Ecco le foto segrete di Hiroshima Chi le scattò resta senza nome

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Transcript della presentazione:

Ecco le foto segrete di Hiroshima Chi le scattò resta senza nome Hiroshima, le immagini dell'orrore la storia ringrazia il soldato Capp

Per oltre 60 anni sono state custodite nell'Archivio Hoover WASHINGTON - In quel film dell'orrore senza fine che porta il nome di Hiroshima, altri spettri escono dalla grotta dove furono rinchiusi 63 anni or sono, e vengono a chiederci di essere ricordati. Non i corpi, caduti nell'istante del sole artificiale, ma le loro immagini, dieci scatti inediti impressi su un rullino fotografico, probabilmente da qualcuno di loro, prima di raggiungerli nel mucchio di cadaveri. Le foto che l'America non voleva vedere furono scattate da uno dei pochi che non morirono all'istante e ritrovate per caso da un militare. Per oltre 60 anni sono state custodite nell'Archivio Hoover Articolo di VITTORIO ZUCCONI

Sono dieci immagini mai viste finora eppure viste 250 mila volte, quanti furono, migliaio più migliaio meno perché nessuno conoscerà mai il totale, le vittime di "Little Boy", della prima bomba a fissione nucleare esplosa alle 8 e 15 del mattino del 6 agosto 1945. Fotografie che un soldato americano, Samuel Capp, trovò per caso frugando tra i morti e ispezionando una caverna dopo l'occupazione, e che tenne per sé, dopo averle sviluppate e viste, per oltre 50 anni, prima di rassegnarsi a donarle al fondo intitolato al presidente Herbert Hoover presso l'Università di Stanford, con l'impegno di non renderle pubbliche fino al 2008.

Tutte le immagini dei massacri, dei genocidi, delle fosse comuni sono oscenamente simili, perché i caduti, nelle guerre, giuste o sbagliate che siano, si somigliano sempre tutti. Guardare queste dieci foto, ritrovate e diffuse da un ricercatore della University di California a Merced, il professor Sean Malloy, per un libro sulla morte atomica, significa rivedere istantaneamente le cataste di cadaveri a Mauthausen, le fosse comuni in Ucraina, gli ebrei della rivolta di Varsavia, i bambini di Halabja, il villaggio gassato da Saddam Hussein, i soldati iracheni che vidi sollevati dalle ruspe americane e inglesi lungo la "autostrada della morte" fra Kuweit City e Basra nel febbraio del 1991 e poi ricoperti dalla sabbia, senza guardare troppo per il sottile chi fosse davvero morto o morente.

Dell’ orrore della guerra LE IMMAGINI Dell’ orrore della guerra

Quelle figure ritratte nelle nuove istantanee non sono più giapponesi o russi, asiatici o caucasici, bianchi, neri o gialli, nel gonfiore dei gas della putrefazione che sfigura volti e membra dopo poche ore, neppure maschi o femmine, vecchi o giovani. Soltanto i bambini si riconoscono.

Sono cose, oggetti, statistiche, bilanci, cifre per gli storici che hanno catalogato i 50 milioni di morti - come l'intera popolazione italiana di oggi - divorati dal più grande massacro indiscriminato che mai l'umanità avesse inflitto a sé stessa, i 190 mila civili olandesi, i 170 mila civili italiani, i 400 mila francesi, i 290 mila militari americani, i sette milioni di russi, i corpi calcinati di Dresda o di Coventry.

E il milione e duecentomila civili giapponesi arsi vivi o vaporizzati nei bombardamenti incendiari di Tokyo, ancor più micidiali delle due armi atomiche, a Hiroshima, a Nagasaki.

Di fronte a queste fotografie si può invocare il diritto della propria causa, si possono e si devono ricordare le responsabilità, ma nessun combattente può mai pretendere l'assoluzione preventiva dalle atrocità implicite in tutte le guerre, come sta dimostrando l'Iraq. Se il generale William "Tecumseh" Sherman, il condottiero nordista che mise spietatamente a ferro e fuoco il Sud e la città di Atlanta nella propria marcia vittoriosa, avesse potuto vedere queste nuove foto dall'abisso, avrebbe ripetuto il proprio amaro commento,: "War is hell", la guerra è inferno, e non c'è modo per addolcirla.

