Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola

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Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola

Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola Poiché sullo schermo sono ricorrenti le situazioni in cui il teatro viene a intersecarsi con il cinema in una continua comunione di ruoli, interferenze e risonanze, cercheremo di tessere un vero e proprio racconto dei legami che possono instaurarsi tra queste due arti della rappresentazione.

Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola La nostra intenzione non è tanto quella di mettere alla prova una eventuale superiorità del cinema rispetto al teatro o viceversa, quanto piuttosto quella di sottolineare situazioni ricorrenti in cui il loro ambivalente rapporto, senza duplicare l’una o l’altra forma di messa in scena, tende a creare un binomio mediante il quale è possibile investigare la realtà dei due sistemi di racconto.

Nel segno delle origini: i fratelli Lumière Scrive riferendosi ai Lumière George Sadoul: “Secondo me i fratelli Lumière avevano definito in modo esatto il vero campo del cinema. Bastano il romanzo, il teatro per l’esplorazione del cuore umano. Il cinema è il dinamismo della vita, della natura e delle sue manifestazioni, della folla e del suo agitarsi. Ne dipende tutto ciò che si afferma col movimento. Il suo obiettivo si apre sul mondo”.

Nel segno delle origini: i fratelli Lumière Tuttavia, se a partire dai Lumière, prende vita uno spettacolo in cui ciò che conta non è più il valore della mediazione dovuta a un palcoscenico o a un pennello ma piuttosto il racconto delle metropoli in cui viviamo, già “L’innaffiatore innaffiato” dei Lumière è il primo germe che poi darà vita alle commedie future raccontate dal cinematografo. E, anche, è un grimaldello utile per demolire la distinzione che vede, schematicamente, nei Lumière i padri del realismo e in Méliès quello del cinema fantastico.

“L’innaffiatore innaffiato” fratelli Lumière (1895)

Nel segno delle origini: George Méliès Nelle mani di Méliès il cinematografo diventa l’equivalente dell’assistente del mago, dando così vita a metamorfosi che sostituiscono sia i trucchi prettamente teatrali - basti pensare ai voli meccanici o alle discese dal cielo - sia i trucchi fotografici - basti pensare al meccanismo della sovrimpressione ottenuto sovrapponendo più immagini in uno stesso quadro in modo da avere come risultato una ulteriore più elaborata immagine -.

Nel segno delle origini: George Méliès Tali ideazioni consentono a Méliès l’invenzione di numerosi giochi di prestigio o di illusione che nulla hanno da invidiare all’esempio più classico di grande magia, ovvero quello della donna che viene segata in due dal mago.

Nel segno delle origini: George Méliès Fare ingrandire o rimpicciolire una testa umana, farla diventare prima enorme e poi di nuovo piccolissima (“L’uomo con la testa di Caucciù”, 1901) non equivale forse a ciò che compie l’illusionista quando taglia a metà il corpo di una bella fanciulla chiusa in una scatola?

Nel segno delle origini: George Méliès A sostituire tale scatola - un parallelepipedo di forma rettangolare, posizionato orizzontalmente e sufficientemente ampio da riuscire a contenere il corpo della persona che vi entra, ma corto al punto da lasciarne fuori la testa e i piedi - ci pensa lo spostamento della cinepresa che mossa avanti o indietro nell’atto della ripresa permette di ingrandire o rimpicciolire la testa in questione che nell’”Uomo dalla testa di caucciù” è quella dello stesso Méliès.

George Méliès “L’uomo dalla testa di caucciù” (1901)

George Méliès “L’uomo dalla testa di caucciù” (1901)

George Méliès “L’uomo dalla testa di caucciù” (1901)

Nel segno delle origini: George Méliès I primi trucchi cinematografici dunque, funzionano come fossero i magici espedienti del prestidigitatore e il loro uso è un ulteriore esempio del connubio che lega fin dalle origini lo schermo alla scena. Infatti, arrestare la ripresa per consentire a oggetti o persone di sparire o apparire dal nulla, utilizzare dei mascherini per unificare spazi diversi o per sdoppiare un personaggio sono tocchi cinematografici che si aggiungono al palcoscenico.

