AGOSTINO
Agostino nasce a Tagaste (Algeria orientale) nel 354 da una coppia di piccoli possidenti, formata dal padre Patrizio e dalla madre Monica, quest’ultima di fede cristiana. Morto il padre, si reca a Cartagine dove compie i suoi studi superiori e conosce una donna, di cui non si sa il nome, che gli dà un figlio , Adeodato nel 372.
Durante il soggiorno a Cartagine aderisce al manicheismo (da Mani di Babilonia, 216-277), dottrina religioso filosofica a carattere sincretistico – mette assieme cristianesimo, marcionismo, gnosi valentiniana, zoroastrismo - che pone all’origine del mondo due principi avversi: un dio del bene (Buon principio o Padre della maestà) e un dio del male (il Dio dell’Antico Testamento), il cui luogo di confronto e di conflitto sarebbe il nostro mondo e i cui due elementi opposti sarebbero lo spirito-bene e la materia-male. Il credente manicheo doveva così impegnarsi a far prevalere lo spirito sulla materia, liberandosi dai vincoli delle tenebre per rivolgersi al mondo della luce. In questo periodo la lettura dell’Ortensio ciceroniano suscita in lui la curiosità per la filosofia (quella greca sarà da Agostino sempre approcciata in traduzione) Dopo un breve periodo passato nuovamente a Tagaste, torna a Cartagine nel 375 e lì apre una scuola di eloquenza.
Tra il 382 e il 383 si trasferisce a Roma alla ricerca di un luogo più adatto per insegnare – gli studenti cartaginesi erano particolarmente turbolenti – ma fallisce l’obiettivo, visto che alcuni studenti romani spariscono senza averlo pagato. Nel 384 è a Milano, allora capitale dell’impero, città nella quale ottiene una cattedra di retorica grazie ad alcuni amici manichei L’ascolto delle prediche di Ambrogio, vescovo di Milano, lo convince circa la profondità delle Scritture cristiane, comprese nel loro senso allegorico e morale, quindi alla ricerca dello spirito del testo oltre il puro significato letterale. Raggiunto dalla madre, matura una sincera adesione al cristianesimo. Ciò avviene anche per merito del prete Simpliciano, che gli racconta della conversione di Mario Vittorino, filosofo platonico grazie alla cui opera di traduzione egli aveva potuto avvicinarsi ai testi di Platone e dei neoplatonici, e dell’amico Ponticiano che lo fa partecipe della vita e della spiritualità monacale.
Subito dopo la conversione si ritira con la madre a Cassiciaco (Cassago Brianza), forse per un problema di salute che lo costringe ad abbandonare l’insegnamento e qui compone i primi dialoghi – Contro gli accademici, La vita felice, L’ordine e i Soliloqui – in cui emerge accanto alla nuova prospettiva cristiana, la passione filosofica. Nella Pasqua del 387 (25 aprile) riceve a Milano da Ambrogio il battesimo.
Tornato a Roma e poi a Cartagine, è ordinato sacerdote nel 391 a Ippona (Algeria nord orientale) e, per acclamazione popolare, vescovo della stessa città nel 395- Già nel 392 aveva affrontato una disputa contro il manicheo Fortunato, e nello stesso anno aveva cominciato a schierarsi contro i donatisti, cioè i seguaci di Donato di Case Nere, vescovo di Numidia, che anni prima si era opposto alle decisioni del concilio di Elvira del 305-306. In tale concilio si era deciso di riaccogliere nella Chiesa coloro (i cosiddetti lapsi = perduti, dal labor = scivolare) che durante le persecuzioni avevano tradito (da tradere = consegnare) cioè avevano consegnato le Scritture alle autorità romano-pagane per aver salva la vita. Secondo i donatisti tali persone non potevano essere riammesse (a meno che non fossero state nuovamente battezzate) e men che meno assumere cariche importanti come era accaduto al vescovo di Cartagine Ceciliano, ex traditore. A tale impostazione rigida e intransigente si era opposta la Chiesa di Roma e con lei Agostino, che affronta i donatisti con numerosi scritti e giunge ad ottenere un notevole successo contro di loro in una disputa pubblica nel 411.
