Il nano e il deforme come oggetto del ridicolo

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Transcript della presentazione:

Il nano e il deforme come oggetto del ridicolo Nel ‘500 le corti iniziano ad apprezzare anche i temi grotteschi e comici, che fino ad allora erano disprezzati.

Agnolo Bronzino, Il nano Morgante Agnolo Bronzino - Ritratto del Nano Morgante, 1552, Galleria Palatina, Firenze. Il Doppio ritratto del nano Morgante, ritratto tutto nudo nella doppia versione, di fronte come un Bacco con corona di uva e pampini e, di dietro, come un grasso cacciatore, ha lo scopo di mettere in ridicolo il personaggio con significati allegorici.

Il “nano morgante” del Giambologna Il nano morgante del Giambologna è posto a cavallo di un mostro marino che assomiglia ad una chiocciola gigante. Era parte di una piccola fontana sul giardino pensile degli Uffizi, sulla loggia dei Lanzi, e quindi aveva cannelle e condotti per l'acqua. Morgante pesca con la destra ed ha nella sinistra un delfino che sputa acqua. Nel raffigurare Morgante lo scultore "si astiene sia dall'umorismo che dai toni compassionevoli, preferendo una resa fedele della realtà" che già bastava. Giambologna - Il nano Morgante su un mostro marino (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, 1582).

Il “nano Morgante” del Bacchino La fontana venne scolpita nel 1560 dallo scultore Valerio Cioli e rappresenta il nano Morgante (ironicamente soprannominato come il gigante del poema omonimo di Luigi Pulci), nano di corte di Cosimo I de’ Medici, in tutta la sua corposa nudità a cavalcioni di una tartaruga, nelle vesti di un Bacco ebbro (da cui il nome della fontana). Dalla bocca della tartaruga esce uno spruzzo d'acqua che cola nella vasca marmorea sottostante. L'opera è esemplare dello stile grottesco tanto in voga nei giardini manieristici del periodo tra Cinque e Seicento: raffigurando soggetti deformi o mostruosi con grande raffinatezza si reagiva all'idilliaco idealismo di stampo rinascimentale, riscoprendo il senso del fantastico, la caricatura e la satira. Partendo dalle deformazioni espressive dello stesso Michelangelo questo stile era stato stimolato a Firenze dal Giambologna e reso ancora più marcatamente grottesco dal Buontalenti e da tutta la generazione successiva di scultori. La statua è oggi sostituita da una copia. La Fontana del Bacchino, o fontanella del Nano Morgante, si trova nel Giardino di Boboli a Firenze, nella zona a nord-ovest di Palazzo Pitti sulla parete dove passa il Corridoio Vasariano a poca distanza dall'uscita del giardino su piazza Pitti. La scultura è in marmo bianco ed è alta 116 cm.

Lo “Storpio” del Ribera Il critico Maurizio Cucchi riguardo allo “Storpio” del Ribera afferma:”In quelle bocche aperte non ci sono dentature che sappiano far luce; quei sorrisi sono l' esempio più atroce, più ancora della deformità del nano, della miseria umana. In Ribera il brutto si manifesta senza alcun falso pudore. Grandezza dell' artista il saperlo dipingere, anche perché abbiamo a che fare con un brutto che non sottende un animo elevato o una mente sublime, ma è un brutto piatto, o quasi abissale come quelle cavità, come quelle bocche sdentate. Il brutto, insomma, di poveri esseri, che come il bevitore trovano conforto solo scivolando nella demenza alcolica, con nient' altro che una bottiglia da agognare e accarezzare. Anche lo storpio sorride, poveraccio. E' uno scugnizzo napoletano e il Ribera non vuole certo ridere o far ridere di lui, bensì vuole lodarne la gaiezza nella sventura, dichiarando la propria solidarietà. Santi o disgraziati che siano, i personaggi di Ribera sono del tutto immersi nella loro dimensione quotidiana. Quella ad esempio, di un' altra famosa tela, Il gusto, dove vediamo un bel tipo a tavola, con un' espressione a mezza via tra la smorfia e il sorriso, che regge un bicchiere di vino rosso. Le sue mani sono tozze e grassocce, sporche, come la bella camicia lacera che ha addosso. Ma restando nella bassa atmosfera quotidiana, anche gli oggetti risaltano per l' esattezza fiamminga e per la normale verità del loro porsi. Tutto, insomma, è credibile perché vivo, perché plausibilissimo, come l' espressione di San Filippo mentre si guarda le mani e il legno del supplizio, ma anche quella del barbuto dal rozzo volto che lo sta osservando sulla destra, e di tutte le altre figure di contorno. Jusepe de Ribera dipinse Lo storpio (oggi conservato al Museo del Louvre, Parigi) nel 1652.

