, ma perché esse esprimono la potenzialità di ogni persona umana che ne fa parte.

Da queste considerazioni la vita morale (intesa come aspirazione alla vita buona) appare definita lungo alcune linee di concretizzazione.

L'agire correlato a tutte le forme di amicizia, amore, sollecitudine per l'altro da sé.

L'agire correlato al vivere in quanto cittadino, cioè al vivere secondo giustizia in uno spazio politico e istituzionale costruito dagli uomini nella loro tensione alla vita compiuta;

L'esercizio nel proprio tempo biografico del sistema di virtù etiche.

La vita morale per sua costituzione è esposta al mondo, si esplica attraverso l’attività della vita buona, si fonda sull’esempio morale e sociale, è sì sottoposta al rischio dell’errore, e al valore della reciproco scambio etico.

“La nostra vita morale è vulnerabile. Ciò non significa di per sé negare il bene, al contrario si dimostra la resilienza del bene. Come le piante fragili resistono alla furia del vento, così le nostre anime non si devono spezzare ai richiami del facile e azzeramento dei valori che le guidano”. R. Sinno,Ripensare la bioetica alla luce della cura, in “Vita Ospedaliera”, Anno 2010, n 6, p.5.

Per resilienza si intende la capacità psichica e fisica di superare situazioni difficili, come una grave malattia, la perdita di una persona cara, un lungo periodo di disoccupazione senza conseguenze croniche.

A favorire il grado di resilienza sono il contesto sociale ed economico, la vita biologica e il suo significato narrativo-biografico, la capacità della percezione della vulnerabilità, e il grado positivo che si ritiene nella propria e altrui vita

There’isnt human ability without a moral upright life.