VITO IEVOLELLA 04/12/1929 – 10/09/1981. La sua vita… Vito Ievolella, nato a Benevento il 4 dicembre 1929, originario della Campania, si è arruolato nell’Arma.

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VITO IEVOLELLA 04/12/1929 – 10/09/1981

La sua vita… Vito Ievolella, nato a Benevento il 4 dicembre 1929, originario della Campania, si è arruolato nell’Arma dei Carabinieri nel 1948 all’età di 19 anni. Sposato e padre di Lucia, è ricordato dai parenti e dai colleghi più vicini per la sua capacità di conciliare i rapporti famigliari con il peso delle responsabilità professionali.

Il suo lavoro… Dopo circa un decennio di servizio nelle regioni del Nord Italia, ha scelto di trasferirsi a Palermo con l’intento di impegnarsi nella lotta contro la criminalità mafiosa. Ha lavorato presso la Stazione dei Carabinieri “Duomo” e ha comandato per un breve periodo la Stazione “Falde”, la quale nel 2002 gli è stata intestata. Intorno alla fine degli anni ’60 è stato trasferito alla Caserma “Carini”, dove ha prestato servizio fino al giorno della sua morte. Con il grado di Maresciallo Maggiore, ha coordinato le attività del reparto “Delitti contro il patrimonio” del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo.

La Stampa lo aveva soprannominato “Segugio temuto dai boss” e “Specialista in casi difficili”

L’attentato… Il 10 settembre del 1981 alle 20:30 circa, il Maresciallo Vito Ievolella era in compagnia della moglie Iolanda a bordo della loro Fiat in via Serradifalco, stava aspettando che la figlia 20enne Lucia Assunta uscisse dalla scuola guida dove frequentava un corso per il conseguimento della patente. All’agguato parteciparono quattro killer mafiosi armati di pistole e fucili, giunti a bordo di una Fiat Ritmo, risultata poi rubata, scesi dall’autovettura fecero fuoco in direzione del Maresciallo Ievolella uccidendolo; la moglie riportò una leggera ferita alla regione sopracciliare destra. Il mezzo usato dai killer fu dato alle fiamme e poi abbandonato in via Caruso, dove fu ritrovato dai carabinieri.

La causa… Fu chiaro immediatamente che l’assassinio del Maresciallo Ievolella era da inquadrare in un programma mafioso teso all’eliminazione di quanto di opponesse all’espansione degli interessi criminali. La causa della sua morte va ricercata in un indagine, svolta nel 1980 e finitosi con un “esplosivo” rapporto, all’interno della quale erano individuate le gravi responsabilità ed i loschi affari d’importanti personaggi della mafia dell’epoca. Il principale settore incriminato era quello del contrabbando delle sigarette, che cominciava a legarsi al traffico delle sostanze stupefacenti. Il Maresciallo Ievolella era molto noto negli ambienti investigativi e tra i Magistrati per la sua capacità professionale, per l’impegno investigativo e per la determinazione a fare luce tanto sul delitto comune quanto su quello mafioso. Nel processo per l’omicidio del Maresciallo Ievolella, la I sezione presidiata da Corrado Carnevale ha annullato per ben tre volte la condanna dello stesso imputato.

I riconoscimenti… Al Maresciallo Ievolella, il capo dello Stato ha concesso la medaglia d’Oro al Valore Civile con la seguente motivazione: “Addetto a Nucleo Operativo di Gruppo, pur consapevole dei risci a cui si esponeva, si impegnava con infaticabile slancio ed assoluta dedizione al dovere in prolungate e difficili indagini – rese ancora più ardue dall’ambiente – che portavano all’arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose.

Al di là dell’indiscusso valore di esempio morale e civile incarnato da quest’uomo, riteniamo doveroso ricordarlo perché è stato il solitario e fino ad oggi sconosciuto anticipatore di una strategia di lotta contro la criminalità mafiosa, che si è perfezionata soltanto negli anni successivi, con il supporto di altri valorosi magistrati di rappresentanti delle forze dell’ordine. Va menzionato soprattutto per aver lavorato in un clima di isolamento e di incomprensione, in un momento storico in cui la mafia non era neppure riconosciuta come organizzazione criminale e in cui non esistevano ancora gli strumenti legislativi e giudiziari che consentiranno negli anni successivi di infliggere dure sconfitte a “cosa nostra”.