Nel segno delle origini: George Méliès Inoltre, anche nel momento in cui Méliès inizia a realizzare film costituiti da più di una inquadratura, l’uomo di teatro che fin dall’inizio egli era stato non manca di fare capolino dalla pellicola.

Nel segno delle origini: George Méliès Guardando film come “Viaggio sulla luna” (1902), pur l’illusione cinematografica andando al di là del trucco scenico, quando si vedono Seleniti e Terrestri inchinarsi verso il pubblico si assiste a un gesto significativo che mostra come nonostante tutte le innovazioni di cui fu autore, Méliès resti comunque l’uomo di teatro che è sempre stato.

George Méliès “Viaggio sulla luna” (1902)

George Méliès “Viaggio sulla luna” (1902)

I Lumière e Méliès: antitesi reale o fittizia? Certamente Méliès ragiona ancora in termini prettamente teatrali, sia perché i personaggi dei suoi film si relazionano con lo spazio come fossero a teatro - non a caso alla fine di ogni scena rivolgono al pubblico il loro inchino -, sia perché, interessato soprattutto al profilmico, ovvero a quello che viene collocato davanti alla macchina da presa prima di riprendere, questo regista privilegia il lavoro della messa in scena e sembra preferire il teatro al cinema.

I Lumière e Méliès: antitesi reale o fittizia? Lo stretto legame tra palcoscenico e schermo non risparmia nemmeno i fratelli Lumière. Infatti, mandare gli operatori a riprendere con il cinematografo, ma senza pellicola, il passaggio dei borghesi nei luoghi più frequentati delle diverse città non significa forse evidenziare la messa in scena teatrale della vita?

I Lumière e Méliès: antitesi reale o fittizia? Assecondando l’aspirazione dei loro contemporanei ad autorappresentarsi, i Lumière originano un vero e proprio spettacolo perché come sottolinea Sandro Bernardi: “La curiosità e il desiderio di vedersi rappresentati erano molto alti. Vediamo infatti che spesso nel cinematografo Lumière i passanti si mettono effettivamente in posa, come in certi ritratti, o come davanti alle macchine fotografiche”.

I Lumière e Méliès: antitesi reale o fittizia? Se dunque, come scrive Antonio Costa, “ogni film di Méliès deve essere considerato prima di tutto come destinato a sostituire una esperienza di prestidigitazione al Teatro Robert Houdin”, ciò non di meno anche la simulazione teatrale della vita quotidiana messa in scena dai Lumière appare in contrasto con il senso di realtà che spesso si associa alle loro “vedute”.

L’influenza della tragedia greca nel teatro di Shakespeare William Shakespeare, pur considerato un archetipo dai suoi conterranei, richiama l’antica tragedia ellenica e in qualche modo la rifonda, diventando così un interessante termine di paragone per la nostra indagine e consentendoci di mettere in relazione con il cinema due momenti importanti della storia del teatro.

L’influenza della tragedia greca nel teatro di Shakespeare La tragedia greca e il teatro di Shakespeare dunque, atterrando sul suolo fertile del cinema, trovano terreno propizio e così la macchina da presa diventa il mezzo per far sorgere qualcosa di nuovo a partire dal contatto con l’anfiteatro classico, o con il palcoscenico del teatro moderno.

L’influenza della tragedia greca nel teatro di Shakespeare Senza voler mettere in discussione né il pregio del teatro greco né quello di Shakespeare, cercheremo di mostrare come l’incontro tra due generi e sensibilità - ovvero quella degli antichi e del Bardo con quella dei cineasti (nel nostro caso Lubitsch, Welles, Pasolini, Bene e Allen) venga reso proficuo dalla forza di reazione e dalla capacità di resistenza che caratterizza la settima arte.

L’influenza della tragedia greca nel teatro di Shakespeare Attraverso la settima arte, Eschilo, Sofocle, Euripide e il Bardo più famoso d’Inghilterra calano improvvisamente nel quotidiano: da essi scaturisce una generazione di omologhi di celluloide che, pur cercando di eluderlo, continueranno a essere sepolti dal loro tragico destino.

L’influenza della tragedia greca nel teatro di Shakespeare Nelle mani di Lubitsch, Welles, Pasolini, Bene e Allen, il teatro di Eschilo, Sofocle, Euripide e del Bardo si fa specchio: uno specchio che consente di vedere riflesso in queste pellicole non solo il mondo rappresentato su quegli antichi palcoscenici ma anche il nostro.

