Chi è il mio prossimo? (Luca 10, 25-37)

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Transcript della presentazione:

Chi è il mio prossimo? (Luca 10, 25-37) 7. Cenacolo Alpha, 16.11.2010 Obiettivo: il coraggio della diversità Frase: “Per aspera ad astra” (Seneca) Immagine: muro crollato

Messaggio generale La parabola del “buon samaritano” rappresenta una storia di emergenza. Come comportarsi di fronte alle urgenze? Il racconto parte dalla domanda: “Chi è il mio prossimo?” Nel corso della storia anziché sottolineare il bisognoso (in questo caso il viaggiatore che viene ferito), si è messo l’accento su colui che lo ha aiutato (in questo caso il samaritano). Gesù trae spunto dalla società ebraica di Palestina. Ci si attenderebbe però che il prossimo sia riconosciuto in tre persone vicine: l’individuo della porta accanto, uno che vive nella stessa via, un compagno di lavoro. Egli invece ci porta fuori dal nostro ambiente. Inoltre ci mette dinanzi tre persone che all’improvviso sono chiamate a mettere in pratica l’amore.

Gesù sconcerta i suoi ascoltatori perché inserisce: Gesù sconcerta i suoi ascoltatori perché inserisce: * due figure religiose (un sacerdote e un levita); ** un samaritano! Ed è proprio il samaritano ad avvicinarsi e curare la persona ferita!!! Il racconto di Gesù sembra del tutto improbabile: come se oggi un militare americano percorresse da solo la strada di un quartiere di Bagdad a maggioranza di militanti di Al Qaeda. Il sacerdote ed il levita si sentono obbligati ad andare avanti per evitare che toccando il ferito diventino impuri. Rimane compito del disprezzato samaritano fermarsi e curare uno che altrimenti morirebbe. Egli “ne ha compassione” e si adopera con tutti i suoi mezzi per curarlo. E’ davvero generoso. Insieme al samaritano anche l’albergatore fa la sua bella figura. “Nell’amor del prossimo il povero è ricco; senza l’amore del prossimo il ricco è povero” (S. Agostino)

nel più misero trova /che sperar, che temer” Gesù conclude la parabola facendo ora lui una domanda a chi gli aveva dato l’occasione per narrare la storia: “Quale di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che aveva incontrato i briganti?”. Non può che rispondere: “Quello che ebbe compassione di lui”. Da oggi in poi l’espressione “il buon samaritano” indica colui che è pronto a soccorrere. Inoltre: il prossimo è chiunque “ha compassione” di coloro che stanno vivendo terribili tribolazioni; è colui che sa oltrepassare i confini del suo gruppo etnico o religioso per prendersi cura dei sofferenti di qualunque colore che incontra sulla via della propria vita. “Tutti a tutti / siam necessari: e il più felice spesso nel più misero trova /che sperar, che temer” (Metastasio, Adriano, III, 4)

L’evangelista Luca usa spesso dare due risposte alla stessa domanda, in due brani diversi. La domanda: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?) si trova qui (10,25) e nell’incontro col ricco al cap. 18,18. La prima volta Gesù ammonisce il fariseo: “Và e anche tu fa’ lo stesso”. Nel secondo caso Gesù invita l’uomo ricco a dare tutto ciò che possiede ai poveri e poi lo esorta: “Vieni e seguimi”. Queste le due risposte alla stessa domanda: 1) prendersi cura dell’essere umano in difficoltà; 2) spogliarsi dei propri beni e spendere la vita in compagnia di Gesù. In realtà: coloro che vivono in familiarità con Gesù avranno la forza di imitare la compassione del buon samaritano; chi serve con generosità il suo prossimo lo farà perché la preghiera gli ha svelato il volto stesso di Gesù nei sofferenti e nei deboli.

San Luca spiega in questo modo il collegamento stretto tra l’amore per Dio e l’amore per il prossimo: l’amore per Dio con tutto il cuore alimenta la forza di dedicarci con sollecitudine ai nostri fratelli e il segno di quest’amore di Dio in noi sarà la pratica costante. Rimane chiaro che al centro di quest’amore ci sono il sacrificio e il rischio personale: al Samaritano la premura gli costò (olio, tempo, risorse …). “Se l’animo nostro non si è spogliato d’ogni amor proprio e piacere di sé e del mondo, non può mai giungere a questo vero e perfetto amore e legame di carità. Sono contrari l’uno all’altro. E tanto è contrario, che l’amor proprio ti separa da Dio e dal prossimo e quello ti unisce; questo ti dà morte, e quello vita; questo tenebre e quello lume; questo guerra e quello pace; questo ti stringe il cuore al punto da renderlo piccolo, mentre la divina carità lo allarga, accogliendo in sé amici e nemici e ogni altra creatura”. ( S. Caterina da Siena, Pensieri e sentenze, I)

Un esempio: Padre Damiano de Veuster (1840-1889) Giuseppe, penultimo di otto figli, a 19 anni entra nella Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria; si chiamerà Damiano. Ottiene di partire al posto del fratello ammalato per andare in missione. Destinazione le isole Hawaii. Vi giunge dopo 138 giorni di navigazione. Completa gli studi e diventa sacerdote lavorando i primi anni nell’isola principale di Hawaii. Nel 1873 il vescovo chiede preti per l’isola lazzaretto di Molokai, dove vengono mandati tutti gli ammalati di lebbra. Si offrono in 4 per turni di 34 settimane. Padre Damiano va per primo e vi resterà per tutta la vita. Nei primi 8 mesi assiste a 183 decessi. Scrive: “Tanti ne seppelliamo, altrettanti ne manda il governo”. Per difendersi dall’insopportabile odore di carne in disfacimento che a volte lo fa svenire in chiesa si mette a fumare la pipa. A Molokai è prete, medico e padre: cura le anime, lava le piaghe … con gli ammalati dà vita ad orfanatrofi. Padre Damiano capisce subito che i malati non lo avrebbero accettato se egli avesse cominciato a preservarsi e ad usare precauzioni, a evitare i contatti. Non si preoccupava di poter essere contagiato, diceva: “di aver affidato la questione a Nostro Signore, alla Vergine e a S. Giuseppe”. Dopo tanti contrasti il governo locale gli offrì una paga di 10 mila

dollari l’anno. Lui disse che “lì non ci sarebbe stato cinque minuti con una paga di 100 mila dollari; ma ci stava per amor di Dio”. Nel 1885, al rientro da una giornata di lavoro come tante altre fa la scoperta: immerge i piedi in una bacinella d’acqua calda; vede i piedi arrossarsi ma non avverte nulla. Stupito tocca l’acqua con la mano: era bollente ma non se n’era accorto. Aveva perso la sensibilità agli arti inferiori. Anche lui era rimasto contagiato dalla lebbra. Allora scrisse ai superiori: “Sono diventato lebbroso. Penso che non tarderò ad essere sfigurato. Resto calmo e rassegnato, e anche più felice in questo mio mondo. Sia fatta la volontà di Dio”. Fino all’ultimo si rende disponibile facendo da cavia per gli studi sulla lebbra. In un quaderno spirituale che aveva preso a scrivere si leggono questi consigli che dava a se stesso: “Prega di ottenere lo spirito di umiltà, in modo da desiderare il disprezzo. Se vieni schernito, devi gioire. Non lasciamoci incantare dalle lodi degli uomini, non siamo soddisfatti di noi stessi, siamo grati a chi ci causa dolore o ci tratta con disprezzo”. Morì a 49 anni, dopo averne passati 16 in missione tra i lebbrosi. Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato a Bruxelles nel 1995.