QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST

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QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST LO STILE DRAMMATICO DEL FILOSOFO SENECA

QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST Su questa base Seneca chiede che venga giudicato il suo stile: “E’ lo stile drammatico dell’anima umana che è in guerra con se stessa; e se la prosa di questi due sommi [Seneca e Tacito] è barocca, ciò è perché l’anima umana è barocca”. Concetto Marchesi

QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST L’asimmetrico stile senecano si oppone alla classica simmetria ciceroniana. E’ lo stile dell’anima umana in guerra con se stessa.

QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST Ma quale guerra si combatté, all’alba della nostra era, nell’anima senecana? Fu una battaglia per la libertà e si combatté nell’ultima trincea che il mondo classico offrì all’uomo contro la violenza della storia: LA FILOSOFIA.

QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST CHI E’ L’ UOMO LIBERO? IL SAPIENS

QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST Pur con differenze in Grecia e a Roma la libertà coincideva con il servire solo alle leggi. Ora la libertà consiste nel servire alla filosofia.

QUAE PHILOSOPHIA FUIT, FACTA PHILOLOGIA EST Nel momento in cui la figura del princeps riunisce nelle sue mani tutto il potere, sollevandosi sopra la legge, che cosa significa libertà? La libertà non ha che due vie: Suicidarsi con Catone Interiorizzarsi

IL LINGUAGGIO DELL’INTERIORITA’ Il mondo antico, nel suo autunno, scopre una nuova dimensione: quella dell’interiorità. “Scava dentro, dentro è la fonte del bene” (M. Aurelio) Con questa massima sono tutti d’accordo: l’epicureo, il cinico, lo stoico.

IL LINGUAGGIO DELL’INTERIORITA’ Toccò a Seneca bandire a Roma il linguaggio dell’interiorità. Per foggiare il linguaggio dell’interiorità Seneca ricorre a due metafore: Interiorità come possesso Interiorità come rifugio

INTERIORITA’ COME POSSESSO Seneca attinge ad una delle più ricche riserve lessicali del latino: la lingua giuridica. Ita fac, mi Lucili, vindica te tibi Vindicare è termine giuridico: rivendicare legalmente qualcosa, togliendola al proprietario illegittimo. I due pronomi indicano chiaramente che oggetto e termine coincidono.

INTERIORITA’ COME POSSESSO La conseguenza del se sibi vindicare è lo stabile autopossesso di sé Suum esse = Sui iuris esse, espressioni giuridiche che indicano l’essere pienamente in possesso di tutti i diritti su di sé.

INTERIORITA’ COME POSSESSO Nemo se sibi vindicat, alius in alium consumitur… Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est. (De brev. 2,4) Ubicumque sum, ibi meus sum: rebus enim me non trado sed commodo. (Ep. 62,1)

INTERIORITA’ COME POSSESSO Quale esperienza politica è sottesa? Seneca stesso afferma: tre sono i mali che ci fanno paura: la miseria, le malattie, la persecuzione dei potenti, e questo è il più temibile di tutti. Caligola manda a morte Seneca, Claudio lo condanna all’esilio, Nerone lo manda a morte definitivamente.  Senso precario della vita, rapina rerum omnium Resta come unico bene inalienabile il possesso della propria anima.

INTERIORITA’ COME POSSESSO L’uso del riflessivo, sia diretto che indiretto, è forse il più frequente mezzo sintattico senecano con cui si esprime questo continuo ripiegarsi del soggetto su se stesso.

RIFLESSIVO DIRETTO In controtendenza rispetto al latino (es. excrucior di Catullo) che sostituiva il passivo al riflessivo, Seneca preferisce il secondo al primo: se ornare piuttosto che ornari, perché tale diatesi fa sentire maggiormente l’attività del soggetto. Il riflessivo afferma la consapevolezza e responsabilità dell’agente che prende se stesso a oggetto della propria azione.