L’influenza della tragedia greca nel teatro di Shakespeare Le emozioni tragiche della pietà e del terrore appartengono a ogni tempo, ed è dunque attraverso i riflessi di cui pulsano questi film che si possono ben mescolare fra loro i codici spaziali e temporali della scena e quelli dello schermo, per ritrovare così una stupefacente sintonia tra i due linguaggi, che pure restano fenomeni diversissimi.

La macchina da presa come il fool shakespeariano La macchina da presa che non vuole risparmiare il rituale del teatro in favore dello schermo (a volte con sarcasmo altre con crudeltà), viene quasi a fare le veci del fool shakespeariano ovvero quel buffone che, commentatore degli intrighi scenici, non solo partecipa alle azioni ma anche, allo stesso tempo, ne rimane estraneo, e proprio per questo, come la macchina da presa che nel film racconta, è più vicino al pubblico che alla trama.

La macchina da presa come il fool shakespeariano Se con Jan Kott definiamo “buffone colui che pur frequentando la buona società, non ne fa parte e le dice delle impertinenze; colui che mette in dubbio tutto ciò che passa per ovvio”, ecco che gli uomini di Shakespeare o quelli della tragedia classica nel momento in cui sono soggetti alla forza esercitata su di loro dalla cinepresa, mediando tra il divino e l’umano diventano figure comiche.

La macchina da presa come il fool shakespeariano Questo accade perché, non essendo le caratteristiche tipiche degli uomini raccontati dal teatro greco o dal dramma elisabettiano, in nessun caso patrimonio della loro coscienza ma solo del drammaturgo o del regista inventore della situazione e dell’azione, gli eroi del palcoscenico non sanno mai di essere tragici o comici ed è quindi il cinema a svelare loro l’ambivalenza che li caratterizza.

Il personaggio di Jago da Shakespeare al cinema Jago, l’attendente di Otello, cambia di segno a seconda del suo muoversi o, meglio, essere mosso dal teatro piuttosto che dal cinema. Infatti, l’attendente del Moro, sul palcosenico è capace di ingannare tutti ma, nelle mani di Welles, Pasolini e Bene cambia di segno diventando un uomo normale, ordinariamente scontento.

Il personaggio di Jago da Shakespeare al cinema Il cinema sceglie di esibire fin da subito gli effetti delle azioni di Jago, e così facendo sottolinea il suo comportamento come qualcosa di completamente arbitrario, come puro atto di scelta.

Il personaggio di Jago da Shakespeare al cinema Orson Welles apre il suo “Otello” mostrando già nella prima sequenza i due cadaveri del Moro e di Desdemona. Carmelo Bene man mano che la narrazione procede sbianca il volto di Otello per tingere di contro il viso del suo attendente con il nero della colpa. Lo Jago di Pasolini interpretato da Totò, è un burattino dalla faccia verde che, riflettendo sui significati dell’esistenza umana, trasforma l’attendente di Otello in un novello Amleto.

Orson Welles “Otello” (1952): i funerali di Otello

Orson Welles “Otello” (1952): il corteo funebre di Desdemona

Orson Welles “Otello” (1952): Jago in gabbia

Carmelo Bene “Otello” (1979)

Pier Paolo Pasolini “Che cosa sono le nuvole?” (1968)

