Cosa fare “Oggi l’autismo, più che come un disturbo o una malattia dalla quale guarire, viene sempre più visto come una neurodiversità intesa come una.

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Transcript della presentazione:

Cosa fare “Oggi l’autismo, più che come un disturbo o una malattia dalla quale guarire, viene sempre più visto come una neurodiversità intesa come una condizione di sviluppo qualitativamente diversa dallo sviluppo “tipico”. In questa prospettiva non ci sono problemi da risolvere, ma caratteristiche particolari di un bambino, di fronte alle quali occorre adattare l’ambiente di lavoro, il nostro comportamento e le modalità di intervento. La verità è che il bambino con autismo “funziona” cognitivamente e percepisce la realtà in maniera diversa (non peggiore): questa diversità prima di tutto va rispettata e poi, nel caso di compromissioni che ostacolano l’autonomia e l’apprendimento, occorre intervenire sui sintomi e sul potenziamento delle abilità”. Esistono delle attività che possono essere proposte, modificate e personalizzate in modo opportuno, suddivise per aree: area neuropsicologica, motorio-prassica, sociale, cognitiva, affettivo-emozionale, comunicazione e linguaggio, autonomia L. Cottini, G. Vivanti (a cura), B. Bonci, R. Centra, 2013, AUTISMO come e cosa fare con bambini e ragazzi a scuola. Workbook 1, pag. 4)

Come fare La speranza di trovare il “metodo” per l’autismo, pronto per l’uso, non è realizzabile; occorre far riferimento a strategie validate sull’esperienza, sulla ricerca,e modularle, modificarle per personalizzare l’intervento. “Fra le strategie di intervento specifiche per l’autismo che, da un lato, propongono modelli di lavoro adattabili al contesto scolastico e, dall’altro, posseggono un ampio e documentato livello di validazione (Evidence-based practice), le più significative sono: l’analisi comportamentale applicata (ABA); il programma TEACCH; il modello Denver; le procedure di comunicazione aumentativa e alternativa; il video modeling; procedure per promuovere abilità sociali” (L. Cottini, G. Vivanti ): storie sociali, conversazioni con i fumetti task analisys L. Cottini, G. Vivanti (a cura), 2013, AUTISMO come e cosa fare con bambini e ragazzi a scuola. Guida, pp. 79-83.

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Storie sociali La storia sociale è un breve racconto scritto in un formato specifico per l’allievo con autismo, che descrive una situazione particolare, un evento, .. Le storie sociali mirano ad aiutare il bambino a comprendere le situazioni sociali, attraverso l’adozione di un approccio metodologico centrato sull’apprendimento visivo. Hanno lo scopo di insegnare agli allievi a gestire il proprio comportamento nel corso di una situazione interattiva, descrivendo il luogo dove la situazione si svolgerà, quando, cosa accadrà, chi parteciperà e perché ci si dovrebbe comportare in un determinato modo.

Task analisys I soggetti con autismo sembrano imparare meglio se si usano strategie di insegnamento visivo e se ogni passo di un’abilità viene insegnato. La Task Analysis è la frammentazione di un'abilità in fasi specifiche. Frammentare un'attività in fasi specifiche permetterà di identificare e affrontare più facilmente le difficoltà.

Tecnologie? Il PC crea un contesto comunicativo esplicito, chiaro e strutturato. L’ambiente di apprendimento sfrutta uno dei punti forti delle persone con autismo: le abilità visive. Il linguaggio utilizzato dal PC e le risposte fornite non hanno una dimensione emotiva (non c’è prosodia* variabile, non devono essere decodificate componenti non verbali). Gonella E. & Arduino G., Computer assisted activities with individuals with ervasive developmental disorders, in VI European Congress of Psychology , 1999 *prosodia: il modo in cui pronunciamo le frasi per sottolineare o esprimere particolari aspetti di quello che stiamo dicendo, come il contenuto emotivo; il tono della voce e l'uso dell'inflessione della voce per dare un significato alla parola di una frase

Tecnologie? In genere le attività e le strategie proposte sono in formato non digitale; tuttavia sono state sviluppate in forma digitale con esiti a volte positivi, a volte non differenti. Qui si propongono degli esempi in forma digitale: utilizzando la LIM per: stendere il programma della giornata, realizzare delle storie sociali e task analisys video modeling inoltre si propone la realizzazione di attività riferite all’area cognitiva e affettivo-emozionale (tratte dal testo di Cottini): classificare per colore (cognitiva) riconoscere le emozioni (affettiva-emozionale); di fumetti per la conversazione

Pensare per immagini “Io  penso  in  immagini. Le  parole  sono  come  una  seconda  lingua   per  me. Quello  che  faccio  è  tradurre  le  parole  che   sento che  leggo  in  film  a  colori. Quando  qualcuno  mi  parla,  le  sue  parole   sono  immediatamente  tradotte  in  immagini” (Temple Grandin)

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

Pensare per immagini Temple Grandin, Il cervello autistico, Adelphi, 2014

le tecnologie informatiche rappresentano uno strumento per raggiungere un obiettivo abilitativo, un mezzo e non un fine. (G. M. Arduino, progetto Touch for autism del Politecnico di Torino) e per il docente??!!