RIFLESSIVO DIRETTO Anche nell’uso del riflessivo diretto Seneca innova: Deprehendere: cogliere uno nel fare qualcosa, come termine giuridico cogliere in flagrante. Tale senso mal si presta alla diatesi riflessiva, alla quale Seneca arriverà per gradi: Illum habitum in me maxime deprendo Facile est… adfectus suos… deprehendere Deprehendas te oportet, antequam emendes

RIFLESSIVO DIRETTO 2) Excutere: ha significato concreto e visivo, fare uscire scuotendo e spesso equivale al nostro perquisire, frugare. In Seneca la diatesi riflessiva, identificando l’oggetto con la coscienza del soggetto, dà al verbo un’accezione tutta metaforica e spirituale: Excute te: fruga in tutte le pieghe della tua anima.

RIFLESSIVO INDIRETTO In qualche caso la iunctura senecana è a lui precedente: già Cicerone parla di secum esse e secum vivere. Seneca lo ripete più volte, variandolo con secum morari: lo stare con se stesso. Per esprimere questa divina solitudine del saggio Seneca usa un hapax sintattico: adquiescere + dativo della persona (sibi). Cicerone avrebbe usato in + abl: il rapporto locale della sintassi classica si oscura di fronte al valore di fine o vantaggio del dativo. N.B. Il lettore di Seneca è colpito dalla quantità e novità dei dativi riflessivi.

RIFLESSIVO INDIRETTO UN DATIVO INTERESSANTE… Quando il filosofo si rimprovera e si sprona ad affrettare il passo ormai stanco sulla via della perfezione morale, usa una iunctura di vaga risonanza biblica: clamo mihi ipse. Anche il salmista clamat in corde suo; ma grida a Dio da un abisso di peccato e di dolore. In Seneca nessun dio risponde: il grido nasce e muore nell’interiorità di un animo, alle cui sole forze è affidata la responsabilità e l’orgoglio di quello che Seneca chiama transilire mortalitatem suam.

RIFLESSIVO INDIRETTO Questo uso del dativo culmina nella coesistenza di due riflessivi: Es. Nullum (bonum) est, nisi quod animus ex se sibi invenit. EX SE SIBI: i due riflessivi, il punto di partenza e quello di arrivo, delimitano l’orizzonte dell’interiorità senecana. Si tratta di uno spazio vasto, ma chiuso.

INTERIORITA’ COME RIFUGIO Legato ad un altro uso del riflessivo indiretto è la metafora dell’interiorità come rifugio. Si tratta del riflessivo introdotto da verbi dinamici, ad indicare il termine di movimento. Es. In se colligi, in se converti, in se reverti, in se recondi, ad se recurrere. Ma più importante di tutti questi esempi è l’espressione in se recedere, un verbo che significa indietreggiare e ritirarsi. Recede in te ipse, quantum potes (Ep. 7,8)

INTERIORITA’ COME RIFUGIO L’animo si arrocca in se stesso: fuori è il regno della fortuna, il vortice delle cose, turbo rerum. L’interiorità è possesso stabile.

IL LINGUAGGIO DELL’INTERIORITA’ Il linguaggio dell’interiorità è forse il maggior contributo di Seneca al linguaggio della filosofia occidentale e confluirà, soprattutto per il tramite di Agostino, nell’esperienza cristiana: Dice Agostino: Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.

IL LINGUAGGIO DELL’INTERIORITA’ Ma poi Agostino continua come Seneca non avrebbe mai continuato: Et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende et te ipsum. Il Dio di Agostino è dentro ed è sopra. L’interiorità agostiniana non ha limiti: si apre in basso sull’inconscio (nec ego ipse capio totum, quod sum), in alto verso Dio.

IL LINGUAGGIO DELL’INTERIORITA’ Anche Seneca trova Dio nel suo intimo : Prope est a te deus, tecum est, intus est. Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet. N.B. Il Latino classico avrebbe detto in nobis, ma la preposizione in è troppo usurata e polisemica (stato in luogo, moto a luogo, volume: dentro, superficie: sopra). Inoltre intra dà volume all’interiorità e polarizza l’opposizione dentro- fuori (intra-extra).