Il personaggio di Jago da Shakespeare al cinema Pasolini, regalando a Jago la giusta consapevolezza di se stesso, si oppone all’assunto secondo cui, ed è proprio questa la grande tragedia delle tragedie di Shakespeare, i grandi protagonisti creati dal Bardo non imparano mai nulla e così facendo, avvalora la nostra scelta di considerare adattamento shakespeariano anche “Vogliamo vivere!” (1942), di Ernst Lubitsch.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch Infatti, così come Pasolini si è servito di Otello e di Jago, Lubitsch utilizza a sua volta il personaggio di Amleto per cambiare di segno il valore della tragedia di cui quest’ultimo è il protagonista e dirottare la poesia dei suoi monologhi - in particolare il celebre “Essere o non essere” - verso una presa di coscienza che avviene in un travolgente, irresistibile incrocio continuo tra realtà e palcoscenico.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch In “Vogliamo vivere!” di Ernst Lubitsch, due, ossia quella parola che racchiude in sé le unità autonome di cinema e teatro, è la chiave che consente la giusta lettura del film. L’autore tedesco è ben attento al continuo dialogo che viene a instaurarsi tra queste due arti, che traggono l’una dall’altra gli elementi utili al proprio progresso.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch Tuttavia, alla resa dei conti, il cineasta riconoscerà al cinema - utilizzando anche le enormi possibilità offerte dalle combinazioni tra campo e fuori campo - un certo grado di supremazia nei confronti del teatro.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch In “To Be Or Not To Be”, sfruttando i poteri della cinepresa, Lubitsch si rivela un corifeo singolare. Infatti se nella tragedia greca tale figura aveva il compito di esibirsi autonomamente, ribadendo o ampliando quanto detto dai coreuti, il regista tedesco, usando la macchina da presa come il maestro del coro le battute, interloquisce con schermo e scena.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch Si tratta di una interlocuzione che dà vita a uno strappo mediante il quale ognuna delle due unità acquista autonomia e nello stesso tempo dipendenza proprio attraverso il labirinto rappresentato dalla dimensione partecipativa con cui Lubitsch coinvolge queste due arti della rappresentazione.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch Nelle mani di Lubitsch la settima arte reinventa lo spettacolo teatrale in cui la ribalta intersecandosi con il cinema e sbilanciandosi in favore di quest’ultimo, trasforma “Vogliamo vivere!” nel racconto di un palcoscenico che sembra aver “perso la pazienza”.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch Infatti, studiando alcune delle principali variazioni con cui questo film tesse il suo elogio dell’arte cinematografica, ci accorgiamo subito che attuando la transcodificazione del linguaggio del teatro, “Vogliamo vivere!” il più delle volte lo banalizza e lo trasforma senza alcuna soggezione.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch E’ una trasformazione che parte proprio da quel “To Be Or Not To Be” del titolo originale per cui Shakespeare, ricordato con la battuta più famosa di Amleto, diventa l’elemento attraverso il quale il corifeo Lubitsch rifunzionalizza il palcoscenico in favore del cinema.

“Amleto” dal teatro al cinema secondo Lubitsch “Essere o non essere” infatti, è battuta che, diventando intrinsecamente insignificante, risuona comica sia quando la pausa troppo lunga che Joseph Tura nei panni di Amleto si prende prima di iniziare a declamare il famoso monologo, sembra al suggeritore un momento di amnesia, sia quando dà il via libera all’incontro amoroso tra Maria Tura e il suo amante il quale sa di poterla raggiungere in camerino appena sente Amleto pronunciarla.

Lubitsch “To Be Or Not To Be” (1942): il monologo di Amleto

“Otello” dal teatro al cinema secondo Pasolini Come “Vogliamo vivere!” di Lubitsch va in cortocircuito a favore del cinema, così Pasolini in “Che cosa sono le nuvole?” non solo ripensa il ruolo di Jago ma, anche, nel momento in cui un Caronte melodioso trasporta le salme dei burattini in una discarica abusiva all’aria aperta, Pasolini offre loro una rinascita.

“Otello” dal teatro al cinema secondo Pasolini Infatti, condotti nella discarica dei rifiuti sulle parole di una canzone che richiama la storia di “Otello” - ed è la stessa che all’inizio del film aveva accolto la marionetta del Moro appena venuta al mondo -, morti come burattini, Jago e Otello escono dallo spazio del teatro per entrare in quello del mondo e del cinema.

“Otello” dal teatro al cinema secondo Pasolini Otello, riverso tra i rifiuti, vede per la prima volta il cielo, le nuvole, vede la bellezza del reale che lo specchio della finzione teatrale gli teneva nascosta. Non si sa alla fine che cosa siano le nuvole, ed è la macchina da presa a rivelarle nella loro bellezza.