L’ultima grande disputa fu contro i seguaci del monaco britannico Pelagio (360 ca-427) secondo cui gli uomini non erano predestinati (concetto di Sant'Agostino elaborato da una sua interpretazione molto personale del pensiero di San Paolo), ma potevano, invece, solamente con la propria volontà (liberum arbitrium) e per mezzo di preghiere ed opere buone, evitare il peccato e giungere alla salvezza eterna: non era necessario l'intervento della Grazia divina. Il pelagianismo inoltre negava la trasmissione del peccato originale, che aveva danneggiato solo Adamo e non tutto il genere umano (cfr. www.eresie.it, Pelagio). La disputa contro Pelagio e i semipelagiani – che ammattevano la necessità della grazia divina ma ritenevano che essa fosse concessa solo a coloro che con le proprie forze avessero già deciso di vivere in modo virtuoso - tenne impegnato Agostino fino alla morte, sopravvenuta nel 430, mentre Ippona era sotto l’assedio dei Vandali.
Dal punto di vista strettamente filosofico e teologico, il suo contributo non si limitò agli scritti polemici, ma indagò tutti i grandi temi relativi al senso della vita e del mondo e produsse la monumentale sintesi della Città di Dio (413-427), le Confessioni (397-401, primo scritto di genere autobiografico), numerosi testi di commento alle Scritture (per es. il De Genesi ad litteram, 401-414), di teologia (come il De trinitate, iniziato nel 399 e finito dopo il 420) e di morale (tra gli altri il De bono coniugali e De sancta virginitate – entrambi del 401 – e il De patientia del 417), non mancando pure di intervenire su temi oggi diremmo pedagogici ( De magistro del 388 e De catechizandis rudibus del 399-400).
Una filosofia “coinvolgente” Per Agostino, che aveva conosciuto da vicino le scuole filosofiche neoplatoniche, e il concetto di filosofia come esercizio spirituale, la filosofia, in strettissimo rapporto con la teologia, tratta della destinazione ultima dell’uomo, di un uomo che vive fino in fondo il dramma della vita in questo mondo e che, facendo esperienza del mondo, anela ad una perfetta realizzazione e felicità. Ma questo uomo non è l’Uomo in generale, bensì è l’uomo-Agostino con le sue inquietudini, con la tendenza alla dispersione e con la sua voglia di redenzione.
Il soggetto Non c’è dunque problema filosofico che non coinvolga direttamente il soggetto che parla, vive e fa filosofia. Da questa impostazione proviene anche, al di là del suo più noto scritto, Le confessioni, il tono appunto di confessione, di apertura della propria anima a Dio e al prossimo che possiede la gran parte dei suoi scritti, apportatori anche per questo di una significativa novità stilistica nel panorama della storia della filosofia.
Contro i manichei Tre grandi polemiche hanno attraversato la vita di Agostino: La prima è quella contro i manichei, a favore dell’unità e spiritualità del principio divino e contro ogni idea di malignità del mondo sensibile. In opposizione a quel gruppo di seguaci del saggio persiano Mani che lo aveva affascinato in gioventù, Agostino affronta anche il problema della consistenza ontologica del male: il male non ha un suo principio perché non ha essere, ma esiste solo in quanto privazione di essere. Laddove manca il bene, lì c’è male:
Il male “Il male di cui cercavo l’origine non è una sostanza, perché se fosse una sostanza, sarebbe un bene. E invero o sarebbe una sostanza incorruttibile e perciò senz’altro un bene grande, o una sostanza corruttibile e perciò un bene, perché altrimenti non potrebbe andare soggetta a corruzione. Perciò vidi chiaramente come Tu facesti buone tutte le cose” (Confessioni, VII, 12)
Mali fisici e morali In realtà i mali possono essere distinti in fisici e morali I fisici o derivano dalla struttura gerarchica dell’universo, in cui v’è il superiore e l’inferiore (laddove quest’ultimo, lungi dal corrompere la creazione, la completa infatti “si possono giudicare migliori le cose superiori che non le inferiori, ma, con giudizio ben più sano, c’è da affermare migliore l’universo che non le cose superiori - Confessioni, VII, 13), oppure sono necessari all’armonia cosmica come le ombre lo sono per far risaltare la luce e dunque fanno parte di una totalità che è in sé bene I morali derivano dal peccato, che è un errore della volontà la quale si volge a ciò che è inferiore (aversio a Deo, conversio ad creaturam), piuttosto che a ciò che è superiore.
