La terminologia di bene culturale è recente ed è ancora soggetta a dinamismi e a spinte innovatrici. Tradizionalmente sostituisce le vecchie categorie.

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La terminologia di bene culturale è recente ed è ancora soggetta a dinamismi e a spinte innovatrici. Tradizionalmente sostituisce le vecchie categorie delle cose artistiche, introducendo una visione dei beni di riferimento che non è più legata ad una valenza estetica delle cose.

Riassumiamo brevemente l’evoluzione che ha avuto il concetto di bene culturale dalle prime leggi (n. 364/1909 e n. 1089/1939) fino al Codice D.Lgs. N. 42/2004.

La nozione di bene culturale è relativamente recente, infatti fu coniato la prima volta nel testo della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, che è stato firmato all’Aja il 14 maggio 1954.

Tale terminologia sostituisce la vecchia dicitura delle cose di interesse storico-artistico o archeologico, che erano disciplinate dalla legge n. 1089/1939, assorbendo il cosiddetto patrimonio archivistico e documentale

(tutelato dal D. P. R. 30 settembre 1963 n (tutelato dal D.P.R. 30 settembre 1963 n. 1409) e i beni librari (nell’individuazione che ne fa il D.P.R. 3 dicembre 1975 n. 805). Nella Convenzione dell’Aja all’art. 1 è contenuta la definizione di bene culturale.

Sono considerati beni culturali – è scritto – i beni mobili e immobili di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti architettonici, importanti per l’ arte e la storia, religiosi o laici; i siti archeologici;

I complessi che nel loro insieme presentano un interesse storico-artistico; le opere d’arte; i manoscritti, i libri ed altri oggetti di interesse storico artistico o archeologico; nonché le collezioni scientifiche e le collezioni di libri, gli archivi, ecc.

Nell’elenco si riconosce nella cultura e nell’arte l’originaria e irrepetibile creazione intellettuale o artistica dello spirito umano, come precisano i giuristi Alibrandi e Ferri

I primi articoli della legge n I primi articoli della legge n. 1089/1939 individuano l’oggetto della tutela con un’elencazione di categorie di cose immobili e mobili: es. le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà, le cose di interesse numismatico;

I manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e pregio, sulla base della presenza di un interesse artistico storico archeologico e etnografico.

La caratteristica delle categorie tutelate dalla legge 1089 era la materialità. Con l’evoluzione del concetto il bene culturale non è più solo una cosa, ma diviene anche la rappresentazione di un valore immateriale, che esprime il contesto storico e artistico in cui si pone.

La nozione di bene culturale è necessariamente aperta poiché risente dell’evoluzione di ciò che è considerato cultura da parte della società. Così in epoca fascista si è affermata la concezione estetizzante e romantica dell’arte.

Con il passare del tempo si è fatta strada un’altra nozione del bene culturale che fa leva sul ruolo di testimonianza del tempo e dell’ambiente in cui è sorta o si è formata. Il concetto di bene culturale fu molto vivace in ambito internazionale.

In diverse occasioni si discute di beni culturali in ambito internazionale , ad esempio nella Convenzione culturale europea, conclusa a Parigi il 19 dicembre 1954, i cui obiettivi erano di salvaguardare e incoraggiare lo sviluppo del patrimonio culturale comune d’Europa.

Nella Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione , esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali, conclusa a Parigi il 14 novembre 1970.

In tale Convenzione vengono considerati beni culturali quelli che, a titolo religioso o profano, sono designati da ogni Stato partecipante come importanti per l’archeologia, la preistoria, la storia, la letteratura, l’arte e la scienza.

La Commissione concluse i lavori nel 1966 La Commissione concluse i lavori nel 1966. Le proposte della Commissione sono suddivise in 84 dichiarazioni: le prime (da 1 a 21) riguardano i principi generali delle materie, le altre sono suddivise in quattro grandi categorie:

- beni archeologici (22-31) - beni artistici e storici (32-38) - beni ambientali che comprendono anche i centri storici (39-49) - beni archivistici (50-53) - beni librari (54-57).

Nel 1967 la Commissione Franceschini introdusse in Italia la definizione di bene culturale, inteso come bene che costituisce testimonianza di civiltà. Tale concetto è stato adottato anche dalla Commissione Papaldo.

Entrò anche nell’uso comune ed ufficiale nella sua dizione nel D. L. n Entrò anche nell’uso comune ed ufficiale nella sua dizione nel D.L. n. 657 del 14 dicembre 1974 convertito nella legge 29 gennaio 1975 n. 5, che è la norma istitutiva del Ministero per i beni culturali e ambientali.

La Commissione Franceschini, chiamata così dal suo presidente, era stata istituita nel 1964 con legge n. 310 del 26 aprile, su proposta del ministro della pubblica istruzione; era una commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale.

Tra i molti meriti è quello di aver adottato la locuzione di bene culturale che significa testimonianza materiale avente valore di civiltà. Parte delle proposte della Commissione sono state raccolte in tre volumi e pubblicati nel 1967 con il titolo “Per la salvezza dei beni culturali in Italia”.