“Otello” dal teatro al cinema secondo Pasolini Essere gettati fuori dal teatro per Jago e Otello significa essere estromessi dalla finzione del palcoscenico a favore di una rinascita che li libera dalla condizione di burattini e li fa tornare a essere, attraverso il cinema, rispettivamente Totò e Ninetto Davoli, dischiudendo per loro il mondo della vita.

Pasolini “Che cosa sono le nuvole Pasolini “Che cosa sono le nuvole?” (1968): Otello e Jago tra i rifiuti

Pasolini “Che cosa sono le nuvole?” (1968): la m.d.p. rivela le nuvole

Allen “La dea dell’amore” (1995) Woody Allen affida “La dea dell’amore” a una struttura che si collega in maniera piuttosto evidente alla tradizione della tragedia classica con tanto di coro e di personaggi che incarnano, attualizzandoli o meno caratteri dell’antichità quali i celebri Cassandra e Tiresia o ancora la figura del deus ex machina.

Allen “La dea dell’amore” (1995): il coro greco

Allen “La dea dell’amore” (1995): Tiresia

L’arte dell’attore sul palcoscenico e in pellicola Usando come esempio il mestiere dell’attore, mostreremo che il teatro e il cinema, se osservati attraverso una lente - rappresentata nel nostro caso appunto dall’interprete - che non voglia dare vita a una guerra intestina tra questi due linguaggi, mettono in realtà in evidenza tra loro dei rapporti sapienti e ironici in grado di tessere insieme, per dirla con Roland Barthes, “Frammenti di un discorso amoroso”.

L’arte dell’attore sul palcoscenico e in pellicola I film che analizzeremo per mettere in relazione l’interprete di teatro con quello cinematografico ci raccontano proprio di attrici che non separandosi mai dal personaggio che interpretano, nemmeno quando sono fuori scena, trasformano il loro ruolo nella sostanza di se stesse e diventano così credibili nonostante le esagerazioni.

L’arte dell’attore sul palcoscenico e in pellicola Sarà allora il ruolo - ovvero la caratterizzazione di ogni singolo personaggio che di volta in volta l’attore o l’attrice interpretano - il segno da cui partire per mettere in prospettiva il rapporto che lega lo schermo alla scena.

L’arte dell’attore sul palcoscenico e in pellicola Eva Harrington in “Eva contro Eva” (1950) di Mankiewitz, nello stesso anno Norma Desmond protagonista di “Viale del tramonto” di Billy Wilder, Fedora nel film omonimo (1978) sempre di Billy Wilder, o le interpretazioni offerte da Michel Piccoli in “Ritorno a casa” (2000) di De Oliveira e in “Habemus papam” (2011) di Moretti, renderanno palpabile il piacere con cui cinema e teatro si specchiano l’uno nella lingua dell’altro.