IL LINGUAGGIO DELL’INTERIORITA’ E come trova nella propria interiorità Dio così vi trova anche la libertà nella sua interiorità e tale libertà consiste nel suum fieri. Così si chiude il cerchio di questa interiorità, che ha tutta l’apparenza di una monade dove il mondo rischia di ridursi all’io.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE Eppure Seneca ne evade per la tangente non del divino, ma dell’umano. Se il suo stile rispecchia nel linguaggio dell’interiorità un movimento centripeto, rispecchia un movimento centrifugo nel linguaggio della predicazione: l’insegnamento agli uomini.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE Lo stile di Seneca riflette un doppio e opposto movimento: dall’esterno all’interno, verso la solitaria libertà dell’io, il linguaggio dell’interiorità, e dall’interno verso l’esterno, verso la liberazione dell’umanità, il linguaggio della predicazione. E’ per l’incisività di tale predicazione che Seneca studia il proprio stile Malitia liberatus et liberat.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE “Seneca ha fatto trionfare nella letteratura latina la rivoluzione iniziata da mezzo secolo. Con il suo stile e la sua sintassi egli ha contrapposto alla convenzione ciceroniana che è tutta simmetria lo stile umano che è asimmetrico: che non vuole essere costretto alla preordinata uniformità di periodi ben armoniosi e vuole invece che ogni idea abbia il suo risalto e il suo compimento nella frase che basta ad esprimerla”. C. Marchesi

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE Cellula stilistica di Seneca è la sententia, per Cesare e Cicerone era il periodo. Dopo Seneca sarà la parola. E’ questa la parabola della prosa latina, finché i Cristiani, portatori di una spiritualità nuova, ne restaureranno l’architettura.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE QUANDO CAMBIA UNO STILE, CAMBIA UN SISTEMA DI VALORI

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE “La perfezione classica non implica, di certo, una soppressione dell’individuo, […] ma implica la sottomissione dell’individuo, la sua subordinazione della parola nella frase, della frase nella pagina, della pagine nell’opera. Consiste nel fare evidente una gerarchia”. A. Gide

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE Cesare e Cicerone sono tra loro agli antipodi, ma la loro prosa, pur con stili differenti, presenta una caratteristica comune: è retta da pochi grandi centri sintattici e/o unificata da una ininterrotta trama di nessi logici. In questa struttura architettonica sembra tradursi il senso di una realtà ben organizzata, perché tra l’individuo e il cosmo vi è la mediazione della società. Cesare e Cicerone hanno ideologie opposte, ma una fede comune: un comune impegno per l’edificazione di un bene che non può essere di uno se non è di tutti.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE L’avvento dell’impero segna una frattura in quest’ordine: la realtà politica, la società passa in secondo piano ed individuo e cosmo si trovano di fronte. Il problema non è più l’inserimento del singolo nella società e nello stato, ma il suo significato nel cosmo.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE Scriveva Cicerone nel Somnium Scipionis che non c’è nulla di più gradito a Dio quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur. Il Dio di Seneca non ha spettacolo più bello che vir fortis cum fortuna mala compositus. L’ideale quiritario del vir fortis ac strenuus, passa dal civis al sapiens.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE Il contraccolpo di questo cambiamento è una prosa esasperata ed irrelata che ha tanti centri e tante pause quante sono le frasi. La trama logica si smaglia in un fitto balenio di sententiae.

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE “Le singole parti, ciascuna per sé, sono lavorate con la massima cura, perché in esse non resti il minimo spazio vuoto, ogni pensiero è concentrato e coniato nel modo più espressivo possibile, sicché il contenuto minaccia di far saltare la forma, e questa tensione si scarica quando i membri esteriormente collegati fra loro solo per mezzo della prosa ritmica, sono compendiati in una punta aguzza e sentenziosa”. G. Misch

IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE I rapporti sintattici si contraggono e si semplificano; le parole vuote tendono a scomparire; ogni sintagma è teso al limite della sua forza espressiva. La prosa senecana si allontana dalla complessità ipotattica della prosa classica, ricca di costrutti congiunzionali. PLUS SIGNIFICAS QUAM LOQUERIS