Motivazioni Gehlen* (1957) sostiene che l’uomo vive in un mondo artificiale che è fatto di oggetti, che egli stesso ha costruito per poter interagire con quello naturale che lo vede mancante di articolazioni vitali. L’uomo, a differenza degli animali che riescono a vivere nel mondo organico (naturale) o per lo meno nel loro segmento di mondo, è manchevole di autosufficienza, allora deve ricorrere alla realizzazione di artefatti che possano aiutarlo in questo. Ne deriva che la possibilità di sopravvivenza dell’uomo è data dalla sua capacità di capire quali siano le sue esigenze e soddisfarle con la progettazione e la realizzazione di questi oggetti. In definitiva l’uomo, essere imperfetto, si emancipa dalla natura creando oggetti artificiali per sopravvivere alla stessa natura; crea uno strato, nature artificielle, che alimenta e nel quale vive. *Arnold Gehlen (Lipsia, 29 gennaio 1904 – Amburgo, 30 gennaio 1976) è stato un filosofo, antropologo e sociologo tedesco.

L’animale affina sempre più meccanismi innati quali l’istinto alla tana, alla preda, alla salvaguardia della prole, all’identificazione del nemico e quindi alla difesa o all’attacco, «l’uomo, privo di mezzi di difesa organici, con prestazioni sensoriali mediocri, […], presenta una mancanza di specializzazione così marcata che è praticamente impossibile indicare quale ambiente, ossia quale insieme di condizioni naturali e originarie, dovrebbe essere soddisfatto perché l’uomo possa vivere» (U. Galimberti, Psiche e techne, pag. 118). Ma allora come è possibile che l’uomo riesca a sopravvivere in ogni zona del pianeta, ciascuna con caratteristiche ambientali e bisogni molto differenti dalle altre? La risposta sta nella tecnica: l’uomo ha costruito questa interfaccia che lo mette in collegamento con la natura facendogli superare le proprie imperfezioni. L’uomo ha costruito particolari tecniche sulla base delle differenti condizioni ambientali. Quindi costruire per sopravvivere.

Il modello “dell’imperfezione”, è riferibile al processo storico che vede la tecnica non come punto di arrivo dell’evoluzione dell’umanità, bensì come una possibilità che l’uomo ha e che utilizza per emanciparsi dalla sua imperfezione. Ciascun essere, nella sua sfera personale, può intravvedere propri bisogni di emancipazione e, nell’insieme, deposita nella sfera comune dei bisogni la propria istanza. Ciò significa che è prerogativa del singolo individuarne di propri. Tuttavia vale la pena domandarsi attraverso quali azioni e da parte di chi la nature artificielle venga creata e implementata; interrogarsi su chi si incarichi di progettare e realizzare tecniche che effettivamente possano soddisfare questi bisogni e se quelle che vengono distribuite siano effettivamente quelle che li soddisfino o sono forse tecnologie che soddisfano dei bisogni per poi generarne altri?

Se fosse possibile creare “in proprio”, ciò “alleggerirebbe” il problema oltre a facilitare una personale soluzione. Non è saggio demandare l’implementazione della nature artificielle solamente a determinati gruppi sociali. I bisogni sono personali e non debbono essere indotti. La necessità di emancipazione dal bisogno non può essere soddisfatta da altri. Inoltre una maggiore disponibilità di tecnologie permetterebbe di trovare quella che può soddisfare maggiormente la propria esigenza evitando, così, di dover scegliere fra alternative di ripiego. Alcuni studi si fondano sull’idea che il sapere e i suoi prodotti (incluse la scienza e la tecnologia) sono essenzialmente fenomeni sociali

