Marcel Duchamp, Taglia
“Condusse Bernini un ritratto così al vivo, che non fu mai occhio sino a questi nostri tempi che non ne stupisse; e avevalo già nel suo luogo collocato, quando assai cardinali e altri prelati vi si portarono apposto, per vedere sì bell’opera, tra questi uno che disse: «Questi è il Montoia pietrificato»; ne ebbe egli appena proferite queste parole che qui sopraggiunse lo stesso Montoya. Il cardinal Matteo Barberino, poi Urbano ottavo, che pure anch’esso era con quei cardinali, si portò ad incontrarlo e toccandolo disse: «Questo è il ritratto di Monsignor Montoya (e voltosi alla statua) e questo è Monsignor Montoya»” (Filippo Baldinucci, Vita di Bernini)
(Petrarca, Canzoniere, 77) Per mirar Policleto a prova fiso con gli altri ch'ebber fama di quell'arte mill'anni, non vedrian la minor parte de la beltà che m'ave il cor conquiso. Ma certo il mio Simon fu in paradiso (onde questa gentil donna si parte), ivi la vide, et la ritrasse in carte per far fede qua giú del suo bel viso. L'opra fu ben di quelle che nel cielo si ponno imaginar, non qui tra noi, ove le membra fanno a l'alma velo. Cortesia fe’; né la potea far poi che fu disceso a provar caldo et gielo, et del mortal sentiron gli occhi suoi. (Petrarca, Canzoniere, 77) Ghirlandaio, Lietta de’ Tornabuoni (un tempo ritenuto un ritratto di Laura)
La tesi di Gadamer: il ritratto non è una copia più o meno fedele della realtà; tutt’altro: è il volto nella sua quotidiana presenza che deve apparirci ora come una realtà che si manifesta e accade nella sua forma più vera solo nel ritratto. Le cose sono solo nell’interpretazione che ne diamo e l’arte è il luogo originario dell’interpretare – il luogo che inaugura quel senso che poi nella quotidianità del vivere si dissipa e si fa meno leggibile.
“Nell’immagine, l’originale presenta se stesso “Nell’immagine, l’originale presenta se stesso. Ciò non vuol dire necessariamente che esso abbia bisogno proprio di questa rappresentazione per manifestarsi. Si può presentare per ciò che è anche in modo diverso. Ma quando in tal modo si presenta, questo non è più un fatto accidentale, bensì appartiene al suo essere stesso. Ogni rappresentazione di questo tipo è un evento ontologico, e entra a costituire lo stato ontologico dell’evento rappresentato. Nella rappresentazione, questo subisce una crescita nell’essere, un aumento d’essere. Il contenuto proprio dell’immagine è definito ontologicamente come emanazione dell’originale” (G. Gadamer, Verità e metodo (1960), a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp. 174-75).
E tuttavia: si può davvero parlare di verità delle immagini in un senso pieno del termine?
Una prima constatazione: le proposte artistiche non sono esclusive. Come reagiremmo se qualcuno ci dicesse che se ti piace Piero della Francesca allora non può piacerti Bosch e se ti piace Bosch allora non può piacerti Manet? Io reagirei dicendo che l’immaginazione è tollerante e che il mondo e la vita hanno momenti e aspetti tanto diversi da consentirci di giocare davvero molti e diversi giochi.
Gadamer ci invita infatti a pensare all’arte e alle sue forme espressive come se fossero il luogo privilegiato di un’esperienza del mondo ed è proprio questa la tesi che non mi sembra possibile condividere. Le raffigurazioni – e tra queste i ritratti – non sono forme in cui abbiamo un’esperienza del mondo e non possono pretendere di avere una valenza ontologica. Le immagini avanzano una proposta e insieme dimostrano la sua percorribilità nello spazio racchiuso dalla cornice, ma lasciano a noi il compito di saggiare la sua validità al di là dell’immagine, nel mondo. Ci mostrano un volto dipinto e insieme fingono un contesto espressivo ed un atteggiamento esistenziale, disegnando così una vicenda esemplare nella biografia immaginaria di un individuo e lasciando a noi spettatori il compito di decidere se questa finzione può aiutarci a disegnare la biografia reale di una persona reale. E ciò è quanto dire: un ritratto non dice come stanno le cose e non ha una pretesa ontologica, ma si dispiega sul piano performativo come un invito a condividere una finzione plausibile e a dare vita ad un esperimento immaginario, di cui si deve poi cercare di saggiare la praticabilità – nel mondo. Nelle immagini, dunque, non facciamo realmente esperienza di qualcosa, ma ci lasciamo persuadere da ciò che vediamo e insceniamo un esperimento che si gioca sul terreno della finzione, ma che pretende tuttavia di insegnarci un nuovo modo di guardare e di atteggiarsi rispetto alle cose del mondo.
T. Pericoli, Dalla finestra
Le due domande che dobbiamo porci oggi: dobbiamo infatti chiederci da un lato che cosa consenta ad un’immagine di poterci parlare proprio di un individuo determinato dobbiamo raccogliere qualche argomento per decidere se di ritratti si possa parlare solo quando ad essere raffigurata è una persona reale o se si possa invece discorrerne anche quando si pretende di raffigurare il personaggio di un mito o di un’opera letteraria – Edipo o re Lear, per esempio
Giorgione, Ritratto di vecchia
Boccioni, Materia, 1912 Boccioni, Ritratto di mia Madre, 1912
Si tratta, certo, di un equilibrio difficile da determinare Si tratta, certo, di un equilibrio difficile da determinare. Tutti i i ritratti presentano una persona anche secondo un certo taglio. Ogni individuo è sempre anche caratterizzato da proprietà generali. Indicativi in questa prospettiva sono gli autoritratti di Rembrandt in varie fogge e sotto diverse spoglie:
Riconoscere che la dimensione fenomenologica non è di per sé sufficiente per venire a capo del nostro problema sembra suggerire la percorribilità di un diverso cammino che dalla prospettiva dello spettatore ci riconduce al fatto che l’immagine è il prodotto dell’attività di un artefice. Dobbiamo in altri termini chiederci se un ritratto non guadagni la sua relazione ad una persona determinata nel suo dipendere da un’esplicita volontà figurativa, al suo essere il frutto di un’azione che si dispiega in presenza di un modello.