Non c'è meccanismo ideologico o di propaganda che possa ingentilire e infiocchettare queste fascine di corpi che furono esseri umani. Ogni guerra, ogni genocidio, ogni olocausto ha sempre almeno un superstite, un testimone, un documento che sopravvive e che torna a raccontarceli, come queste foto.

Da Hiroshima, dove oggi si può passeggiare nella quiete soffocante del "Parco della Pace", fra il museo dei reperti e delle memorie, il ponte a "T" sul fiume che servì da bersaglio al bombardiere della "Enola Gay" e la scultura astratta della cupole ischeletrita della Camera di Commercio, la processione di ricordi continuerà.

Chissà quanti dei reperti ancora viventi che portano sul proprio corpo i "cheloidi", le cicatrici mostruose delle ustioni nucleari, come la bambina sessantenne che mi accompagnò per le strade che aveva percorso quella mattina d'agosto, salvandosi soltanto perché aveva perduto il tram, conservano segreti che ancora non vogliono raccontare e forse non racconteranno mai.

Perché gli "hibakusha", i colpiti dalle ustioni nucleari, come sono clinicamente chiamati, sono prima giapponesi che vittime e sentono dunque la vergogna, il pudore di essere vittime.

Il coraggio di vergognarsi per le colpe altrui, il pudore difficile del male subìto che questa fotografie squarciano con la loro innocente oscenità, sono ciò che spinse un fotografo anonimo, quasi certamente un cittadino qualsiasi e un moribondo lui stesso, a scattare queste istantanee per noi.

Che portò un reporter giapponese professionista, Yosuke Yamahata, a fiondarsi nel braciere ancora caldo di Hiroshima il 10 agosto '45, appena quattro giorni dopo l'esplosione, per raccogliere le prime immagini, prima che le ancora efficientissime autorità imperiali e poi i bulldozer americani rimuovessero i 130 mila morti istantaneamente o dopo qualche ora di sofferenza squassati dai conati, dal sangue che fuoriusciva dalle loro orecchie.

Pur sapendo, il fotografo, che avrebbe pagato con un cancro da radiazioni che infatti lo uccise, la testimonianza.

Sospetto, per quel poco che so del Giappone, che se quelle fascine di corpi fissate sulle nuove foto emerse da Hiroshima potessero miracolosamente alzarsi e parlare, ci chiederebbero scusa per l'imbarazzo che suscitano in noi che li guardiamo. "Suimasèn, suimasèn", scusate, perdonate, come le madri che si lanciavano singhiozzando con i figli stretti in braccio dallo scoglio dell'isola di Saipan, per sfuggire all'umiliazione della cattura e farsi perdonale dall'imperatore.

Come gli ufficiali rimasti senza munizioni nella caverne di Okinawa e costretti dal "bushido", dal codice d'onore dei samurai, al suicidio.

In queste ore, dopo la riesumazione della nuova processione di spettri 63 anni dopo, sulla rete, sui blog americani che le hanno diffuse ribolle il fiume della la rissa fra chi rivendica l'inevitabilità strategica delle due bombe atomiche sganciate per evitare un'invasione di 500 mila possibili caduti americani e chi grida alla odiosa vendetta contro una nazione ormai disfatta, ma sempre odiata e aliena, come mai furono odiati o alieni gli altri nemici del Patto Tripartito, gli italiani di Mussolini e i tedeschi di Hitler.

La solita, stucchevole rimasticazione di processi revisionisti, di fronte a morti che chiedono soltanto di essere ricordati e scusati per essere morti. E noi li perdoniamo, se loro perdonano noi. (7 maggio 2008)

Composizione in power point Enzo Crenna Tratto da La Repubblica http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/foto-segrete/foto-segrete/foto-segrete.html Composizione in power point Enzo Crenna