L’arte dell’attore sul palcoscenico e in pellicola Ognuna di queste due arti, infatti, sfruttando la padronanza dei propri mezzi (la voce e il gesto che caratterizzano gli attori teatrali, i movimenti di macchina con cui il cinema racconta le sue storie) tonifica di riflesso anche l’altra forma di espressione.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto In Eva Harrington riconosciamo lo stesso arrivismo e la stessa frenesia di appagare il desiderio di successo che si leggono negli occhi di Norma Desmond. Le accomuna la fiamma dell’ambizione, la voglia di essere sommerse dalla fama che secondo entrambe le dive è l’unico aspetto davvero importante del mondo dello spettacolo.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto Tuttavia, mentre “Eva contro Eva” intrappola nel teatro il personaggio del ruolo eponimo tessendogli intorno una ragnatela di parole - questo è il modo in cui Mankiewicz esorcizza il cinema -, Wilder nel suo film depista verso il palcoscenico usando la chiave del grottesco.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto Entrambi i film, pur dello stesso anno, dipingono due dive molto diverse. Infatti se osserviamo come Gloria Swanson nei panni di Norma Desmond e Bette Devis in quelli di Margo Channing si relazionano con gli oggetti che le circondano, noteremo immediatamente delle differenze. Per Norma Desmond essi sono semplici elementi della scenografia che non servono mai a fare progredire l’azione. Funzionano così persino i grandi occhiali neri dietro cui la diva si nasconde.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto La Margo Channing di Bette Davis utilizza gli oggetti in continuazione e così, le creme e gli accessori di cui si serve nel suo camerino per il trucco, sembrano quasi erigerle intorno una barriera protettiva.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto Gloria Swanson, naturalmente anche perché attrice del cinema muto, usando gli oggetti sfrutta esclusivamente la mimica del volto e i movimenti del corpo e delle braccia. Così facendo sembra pensare più al palcoscenico che non alla macchina da presa. Bette Davis, invece, usando gli oggetti nella sua interpretazione sembra farlo soprattutto per favorire l’occhio della cinepresa.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto Se dunque Bette Davis pare non potere recitare senza oggetti - è il suo modo di creare una distanza tra sé e il personaggio che interpreta -, Gloria Swanson, al contrario, quando è costretta a utilizzarli tende a trasformarli nel centro verso cui converge l’attenzione di chi sta guardando.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto Billy Wilder fa muovere Norma Desmond pensandola su di un palcoscenico vuoto, in cui a far percepire l’oggetto è soltanto il gioco mimico dell’attrice. Ed è un gioco che, nel momento in cui cade nei cliché ovvero in un codice di recitazione e nella consuetudine, rivela - per esempio nel modo in cui alzando le braccia quasi al cielo esprime la sua disperazione - l’impronta della consumata attrice da palcoscenico.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto La Margo Channing di Bette Davis funziona in modo diverso, quasi al contrario. Infatti l’attrice, pur non manifestando - mai con l’enfasi dei cliché - le diverse espressioni del suo personaggio limitandosi ad accostarle l’una all’altra, permette tuttavia allo spettatore di scorgere la stessa ridda di emozioni che egli rileva nella recitazione della Swanson.

“Eva contro Eva” e “Viale del tramonto” a confronto Si ritrova tuttavia, sia nel modo di essere attrice della protagonista di “Viale del tramonto”, sia nella Margo Channing di Bette Davis per “Eva contro Eva”, la messa in pratica delle regole che sempre sottostanno a ogni buona interpretazione teatrale; ed ecco perché tanto il film di Wilder che quello di Mankiewicz rivelano un corto circuito interessante tra l’arte del cinema e quella del teatro.

“Eva contro Eva” Mankiewicz (1950)

“Eva contro Eva” Mankiewicz (1950)

“Eva contro Eva” Mankiewicz (1950)

“Viale del tramonto” Wilder (1950)

“Viale del tramonto” Wilder (1950)

“Viale del tramonto” Wilder (1950)

“Fedora” Wilder (1978) Appena Barry Detweiler, interpretato da William Holden, afferma che il funerale di Fedora: “Non sembrava un funerale, sembrava una prima”, la storia della grande attrice del cinema raccontata da Wilder viene a porsi sotto il segno del teatro. Infatti Fedora, sfruttando il suicidio della figlia, mette in scena il suo funerale.

“Fedora” Wilder (1978) E’ proprio scegliendo per Fedora un grande rito da palcoscenico che Wilder, opponendosi alla tivù che annuncia il suicidio della sua protagonista, difende con il teatro il suo amore per il cinema classico, un cinema lontano anni luce per esempio da quello di Jean-Luc Godard, che nell’inverno del 1970, facendo inorridere Wilder, si era dichiarato pronto a girare un film senza copione.

“Fedora” Wilder (1978) Fedora trasformando la figlia nella copia di se stessa cambia di segno il desiderio della fama imperitura: costruendo un mostro assai simile alla figura di Frankenstein, compie un peccato mortale che, costringendo Antonia, la figlia di Fedora, a vestire sempre il ruolo della madre, è gravido di conseguenze tragiche.

“Fedora” Wilder (1978) In “Fedora” il valore del travestimento di Antonia è messo in risalto anche dalla scelta registica di farle indossare dei guanti bianchi con cui la giovane deve coprirsi le mani. Infatti, se le operazioni di chirurgia estetica subite al volto le hanno “regalato” l’età della madre, le mani, se mostrate nude e ancora molto giovani, svelerebbero l’inganno.

“Fedora” Wilder (1978) In “Fedora” non compare mai un vero palcoscenico, e tuttavia il segno del teatro non manca infatti Billy Wilder come già in “Viale del tramonto”, considerando il corpo come luogo di una perdita di identità e giocando con l’aspetto della protagonista, tesse anche con questo film un elogio del teatro.