Cavaliere nella battaglia tra Eraclio e Cosroe San Giovanni Salomone Costantino Cavaliere nella battaglia tra Eraclio e Cosroe
La prospettiva dell’uso: Le immagini assolvono a molte funzioni e vi sono raffigurazioni che possiamo usare anche così: per ricordarci di una persona, per celebrarne la grandezza, per raccontarne in qualche modo il carattere e l’aspetto o anche soltanto per renderla presente sia pure soltanto in effigie, come accade quando negli uffici pubblici la fotografia del Presidente della Repubblica ci avverte che dobbiamo sentirci osservati dall’autorità nel cui nome in ogni caso si agisce. Ora, quando usiamo un’immagine per questi e altri analoghi scopi abbiamo a che fare con un ritratto ed è ancora solo in virtù di quest’uso che l’immagine si riferisce proprio ad un individuo determinato. Un ritratto si riferisce a Cesare solo perché lo usiamo così – per ricordare, per celebrare o per maledire in effigie proprio quella persona e non altre.
Vi sono condizioni d’uso di uno strumento. La somiglianza è una condizione che consente di usare una raffigurazione come se fosse un ritratto, anche se questo non significa che la somiglianza sia sempre il fondamento che ci guida nel cammino che dal dipinto conduce alla persona raffigurata.
Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane Si tratta di Broccardo Malchiostro Sullo sfondo una tela di broccato su cui sono raffigurati fiori di cardo Broc(cato)+cardo = Broccardo
Per poter decidere quali siano le condizioni che ci consentono di usare una raffigurazione come un ritratto dobbiamo precisare qual è di volta in volta la funzione che attribuiamo al ritratto. I ritratti si usano in molti modi e sono questi modi a determinare la natura della conformità cui l’immagine deve far fronte. I ritratti servono per ricordare – devono essere simili alla persona raffigurata. I ritratti servono per celebrare uno status sociale – devono saper fare vedere nell’individuo la professione o il mondo cui appartengono I ritratti servono per dare un volto a persone che non abbiamo mai conosciuto – e anche qui ha senso parlare di una conformità del volto alle nostre attese.
percettiva al soggetto Ritratto uso conformità immaginativa
Conformità percettiva: La somiglianza J, van Eyck, Ritratto di uomo (Timoteo) , 1432 (“Léal souvenir”)
Il ritratto che celebra uno status sociale: conformità percettiva e immaginativa August Sander Otto Dix
Ma su che base possiamo cercare una conformità immaginativa Ma su che base possiamo cercare una conformità immaginativa? Come possiamo dare un volto ad un insieme di parole che raccontano di una persona? C’è stato un uomo di nome Democrito, ma quale fosse il suo volto non lo sappiamo. Eppure sentiamo egualmente il bisogno di dare un volto – a Democrito, a Platone, a Omero, a Cristo, a Odisseo o a Penelope.
Una soluzione apparentemente scientifica: “la fisiognomica è una certa peculiare forma di osservazione che ci consente di dedurre le qualità dell’anima a partire dai segni che appartengono ai corpi. Si è soliti, come dice il proverbio, riconoscere l’artigiano dai suoi utensili e il padrone dalla sua casa, ma poiché questa regola è reversibile e può quindi essere fatta valere nei due sensi, la fisiognomica sarà utilissima allo scultore e questo perché non soltanto come scultori dovremo produrre una qualche immagine a partire da modelli viventi […], ma perché dovremo anche immaginare l’apparenza dei morti a partire dai loro caratteri morali che ci sono altrimenti noti” (Pomponio Gaurico, De sculptura, a cura di A. Chastel e R. Klein, Droz, Genève, 1969, p. 129).
«Zopiro, che affermava di saper riconoscere il carattere di ognuno dall’aspetto fisico, aveva attribuito a Socrate un cumulo di vizi, suscitando il riso di tutti gli altri, che non trovavano in lui quei vizi; ma in suo aiuto venne proprio Socrate, il quale disse che quei vizi erano insiti in lui, ma che li aveva scacciati da sé con la ragione» [Cicerone, Tusculanae disputationes, IV.37.80]
La risposta alla nostra seconda domanda: la pretesa di vincolare la possibilità del ritratto alle persone realmente esistite è frutto di una preoccupazione tutta filosofica che ha altrove le sue radici: nella paura di doversi per questo avventurare sul terreno incerto di un’ontologia troppo permissiva. Io non credo che una simile conseguenza debba essere necessariamente tratta, ma piuttosto che immergermi ora in una riflessione di questa natura vorrei invece sottolineare che dal punto di vista di una comprensione effettiva della natura del ritratto non è importante chiedersi se, dato un ritratto, esiste davvero la persona che raffigura, ma se il suo raffigurare proprio quella persona è reso possibile da una conformità di natura percettiva o immaginativa. E vale forse la pena di sottolineare che queste due domande non coincidono perché non è affatto detto che chi ritrae una persona esistente l’abbia davvero vista. Spesso è vero il contrario e vi sono infiniti dipinti di uomini illustri che sono stati raffigurati dopo che erano morti da tempo.