La figlia Lucia ha gentilmente risposto a delle nostre domande consentendoci di comprendere più da vicino chi era Vito Ievolella uomo, padre,marito, uomo dello Stato.

Siamo venute a conoscenza dei diversi riconoscimenti ricevuti da suo padre per la diligenza nel compiere il suo lavoro. Che stato d'animo provava lei da figlia nei suoi confronti? Nei 21 anni di servizio trascorsi a Palermo il Comando Legione, il Comando VI Brigata ed il Comandante Generale dell’Arma hanno tributato a mio padre ben 24 riconoscimenti di vario genere. Gli encomi e gli apprezzamenti ricevuti erano tutti caratterizzati dal medesimo denominatore comune: essi restituivano l’immagine di un uomo solitario che, con estrema lucidità mentale, fare certosino ed impavida intraprendenza si aggirava “in zone assai sensibili per la sicurezza pubblica” e riusciva a snidare centinaia di pericolosi malfattori. Si trattava di soggetti, spesso affiliati ad associazioni a delinquere, che godevano di notevole “rispetto” nell’ambiente malavitoso dell’epoca e che perpetravano gravi delitti contro la persona e il patrimonio (furti, rapine, detenzione di armi, omicidi). Come figlia ero certamente orgogliosa per i traguardi conseguiti da mio padre, ma –anche a causa della giovane età- non avevo maturato una consapevolezza adeguata del reale peso e della forte incisività del suo lavoro. A ciò si aggiunga che mio padre era una persona naturalmente schiva e riservata, per nulla incline alla superbia, alla vanità o alla vanagloria. Al contrario, era solito schermirsi dinanzi ai ripetuti elogi, anche solo verbali, dei suoi superiori. Godeva di grande stima nelle alte sfere dell’Arma dei Carabinieri, negli ambienti della magistratura e tra i colleghi appartenenti ad altre forze dell’ordine. Nella mia memoria persiste il ricordo di un uomo semplice e sorridente, per il quale compiere il proprio dovere fino in fondo e senza esitazioni costituiva un atto naturale e spontaneo, una sorta di automatismo morale che nasceva da un convincimento profondo, irremovibile, inestirpabile. Nel mio cuore la gioia e la fierezza dinanzi a quegli esempi di estrema perizia e di raro coraggio si confondevano e si mescolavano con la serenità derivante dal senso di protezione e di sicurezza che quel gigante buono sapeva infondermi in ogni circostanza.

E' giunta inattesa la scomparsa di suo padre? Temevate per la sua vita? Sapevate dei rischi che correva? L’incessante e capillare azione di “disturbo”, che scaturiva da quell’investigazione meticolosa ed incalzante, mise ben presto in crisi gli equilibri interni ed i piani di “cosa nostra” e fece maturare l’idea di liberarsi di un soggetto tanto “in gamba” quanto scomodo. Con una imponente escalation di indagini, mio padre aveva, infatti, intrapreso un poderoso rapporto, denominato “Savoca + quarantaquattro”, nel quale venivano toccati gli interessi di personaggi di spicco della mafia dell’epoca impegnati nel contrabbando di sigarette e nel traffico di sostanze stupefacenti. Ha avuto così inizio un periodo di telefonate anonime e di esplicite minacce, che non hanno però fermato la determinazione di mio padre. Io e mia madre, ben consapevoli dei pericoli cui si esponeva, non potevamo che aggrapparci tenacemente alla preghiera e alla speranza. Ricordo le tante volte in cui gli ho raccomandato attenzione e prudenza, ma ero cosciente che nulla avrebbe mai potuto distoglierlo dal suo obiettivo. Voltare le spalle alla ricerca della giustizia, per pura viltà e per mero egoismo, gli avrebbe fatto perdere il rispetto di se stesso e a me avrebbe tolto il più fulgido esempio di amore paterno.