“Fedora” Wilder (1978) E’ un elogio che il regista tesse attraverso il concetto di doppio. Infatti, se in alcuni casi il doppio, la maschera può fungere da protezione, quello che ci mostra questo film è invece un doppio perturbante, che riconosce l’inganno come meccanismo sociale, e proprio per questo spaventa, nasconde, illude, e apre così lo spazio del palcoscenico.

“Fedora” Wilder (1978) “Fedora” richiama il palcoscenico anche quando, lavorando sullo sdoppiamento come chiave di ogni recita, mette in luce come interpretare un personaggio non sia altro che imitare, individuando così nella giovane Antonia una brava attrice che vestendo alla perfezione il ruolo che incarna, ha imparato a eguagliare ogni gesto della vecchia madre ormai sfigurata e costretta su una sedia a rotelle.

“Fedora” Wilder (1978) Il teatro sembra dominare questo film testamento di Wilder. Tuttavia se pensiamo a Fedora che cerca della droga fingendo di acquistare rullini fotografici e a “L’ultimo valzer” - film che la protagonista prima di morire sta girando con Michael York, raccontato da una macchina da presa che si muove attorno al corpo degli attori -, capiamo immediatamente che “Fedora” è anche un film sul cinema.

“Fedora” Wilder (1978) Ed è un cinema che - come ci dice Wim Wenders mostrando la macchina da presa come un occhio spalancato e solitario che riprende casualmente quello che succede durante la sequenza finale di “Lo stato delle cose” girato, solo quattro anni dopo “Fedora”, nel 1982 - deve ricominciare da capo, ovvero deve riconquistare, forse liberandosi del teatro, la verginità dello sguardo.

“Fedora” Wilder (1978): il funerale

“Fedora” Wilder (1978): i guanti bianchi

“Fedora” Wilder (1978): i rullini fotografici diventano sinonimo di droga

“Fedora” Wilder (1978): “L’ultimo valzer”

“Fedora” Wilder (1978): “L’ultimo valzer”

“Lo stato delle cose” Wenders 1982

Tra schermo scena e realtà: l’esempio di Michel Piccoli Michel Piccoli, come mostrano “Ritorno a casa” (2001) di Manoel de Oliveira e “Habemus Papam” (2011) di Nanni Moretti, si muove a proprio agio sia sulla ribalta sia all’interno di un set cinematografico. Si tratta però di un gioco di ruoli che può anche giungere al collasso.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) In “Ritorno a casa” cinema e teatro all’inizio paiono simili: il film si apre con un palcoscenico su cui si recita Ionesco, e, mostrando Piccoli mentre viene truccato per sostenere il ruolo che dovrà interpretare nell’”Ulisse” cinematografico, evidenzia come il camerino del cinema sia simile a quello del teatro.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) Tuttavia così non è. Infatti, il Gilbert Valence di Piccoli - e lo scopriremo pur se la maestria di de Oliveira ci fa vedere l’effetto del suo recitare solo attraverso gli occhi del regista interpretato da Malkovich - è quasi ucciso dalla ripetitività che caratterizza la settima arte.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) Comincia a dimenticare le battute e viene risucchiato in un vortice di vuoti di memoria che creano una tensione quasi palpabile, che cresce man mano e arriva fino al momento in cui, personaggio e attore si sovrappongono nello sguardo smarrito del nipotino del protagonista.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) E’ una sovrapposizione che accade perché Gilbert Valence ritorna a casa ma non uscendo dal ruolo che vestiva sul set, non togliendosi la maschera, ci mostra un uomo improvvisamente annichilito da un dolore insostenibile e fino ad allora tenacemente rimosso.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) Il personaggio che Piccoli dipinge per de Oliveira nel 2001, finché è sul palcoscenico sembra “contenuto” dal ruolo che interpreta e invece quando deve adattarsi alle esigenze tecniche del cinema viene a perdere il suo equilibrio.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) Il Gilbert Valance incarnato da Piccoli in ritorno a casa sembra di segno opposto rispetto al pontefice protagonista di “Habemus Papam”, prelato al quale lo stesso Michel Piccoli ha dato vita nel film di Nanni Moretti uscito nel 2011.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001) Infatti se il protagonista del film di de Oliveira ogni sera esce da se stesso e ottiene così un equilibrio che gli permette d’essere padrone della scena, il cardinale Melville del film di Moretti nel momento in cui si rende conto di non potere più essere contenuto dal proprio ruolo arriva a una inevitabile e drammatica rottura.