Nel 1968 fu affidato alle due Commissioni Papaldo il compito di tramutare in norme ordinarie i suggerimenti della Commissione Franceschini. Lo schema di legge prodotto dalla Commissione non fu mai trasformato in legge.

Il primo problema che si pone il funzionario impegnato nell’istruttoria di qualsiasi dichiarazione di importante interesse, e che spesso è il punto principale di opposizione nei contenziosi, è cosa rappresenti l’interesse culturale di un bene.

Fissare in un asserto tale concetto diventa problematico in quanto è suscettibile di letture discrezionali, risultato di peculiari sensibilità legate a precisi momenti storici.

Con D.Lgs. N. 112/1998 all’art. 148 il legislatore ha tentato di specificare con una formula tale concetto, facendo ricadere nella categoria dei beni culturali tutto quanto compone il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario.

La determinazione del valore culturale resta però un fatto dinamico, che subisce nel tempo modifiche e trasformazioni che sono connesse allo sviluppo del pensiero e all’evoluzione delle scienze storiche, artistiche e sociali.

Il bene culturale dunque non è un concetto immutabile nel tempo, se lo fosse ciò comporterebbe la negazione della storia della cultura, mentre noi in realtà assistiamo obbligatoriamente ad un progresso del concetto di tutela.

Quindi anche ad una conseguente evoluzione nei criteri e nelle motivazioni della dichiarazione di interesse. Nell’ultimo cinquantennio il percorso evolutivo in questo settore ha portato alla nozione estetico-idealistica che caratterizzava il concetto di tutela.

E’ sparita la posizione dei vecchi storici dell’arte impegnati a enucleare i grandi monumenti, isolandoli dal loro contesto. Piero Gazzola, soprintendente a Verona dal 1940 al 1975, ha evidenziato non solo l’importanza dei singoli monumenti.

Ha anche evidenziato il valore del tessuto connettivo dei centri storici costituiti dall’edilizia minore, che nel suo insieme rende unica e irrepetibile una città. Gazzola ha proposto un’attività di tutela tesa a salvaguardare anche piazze, giardini, parchi, cortili ecc.

E’ accertato ormai in giurisprudenza che la valutazione dell’interesse storico-artistico non deve ridursi ad un mero apprezzamento di tipo estetico, costituendo questo semmai una componente di un più complesso giudizio storico-scientifico.

Questo ha permesso all’Amministrazione di estendere la tutela ad immobili ritenuti testimonianze di edilizia minore, oppure ad altri la cui valenza viene alla luce soltanto con la loro storicizzazione.

Un esempio sono le villette liberty di Borgo Trento che fino ad un ventennio fa non erano ritenute meritevoli di conservazione, ora ovviamente lo stesso Comune di Verona le tutela.

Un’altra categoria di beni immobili che, pur non avendo caratteristiche di pregio estetico per ovvie ragioni funzionali, costituisce una fondamentale testimonianza di un processo storico essenziale è quella afferente l’archeologia industriale.

Essa cominciò a riscuotere interesse in Italia nel 1976, quando comparve la rivista “Archeologia industriale” specialistica nel settore.

Ci sono voluti però quasi quindici anni perché l’edilizia della produzione divenisse oggetto di tutela in seguito a precisi indirizzi operativi del Mibac (circolare n. 3716 del 9 settembre 1992) e del Consiglio nazionale per i beni culturali e ambientali.

L’evoluzione del fatto culturale non avviene sempre in modo lineare, cioè senza contraddizioni e discussioni, e questo emerge anche dalla disamina delle sentenze giurisprudenziali, nelle quali sono evidenti nel tempo delle incongruità valutative.

Esempi nell’ambito operativo della Soprintendenza ci sono stati proprio in riferimento alla tutela delle testimonianze industriali. Ad esempio la sentenza n. 535 del 3 aprile 1996 del Tar del Veneto annullò il vincolo imposto dall’Amministrazione sul Calzaturificio Rossi, testimonianza del processo di industrializzazione di Verona.

Esaminando l’iter procedimentale tenuto dalla Soprintendenza (che passò da una iniziale autorizzazione alla demolizione ad una proposta di vincolo) si riscontra una crescita evolutiva dell’Ufficio.

Esso dapprima sottostimò il complesso industriale, salvo ravvedersi dieci anni dopo in sintonia con il contesto culturale circostante, che aveva maturato sia negli ambiti specialistici, sia a livello di opinione pubblica una sensibilità più attenta e raffinata.

Di questo era invece immune il Tar del Veneto, che entrò a valutare nel merito l’interesse dell’immobile ritenendolo di pregio artistico pressoché nullo.

Cinque anni dopo lo stesso tribunale amministrativo regionale precisò viceversa che le valutazioni dell’interesse culturale dell’Amministrazione sono espressione di discrezionalità tecnica e pertanto sindacabile solo sotto il profilo della congruità e della logicità.