Contro i pelagiani La polemica contro i pelagiani fu invece in opposizione ad ogni presunzione di autosufficienza dell’uomo e a favore del riconoscimento della grazia divina quale vero e indispensabile perno della redenzione umana.
Contro Pelagio La lotta antipelagiana caratterizza la parte finale della vita di Agostino e contribuisce ad una soluzione finale del problema del rapporto tra libertà e grazia.
Una filosofia (neo) platonica La lettura dei neoplatonici nella traduzione di Mario Vittorino darà una connotazione fondamentale alla riflessione Agostiniana. Avvenuta nello stesso periodo della conversione al cristianesimo, consoliderà nel vescovo di Ippona la convinzione nella distinzione tra due mondi – sovrasensibile e sensibile – e nella destinazione dell’anima umana al sovrasensibile, che nell’aderirvi avrebbe dovuto compiere un cammino di purificazione nel quale sarebbe venuta via via in primo piano l’iniziativa di Dio e avrebbero progressivamente perso di importanza la capacità e l’impegno umano.
Due fasi della riflessione agostiniana In particolare possiamo distinguere nella biografia filosofica del santo due periodi: 1) 386-397: il primo periodo, influenzato dalle letture neoplatoniche, e contraddistinto da un grande fiducia nella filosofia. La vera filosofia coincide con la vera religione. 2) 397-430 è il periodo della svolta che si gioca attorno al tema della grazia, in cui filosofia e religione tendono a prendere strade diverse e si accentua il ruolo della teologia nel cammino della salvezza umana.
Dopo il 397 La prospettiva muta radicalmente attorno al 397. alla radice vi è un mutamento della concezione della felicità, ora legata più intimamente alla visione biblica. Di fronte alla promessa del regno divino, la felicità filosofica, incentrata sull’autodominio in vista di un disciplina del desiderio (desiderare solo ciò che si può avere) appare estremamente riduttiva. Nel De Trinitate (399) il “vivere come si vuole” della tradizione stoica e neoplatonica, appare un “sopportare volontariamente” ciò che non si può evitare.
Peccato e libertà Con il peccato l’uomo ha perso anche la sua libertà. Prima del peccato egli disponeva della libertà di poter non peccare; dopo il peccato egli si trova nella condizione di non poter non peccare; nella redenzione finale egli acquisirà la libertà di non poter peccare. Tale libertà è acquisibile solo per grazia.
Grazia e libero arbitrio In questa prima fase, quindi la grazia divina e la giustizia di Dio sono conciliate con il libero arbitrio umano. Dio concede la grazia a chi crede e chi crede è proprio colui che chiede la grazia. L’onniscienza divina, e dunque la conoscenza anticipata di ciò che avverrà, spiega poi perché nelle Scritture alcuni sembrano destinati a ricevere la grazia e altri no.
Il cambio di rotta del 396-7: le Questioni a Simpliciano In questo periodo Agostino muta opinione circa il rapporto tra l’iniziativa umana e la grazia divina. Se prima Dio ancora “premiava” la fede dell’uomo, ora il vescovo di Ippona giunge a dire: “Nessuno infatti crede se non è chiamato. Ora, è Dio nella sua misericordia a chiamare, e lo fa indipendentemente dai meriti della fede, perché i meriti della fede seguono e non precedono la chiamata […] Se la misericordia non precede chiamando, nessuno può credere per iniziare da qui ad essere giustificato e ottenere la facoltà d bene operare. Dunque la grazia viene prima di qualunque merito” (Questioni a Simpl., I, 2,7)
La fine della libertà La nuova visione della grazia comporta un’accentuazione del teocentrismo agostiniano. Ma qual è il prezzo che egli deve così pagare? Una fatale svalutazione dell’iniziativa e della libertà umana. Se Dio decide chi si salva a prescindere anche dallo sforzo di fede, all’uomo non rimane alcun margine di scelta. Sembra che il suo destino sia da sempre stato già scritto. Tale interpretazione della vicenda umana in rapporto con Dio è stata accolta e valorizzata soprattutto da parte protestante e calvinista.