“Habemus Papam” Moretti (2011) Fin dall’inizio la chiesa raccontata da Moretti somiglia al teatro: la Cappella Sistina è completamente ricostruita in studio, di San Pietro si vede sempre e solo la facciata, quasi a volere svelare come pura forma una istituzione che sembrerebbe invece intoccabile e a volerla denunciare alla stregua di un’apparenza la cui vocazione, pur nascosta dietro a una ricchezza barocca, sembra ormai fallita e semplicemente messa in scena.

“Habemus Papam” Moretti (2011) Il nuovo papa si sente solo, intrappolato in un mondo astratto per il quale si trova a dover vestire un ruolo da cui in realtà si sente schiacciato. E’ a questo punto che ancora una volta, la tenda del balcone papale rimasto vuoto diventa un sipario strappato dietro il quale l’assurdo prende forma.

“Habemus Papam” Moretti (2011) E’ un assurdo che svela dietro a un vecchio uomo smarrito, agghindato con tutti i broccati e i ricami atti alla sua parte, la realtà di una situazione tanto bizzarra quanto probabile. Infatti, la fallita “vocazione attoriale” di papa Melville ci racconta una Chiesa di cui quest’uomo che Moretti fa vincere in conclave, rivela le maschere.

“Habemus Papam” Moretti (2011) La sincera astensione del “quasi papa” interpretato da Michel Piccoli, che rifiuta l’investitura da parte della scena pubblica, strappa il copione del teatro della realtà, avvelenato com’è dalla competizione, in favore di una recita su di un vero palcoscenico.

“Habemus Papam” Moretti (2011) E’ un palcoscenico dove l’attore non muore in quella inerzia che lo avrebbe definitivamente stroncato se avesse continuato a indossare la maschera di papa e invece ritrova il vero senso della vita nel ripetersi della pièce cechoviana messa in scena dalla compagnia che ha scelto di abbracciare nelle vesti di suggeritore.

“Habemus Papam” Moretti (2011) Passando dal rosso cardinalizio al bianco papale e, da questo, al cappotto scuro con cui gira per le vie di Roma, Michel Piccoli in “Habemus Papam” segna i passi che ci costringono ad arrivare ad assistere allo sventolare di quello che può essere letto come un sipario su di un palcoscenico vuoto.

“Habemus Papam” Moretti (2011) Il palcoscenico è il balcone papale, un balcone nero che sembra racchiudere in sé la stessa insicurezza con cui il corpo attoriale di Piccoli abbandona la scena anche nel film di de Oliveira, questa volta nei panni di Gilbert Valence.

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001): il palcoscenico

“Ritorno a casa” de Oliveira (2001): il camerino del set

“Habemus Papam” Moretti (2011)

Bibliografia G. Almansi “Tra cinema e teatro”, Marsilio, Venezia, 1995. F. Deriu (a cura di), “Lo schermo e la scena” Marsilio, Venezia, 1999. M. Pellanda “Cinema e teatro. Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola”, Carocci, Roma, 2012. S. Pietrini, “Il mondo del teatro nel cinema”, Bulzoni, Roma, 2007.

Filmografia W. Allen, “La dea dell’amore”, 1995. E. Lubitsch “Vogliamo vivere”, 1942. A. Lumière, L. Lumière, “L’innaffiatore annaffiato”, 1895. L. Mankiewicz, “Eva contro Eva”, 1950. G. Méliès, “L’uomo dalla testa di caucciù”, 1901. G. Méliès, “Viaggio sulla luna”, 1902.

Filmografia N. Moretti, “Habemus Papam”, 2011. P.P. Pasolini, “Che cosa sono le nuvole?”, 1968. O. Welles, “Otello”, 1952. W. Wenders, “Lo stato delle cose”, 1982. B. Wilder, “Viale del tramonto”, 1950. B. Wilder, “Fedora”, 1978.