Eugenio montale (Genova 1986, Milano 1981) Ossi di seppia Montale fa degli Ossi di seppia, il titolo della prima raccolta (1925) il simbolo della propria poesia. Una vita morta e reietta dalle onde sulle spiagge. Ciò vuol dire aspirare ad un’oggettività inorganica, che conservi solo il ricordo della sua vitalità esistenziale, definitivamente trascorsa e consumata. Una pumicea aridità, traccia di vite sconosciute e lontane che si traduce in un verso e in un lessico quotidiano, pietroso, secco. Correlativo oggettivo di una aridità esistenziale, specchio di un’umanità naufragata nelle tenaglie del nazifascismo
L’argomento della poesia di montale: l’universalità della condizione umana intesa come disarmonia rispetto ai valori del fascismo “L’argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo … Avendo sentito … una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia.” L’antifascista Montale traspone il suo male di vivere, dovuto alla coscienza di una crisi storica che dilacera il tessuto etico sociale dell’Europa in cui il nazifascismo l’avevano precipitata, su un piano esistenziale, come disgregazione universale, che non vede alcuna via d’uscita se non nella coscienza o nel sentimento. Una disperazione e un pessimismo che non permette altro rimedio che un’affermazione stoica di dignità umana, nello sforzo di sopravvivere a tanto naufragio
Non chiederci la parola Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri e a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo Ossi di seppia
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o sulla veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano al sommo di minuscole biche. Osservar tra i frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Ossi di seppia
Le occasioni Cuore delle “Occasioni” è l’enigma indecifrabile della vita. Al poeta che si sente come un “albero bruciato dallo scirocco” (1926) non resta che la memoria che, sollecitata da un evento o da un’oggetto dipana matasse di ricordi perduti e recuperi un gesto, un momento sicchè dal “morto/viluppo di memorie” balzi fuori”un fantasma che…salva”, e l’uomo scopra “nella rete che ci stringe” una maglia rotta e fugge e scappa (In Limine, in Ossi di seppia). Sono queste quelle rare occasioni che rendono ancora possibile la vita. La quotidiana modestia degli oggetti di questa lirica delle occasioni costituisce il correlativo oggettivo (concetto elaborto in quegli anni da Eliot) che ha il compito di tradurre iconicamente le emozioni, il male di vivere del poeta.
La poesia di Montale: evasione dalla realtà o testimonianza e denuncia del nazifascismo ? Qualcuno vi ha visto uno “scampo aristocratico”, un’ evasione dalla realtà, in quegli anni bui in cui dittature e guerre soffocano la vita (Petronio) Altri (Salinari-Ricci) ne sottolineano il valore di poesia-testimonianza, in quanto denuncia diretta di una esperienza di vita, che in quelle circostanze storiche non poteva non tradursi nel correlativo oggettivo di una umanità infelice e disperata, viste le circostanze storiche; non una fuga, dunque, ma una denucia che pone un abisso critico alla retorica, all’ottimismo al velleitarismo della propaganda fascista. Come sembra testimoniare la “Casa dei doganieri” dove la concezione disperata che ne emerge testimonia la reazione morale di chi vuole porgersi “a ciglio asciutto, senza speranze o consolazioni di fronte alla terribile realtà dell’Italia fascista”.
La casa dei doganieri Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo della scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto. Libeccio sferza da anni le vecchie mura e il suono del tuo riso non è più lieto. la bussola va impazzita alla ventura e il calcolo dei dati più non torna: Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana. Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. be tengo un capo ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità. Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende rara la luce della petroliera! Il varco è qui? (ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende…) Tu non ricordi la cassa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. Da “Le occasioni”, Torino Einaudi, 1939
L’ermetismo La lezione di Ungaretti e Montale si trova alla base dell’opera di un gruppo di poeti e di critici che costituirono fra il ’30 e il ’40 una vera e propria scuola e che vennero chiamati ermetici Anch’essi come i primi due hanno come modello il decadentismo francese e si servono dell’analogia come forma principale di espressione tanto da generare nel verso un etsraneamento del piano del significato rispetto a quello del significante. Tanto che il primo risulta di difficile e comprensione, data la natura criptica del secondo che non consente una facile decifrazione. Anch’essi puntano ad una essenzialità lirica che riproduca la triste condizione esistenziale dell’uomo privo di libertà di fronte al fascismo
Salvatore Quasimodo(Modica 1901, Napoli 1968) Della scuola dei poeti ermetici vanno ricordati A. Gatto, L. Sinisgalli, S. Solmi, M. Luzi, V. Sereni, S. Penna, G. Caproni. Su questi spicca la figurwa di S. Quasimodo, nobel per la letteratura nel 1959. Al centro del primo tempo della poesia di Quasimodo, quello più propriamente ermetico della raccolta Ed è subito sera, ci sono la Sicilia e la sua infanzia che si traducono in un unico sogno.
Vento a Tindari te ignota è la terra ove ogni giorno affondo e segrete sillabe nutro: altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa sul tuo grembo. Aspro è l’esilio, e la ricerca che chiudevo in te d’armonia oggi si muta in ansia precoce di morire; e ogni amore è schermo alla tristezza, tacito passo nel buio dove mi hai posto amaro pane a rompere. Tindari serena torna; soave amico mi desta che mi sporga nel cielo da una rupe e io fingo timore a chi non sa Che vento profondo m’ha cercato Tindari, mite ti so fra larghi colli pensile sull’acque dell’isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei ini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore, e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima.
La poesia della maturità: la voce della Resistenza al nazifascismo Quasimodo raggiunge la piena maturità nell’immediato dopoguerra quando in lui possiamo trovare come dimensione costante l’attenzione rivolta all’umanità colpita dalla guerra e dalla violenza, un’unumanità che paga un prezzo di sangue alla lotta per liberarsi dal terrore a dall’odio e per riconquistare con la libertà perduta da 20 anni la dignità e la speranza
Partigiani impiccati per rappresaglia Alle fronde dei salici E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento. Partigiani impiccati per rappresaglia