Sommersi e salvati Ma se tutti siamo predestinati, coloro che si dannano sono stati da Dio predestinati al male? Agostino coglie il problema posto dall’evidente contraddizione di Dio buono che predestina alla dannazione. La sua soluzione sottolinea la rilevanza negativa per il destino dell’uomo del peccato originale. Il peccato originale è una macchia che meriterebbe di per sé la dannazione per tutta l’umanità. Data questa giusta pena per la colpa, interviene la misericordia di Dio che in modo eccezionale e imperscrutabile salva qualcuno, NONOSTANTE il peccato.
Chi è salvo e chi no? Ma a questo punto il problema si ripropone? Perché alcuni vengono salvati, cioè non viene loro comminata la giusta pena, e alcuni no? A tale domanda, avendo escluso dall’inizio che il merito umano possa contribuire alla salvezza, Agostino è costretto a rispondere che ciò appartiene ad una sapienza divina nascosta agli uomini.
Non c’è salvezza universale Quindi se la filosofia che, all’inizio, poteva condurre solo pochi alla felicità, ora non può condurvi nessuno, poiché a nessuno è aperta la via alla felicità e alla salvezza per meriti propri, ora anche il cristianesimo, che salvava interi popoli, è un po’ limitato nella sua efficacia, nel senso che anch’esso appare essere appannaggio di alcuni ma non di tutti ( ad imperscutabile scelta di Dio).
“Egli vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1Tim 2,4)? La frase succitata riporta un’affermazione chiara di S. Paolo che contraddice apertamente quanto Agostino va sostenendo. Qui Agostino fa ricorso al tutte le sue risorse argomentative per dimostrare che S. Paolo in realtà dice quello che egli vuole dire.
La predestinazione Dati questi presupposti la dottrina della predestinazione appare un esito obbligatorio della riflessione agostiniana.
Filosofia e teologia; ragione e fede Il disincanto sulle possibilità della filosofia in ordine al raggiungimento della felicità, non fa cadere Agostino nell’irrazionalismo. Anzi, malgrado venga rifiutata ogni erudizione fine a se stessa, il sapere viene ritenuto necessario per comprendere meglio la Rivelazione, le Scritture e il messaggio di Dio, oltre che per confutare le eresie e le dottrine dei pagani. Dunque bisogna comprendere perché la ragione come facoltà distintiva dell’uomo, ci pone delle domande e vuol spiegazioni. Ma il fondamento in base al quale chiedere e comprendere rimane la fede, l’adesione profonda al messaggio di Cristo, diremmo, la passione per il Vangelo senza la quale non vi può nemmeno essere cultura: “Se non avrete creduto non comprenderete” (Isaia 7,9 nella versione dei Settanta in Agostino, De libero arbitrio, 4).
La scienza umana e la sapienza divina Il valore del sapere umano è quello di essere strumento da mettere al servizio della fede e della caritas che hanno come oggetto privilegiato Dio. Quindi la scienza non è da rifiutarsi, salvo che nelle situazioni in cui pretende di essere autosufficiente, genera orgoglio e di conseguenza allontana da Dio
L’anima Il fine della conoscenza è Dio, ma a Dio si giunge attraverso la possibilità di rientrare in se stessi e di valorizzare le facoltà della nostra anima. Dio è l’oggetto privilegiato della conoscenza, è il fine ultimo del processo conoscitivo perché è la realtà somma, il bene assoluto. Tuttavia è vero che il processo della conoscenza inizia con il rapporto che noi abbiamo con le cose sensibili.
La conoscenza sensibile La conoscenza sensibile, cioè quegli atti conoscitivi che colgono attraverso i nostri cinque sensi le cose esterne non garantiscono mai la loro verità. Infatti nulla che è in continuo movimento è percepibile nella sua verità. Infatti una cosa che muta non è mai qualcosa ma è sempre qualcos’altro da ciò che uno ha conosciuto in un dato momento. Infatti da quel momento è già cambiata.