Velazquez “Ritratto del buffone” Juan Calabazas I ritratti di buffoni deformi e i soggetti plebei eseguiti da Velazquez sono sempre carichi di dignità e non c’è comicità. Il cognome Calabacillas deriva da calabazas, ovvero zucche: è probabilmente un nomignolo allusivo alla condizione disagiata del buffone. Proprio per questo, il pittore ha raffigurato due zucche ai suoi piedi. La fronte ampia del buffone, lo sguardo strabico, la posa per terra sbilenca (dovuta a qualche malfermità), ed il sorriso ebete quasi privo di ragione, ne fanno uno dei più affascinanti ritratti di Velazquez, ma anche una delle sue più inquietanti letture della realtà, accentuate anche dalla preziosa e raffinatissima tecnica e l'illuminazione usate per la realizzazione. Juan Calabazas (altrimenti noto come Juan Calabazas detto Calabacillas) è un dipinto ad olio su tela di cm 106 x 83 realizzato tra il 1638 ed il 1639 dal pittore Diego Velàzquez. È conservato al Museo del Prado di Madrid

Velazquez, “Ritratto del buffone” Sebastian de Morra. Sebastian de Morra era un nano buffone di corte, storpio dalla nascita. Il volto di de Morra ha un’espressione triste, severa e profonda, da uomo adulto, discordante dalla piccolezza delle gambe, che Velazquez ha dipinto volte in avanti, di scorcio, con le suole delle scarpe in primo piano, che accentuano il carattere del personaggio, come burattino disarticolato, ma attenua la sensazione penosa dello storpio in piedi. Don Sebastian osserva lo spettatore con uno sguardo intenso nella cornice nera della frangetta ben pettinata, del folto pizzo e dei baffi ritorti. Le mani piegate verso l’interno come moncherini commuovono. Sebastian de Morra è un dipinto ad olio su tela di cm 106 x 81 realizzato nel 1644 circa dal pittore Diego Velàzquez. È conservato al Museo del Prado di Madrid.

In fondo sulla bellezza i filosofi, gli scienziati, i letterati, gli artisti discutono fin dall’antichità, teorizzandone le regole che vengono più o meno rispettate o disattese nei vari contesti o fra le differenti epoche; ma in merito alle ‘brutture’ si è quasi sempre preferito tacere, quasi a volerle mettere tra parentesi: ‘brutto’, nell’accezione più vasta di orrido, tremendo, demoniaco, era qualcosa che non vantava e non poteva vantare una tradizione ermeneutica, poiché connaturata a un’idea negativa, pessimista, addirittura letale o dannosa dell’argomento medesimo o dei soggetti ad esso radicati.  Infatti è solo da metà Ottocento, dunque in un’epoca vicina, rispetto ai millenni trascorsi a disquisire sul bello, che risalgono i primi discorsi organici sul brutto. Tuttavia, una storia della bruttezza ha alcuni caratteri in comune con una storia della bellezza: anzitutto, noi possiamo soltanto supporre che i gusti delle persone comuni corrispondessero in qualche modo ai gusti degli artisti del loro tempo. Se un visitatore venuto dallo spazio entrasse in una galleria d'arte contemporanea, vedesse volti femminili dipinti da Picasso, e sentisse che i visitatori li giudicano "belli"?potrebbe farsi l'idea errata che nella realtà quotidiana del nostro tempo si ritengono belle e desiderabili creature femminili dal volto simile a quello rappresentato dal pittore. A noi, invece, questo non è possibile; nel visitare epoche ormai lontane, non possiamo fare verifiche, né in relazione al bello né in relazione al brutto, perché di quelle epoche ci sono rimaste soltanto testimonianze artistiche. “Il bello ha dei canoni precisi, il brutto, invece, lascia spazio all'immaginazione, perché può ispirare sia disgusto sia pietà. E ogni epoca ha le sue regole”

Fonti A cura di: Wikipedia.it archiviostorico.corriere.it Repubblica.it viadellebelledonne.wordpress.com http://www.wuz.it A cura di: Basili Riccardo, Bianchi Francesco Matteo Giri