Alcuni studi si fondano sull’idea che la scienza e la tecnologia siano essenzialmente fenomeni sociali Il Social Construction Of Technology (SCOT) si sviluppa negli anni ottanta e novanta; il suo modello teorico è, in particolare, stato descritto da Wiebe Bijker e Trevor Pinch, che ne hanno presentato alcuni esempi. Secondo questo modello una tecnologia può assumere diverse forme in base a quanti sono i gruppi sociali che hanno interesse alla sua realizzazione. Il suo sviluppo avviene in tre fasi. Nella prima, definita della flessibilità interpretativa, alcune funzioni specifiche vengono incorporate nell’artefatto tecnico; la sua forma è ancora in definizione ed è destinata ad avere ulteriori cambiamenti. All’artefatto possono essere interessati più gruppi sociali, chiamati gruppi sociali pertinenti, che vedono in esso una risposta a problemi. Nella seconda fase si apre un dibattito fra i gruppi sociali pertinenti; ciascuno cerca di imporre la propria visione dell’artefatto e si arroga il diritto di dare una forma definitiva allo stesso. Si cerca di definire quale sia la forma migliore (non solo tecnologicamente ottimale, ma anche socialmente accettata) che l’artefatto debba assumere. Nella terza fase la flessibilità interpretativa si riduce attraverso il raggiungimento di un consenso tra i gruppi pertinenti che partecipano al dibattito o al prevalere di uno di essi. Tale processo è definito come meccanismo di chiusura.

Quindi l’uomo agisce per creare artefatti che possano permettergli di superare le proprie difficoltà di vivere nel mondo naturale e, quindi, di proiettarsi, attraverso le sue realizzazioni, nel secondo mondo, quello artificiale; ma occorre evitare che la progettazione di dispositivi artificiali e la loro realizzazione vengano gestite da gruppi isolati che si arroghino questo diritto. I problemi principali si riferiscono alla selezione dei bisogni che vengono soddisfatti e, conseguentemente, a quali standard vengono creati e se a essi tutti possano relazionarsi. Il problema, che tali prassi possono genere, è quello di escludere categorie di esseri umani.

Noi siamo abituati a rintracciare la disabilità nelle persone, senza pensare che invece la disabilità è nelle cose, nei dispositivi che sono stati progettati per categorie generali di persone senza curarsi di particolari bisogni (Simoneschi G., 2011). Un tema scritto da un non vedente, attraverso particolari tecnologie di riconoscimento vocale che possano supportarlo, e riversato su un documento Word, non è distinguibile in alcun modo da un altro tema scritto, sempre in Word, da una persona “normale. Però se concordiamo sul fatto che siamo tutti esseri manchevoli e che dobbiamo, per sopravvivere, trasferirci in un secondo mondo che costruiamo ben modellato sull’obiettivo di sanare le nostre difficoltà, allora anche le persone che definiamo disabili debbono poter vivere in questo mondo. Non sono disabili o, per lo meno, sono disabili come tutti noi, solamente che gruppi sociali hanno progettato dispositivi adeguati per la gran parte di noi senza preoccuparsi delle esigenze di tutti.

L’uomo è un “disabile” nella sua interazione con il mondo, ma l’uomo non vive in un mondo naturale ma in uno artificiale e, in questo, non esistono disabilità o abilità definibili a prescindere da relazioni con gli oggetti distribuiti nello stesso mondo artificiale. Essendo stati creati questi oggetti dall’uomo, la disabilità o l’abilità esiste nelle caratteristiche di questi dispositivi. Si può parlare di esclusione sociale dovuta a carenze nella costruzione di dispositivi, carenze che derivano dall’aver avuto come riferimento la maggioranza delle persone, piuttosto che tutte le persone. L’inclusione può avvenire modificando o riprogettando questi dispositivi, tenendo conto dei molteplici modi di funzionamento delle persone.

Facendo riferimento a un non vedente e a un non udente si dovrebbe dire che entrambi sono persone che non possono esercitare delle funzioni; la prima non poter leggere un libro e la seconda non poter ascoltare la recita di una poesia. Entrambi non possono sviluppare le funzioni di leggere e ascoltare perché lo standard prevede sistemi di lettura e di ascolto per abilità della maggioranza.

Anch’essi potrebbero esercitare queste abilità, solo se esistessero delle tecniche che permettessero l’esplicitazione di queste loro abilità in quelle funzioni. Siamo tutti disabili e lo saremmo, riguardo alla possibilità di vivere nell’ambiente naturale, se non agissimo per costruire quello artificiale realizzato, però, a misura della maggioranza.

C’è un aspetto di profonda importanza che coinvolge la professionalità del docente. Spesso si ha l’esigenza di avere a disposizioni strumenti che possano aiutare il cosiddetto disabile nel suo lavoro scolastico e anche quotidiano nel suo mondo affettivo e sociale. Si è costretti a usare risorse tecnologiche che impongono itinerari di utilizzo a volte poco flessibili o che non soddisfano le esigenze della situazione che si sta gestendo. Il docente intuisce che potrebbe essere utile agire attraverso il digitale ma non sempre trova soluzioni adeguate. Qualora fosse in grado di costruire applicazioni potrebbe realizzare quanto gli occorre. Forse è questa la via maestra che un docente deve percorrere.