Ragione Se la conoscenza fosse fatta di organi corporei che conoscono oggetti corporei nulla sarebbe conosciuto. Platonicamente la conoscenza deve giungere all’essenza non corporea delle cose, al loro essere stabile, tramite la ragione, che è organo non sensibile. E la ragione è facoltà dell’anima.
L’anima vigila L’anima attraversando il corpo, vigila sui quanto accade nei sensi, vigila sulle modificazioni dei sensi date dagli oggetti esterni, ed elabora da sé le immagini degli oggetti sensibili.L’anima cioè trova in sé immagini corrispondenti alle modificazioni sensibili, che corrispondono alla verità razionale di quegli oggetti.
Criteri Le verità razionali corrispondono alle idee platoniche e rappresentano i criteri con cui l’anima valuta e giudica la realtà. Ma da dove provengono tali verità stabili ed eterne (come per esempio quelle matematiche) con cui giudicare la realtà. Non dall’anima stessa perché essa non è completamente immutabile (è immutabile nello spazio ma muta nel tempo)?
Illuminazione (De magistro, 388-90) I criteri ultimi della conoscenza provengono da Dio, che è sede delle idee (le idee di Platone sono per Agostino i pensieri di Dio). È quindi Dio che illumina la nostra anima fornendole i parametri per conoscere la realtà al di là della sua continua incessante mutevolezza. Dio è luce per l’intelletto umano che permette di illuminare razionalmente i dati della sensibilità, che, dal canto suo, non è altro che uno stimolo per la ragione a ritrovare in sé la verità delle cose.
Conoscono solo i credenti? Dio illumina costitutivamente l’anima umana, anche quella degli atei o dei fedeli di culti non cristiani, che ben possono giungere a verità matematiche e anche oltre – come fece Platone - .I credenti fanno però un passo in più, non solo passano dalla sensibilità alle idee razionali, ma da queste giungono alla loro fonte, cioè a Dio.
Perché dall’anima si può passare a Dio? Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur. Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell'uomo interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione. (De vera religione 39, 72) L’anima può trascendere se stessa fino a Dio perché è a immagine di Dio.
Anima e Trinità L’anima è immagine della Trinità divina (De Trinitate), infatti 1) L’anima “è” come il Padre 2) Dal suo essere genera l’intelligenza di sé, come dal Padre si genera il Figlio 3) Il rapporto tra essere e intelligenza si esprime come volontà (l’essere vuole capire e l’intelligenza vuole essere riempita dall’essere), così come dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito
Dio in noi Da queste ed altre analogie, Agostino deduce che Dio è in noi stessi, cioè ha lasciato in noi tracce indelebili di sé che noi possiamo rinvenire. Questo ritrovare Dio in noi, ci riconduce da noi a Dio. Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo. Tu eri più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta. (Confessioni 3, 6, 11).
Dio creatore Ricondurre tutto a Dio è un’operazione che non si limita a trovare la causa e il fine ultimo della nostra esistenza, ma di tutto l’universo. Dio è creatore di tutte le cose, questa è la conclusione di Agostino in linea con il dettato della Genesi.
Il tempo creato Pertanto il tempo inizia ad esistere con la creazione e insieme alla creatura, e nulla ha a che fare con l’essenza di Dio che è fuori dal tempo, immutabile ed eterna (essendo l’eternità diversa da un tempo infinito, e coincidendo piuttosto con la totale assenza di tempo).
Che cosa è il tempo? Ma allora che cos’è il tempo? È un problema assai difficile per Agostino: “Se nessuno mi interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so…” (Confessioni, XI,14,17)
Qual è il problema “tempo”? Il problema è che non ci sarebbe tempo senza un mutamento delle cose, ma le categorie con cui lo misuriamo implicano sempre la loro (delle cose) inesistenza. Infatti il passato non è più Il futuro non è ancora Il presente è l’impalpabile istante in cui il futuro si trasforma in passato. Come facciamo a misurare allora qualcosa di così sfuggente e che mai è presente, ha consistenza davanti a noi?