Suo padre parlava mai con lei del fenomeno della mafia? Mantenendo un rigoroso segreto professionale, mio padre mi raccontava episodi anonimi di traffici malavitosi, da cui emergeva un chiaro e preciso profilo che di “cosa nostra”. Grazie al costante lavoro di scavo negli ambienti della mafia e della delinquenza comune, aveva ricostruito alcuni aspetti di quel mondo, allora ancora sotterraneo e sconosciuto, che di lì ad alcuni anno sarebbero stati pienamente riconfermati. Lo colpivano la crudeltà e la disumanità di quei criminali, che erano capaci di torturare e di uccidere i loro simili senza provare alcun senso di pietà e senza accusare nessun rimorso. Alla sorda rabbia nei loro confronti, si contrapponeva l’acuta compassione per la povera gente dei rioni popolari della città, spesso costretta a soccombere alle lusinghe della mafia a causa di una stringente miseria. L’ingiustizia sociale era per lui la prima e fondamentale causa della forza di “cosa nostra”, il cui potere si consolidava nel vuoto lasciato dallo Stato. Era profondamente convinto che, dietro il loro atteggiamento arrogante e prepotente, i mafiosi celassero una natura timorosa e pavida. “Conigli”, amava definirli, ovvero uomini incapaci di affrontare a viso aperto il nemico, rischiando a loro volta la morte. E proprio così lo hanno colpito, sparando alla spalle mentre le tenebre scendevano su un piazza vuota e silenziosa.

Cosa prova nei confronti degli assassini di suo padre ? Alla rabbia e all’odio iniziali, si sono sostituiti negli anni la compassione e l’indifferenza. Null’altro credo che meritino coloro che hanno sprecato la propria vita, rincorrendo idoli vani e disperdendo ogni traccia di umanità.

Come era suo padre come uomo in famiglia ? Il padre che ogni figlia desidera: affettuoso, premuroso, sollecito. Punto di riferimento costante in ogni avversità o problema, pilastro incrollabile per ogni bisogno, sicuro rifugio di ogni giornata. E così ancora vive nel mio cuore….

Con che spirito ha seguito i processi che si sono svolti relativi all'omicidio di suo padre? La figlia di un uomo, che ha sacrificato la propria vita in nome della giustizia, nutre un’istintiva fiducia negli organi deputati ad amministrare questa stessa giustizia. Il dolore e la rabbia per la perdita di mio padre sono stati, quindi, ben poca cosa dinanzi alla constatazione delle falle, che affliggono il nostro sistema giudiziario. Per me è stato molto più penoso guardare negli occhi gli avvocati e vederli intenti a difendere l’indifendibile. Quanto a loro, sfuggono ad ogni sguardo e sono refrattari ad ogni confronto, proprio come esseri senz’anima.

Gli esiti processuali pensa che siano stati soddisfacenti? Le condanne, giunte troppo tardivamente rispetto alla data dell’omicidio, hanno “risparmiato” qualcuno dei responsabili, direttamente o indirettamente coinvolto nell’organizzazione della plateale esecuzione. Tra il 16 giugno del 2001 e il 20 giugno del 2003 si sono avvicendati i provvedimenti giudiziari, che hanno finalmente condotto alla condanna all’ergastolo, da parte della Corte d’assise di Palermo, del capomafia Tommaso Spadaro (già in carcere dagli anni ’80) e di Giuseppe Lucchese, incolpati di essere rispettivamente il mandante e uno degli esecutori dell’omicidio. Sono stati, invece, assolti Francolino Spadaro, figlio del capomafia, e Pietro Senapa, anche loro indicati come killer dai collaboratori. Dieci anni sono stati, infine, inflitti ai “pentiti” Salvatore Cancemi e Salvatore Cucuzza, che - autoaccusandosi del delitto- hanno fornito preziose rivelazioni circa il calibro dei killer coinvolti nell’agguato (Pino Greco, Filippo Marchese, Giovanni Fici e Mario Prestifilippo, ammazzati a loro volta nella guerra di mafia) e hanno reso in tal modo evidente lo spessore dell’attività investigativa di mio padre. L’entità della sanzione inflitta ai temibili “boss” sopra citati non può comunque celare l’intrinseca debolezza del nostro sistema giudiziario, afflitto da una patologica lentezza e troppo spesso “in debito” con malfattori, che manovrano a loro piacimento la verità dei fatti. Alla classe politica spetta – a mio parere- il compito di adottare misure legislative più stringenti e di dotare i tecnici del settore (magistratura e forze dell’ordine) di strumenti più idonei a riconquistare il ruolo di veri artefici della giustizia.

Progetto “memoria e consapevolezza ” Elaborato di Maria Pedranz ed Eleonora de Checchi 2 liceo linguistico Gandhi di Merano.