La misura interiore del tempo Se noi lo misuriamo esso deve essere a noi presente, deve avere una sua consistenza. Ebbene tale consistenza esso la trova nella nostra anima. È la nostra anima che trattiene il passato attraverso la memoria, attende il futuro attraverso l’attesa e vede il presente nell’attenzione o visione.
Una distensione dell’anima Dunque il tempo è misurato nella anima che ha la capacità di “distendersi” nel passato e nel futuro, mantenendo la sua consapevolezza presente. È l’anima che raccoglie i dati del passato impedendo loro di disperdersi nel non-essere; si pensa nel futuro facendo a sé presenti le cose che ancora non sono, e infine pone attenzione alle cose del presente fissandole di fronte a sé. Quindi il tempo è propriamente una distensio animi. Di qui la possibilità che abbiamo di misurarlo negli oggetti esterni che mutano incessantemente.
Creazione e mutamento Come si rapporta l’atto della creazione con lo sviluppo successivo del creato? Agostino è ben lontano dal pensare ad un’evoluzione della natura e delle cose in senso moderno, tuttavia egli intende da un lato giustificare la linea razionale del mutamento delle cose, che pur essendo indice di una mancanza di essere, non può essere fuori dal piano voluto da Dio, dall’ altro giustificare le novità che intervengono nel creato dopo la creazione e in particolare quelle, di notevole rilevanza religiosa, relative ai miracoli.
Tempo e storia: la città di Dio Accanto ad una riflessione sul tempo, Agostino dà vita ad una monumentale opera sulla storia, stimolata dagli eventi epocali che egli si trova a vivere (il sacco di Roma del 410 ad oper di Alarico, episodio che fece grandissima impressione sui contemporanei e che li indusse a percepire con preoccupazione l’imminenza della fine di una civiltà). Tale opera è intitolata La città di Dio
I cristiani e la fine dell’impero Agostino ne La città di Dio risponde alle accuse fatte ai cristiani di aver indebolito in modo irrecuperabile il mos maoirum dei romani, accelerando la fine del mondo civilizzato di Roma. Il vescovo di Ippona insiste sulla intrinseca debolezza di una compagine sostenuta da una prospettiva pagana, ripercorrendo la storia di Roma e dubitando del valore intrinseco dell’impero.
Una teologia della storia La polemica di Agostino diviene occasione per lo sviluppo di una visione teolgoica della storia, in cui quest’ultima è interpretata come qualcosa che si sviluppa linearmente e non ciclicamente come ritenevano i pagani. La storia è lo sviluppo dell’umanità e del mondo che va da un inizio (creazione) ad una fine (Giudizio) e il cui centro è l’Incarnazione di Cristo.
La fine della storia e il tempo interinale Ora, le difficoltà dell’impero romano testimoniano il progressivo avvicinamento dell’umanità al momento della fine, ma fino a quando tale fine non sarà arrivata, siamo collocati in un tempo interinale, in cui due forme di vita e di pensiero si sovrappongono: la città terrena e la città divina.
La città di Dio e la città terrena È fondata sulla visione cristiana del mondo che promuove l’amore di Dio fino al disprezzo di sé e che ha la sua primizia nella Chiesa di Cristo; la città terrena è iò mondo profano, che promuove l’amore di sé che giunge fino al disprezzo di Dio e che sarà giudicata e abbandona alla fine alla sua giusta condanna.
La grazia e la Chiesa La grazia in ultimo è quel dono che ci fa appartenere all’una piuttosto che all’altra città. La primizia della città di Dio nn è la Chiesa visibile, in cui ancora santi e peccatori convivono, ma la Chiesa invisibile, quella dei santi che realmente vivono secondo il modello evangelico.
Il Giudizio Il giudizio finale purificherà tutto il mondo e anche la Chiesa, la quale per ora rimane una comunità in cammino, che anela alla salvezza e ad un mondo nuovo ma che non lo realizza, essendo la realizzazione di tale stato redento dell’umanità opera esclusiva di Dio.