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PubblicatoRosalia Scotti Modificato 8 anni fa
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La memoria – parte seconda Eleonora Bilotta Dipartimento di Scienze dell’Educazione Università della Calabria, Cosenza, Italia bilotta@unical.it Corso on-line di Psicologia Generale
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Che cos’è la memoria? (Continua) Le prove che esiste una forma di conservazione in memoria provengono da quelle ricerche sperimentali nelle quali si osserva che una quantità di materiale appreso viene rievocato in funzione del tempo trascorso dalla lettura del materiale stesso. La ritenzione di questo materiale costituisce ciò che solitamente viene denominata memoria. Infatti se osserviamo quanto viene ricordato ad intervalli fissi di tempo, si può evidenziare il processo di ritenzione e/o conservazione di un evento, percepito anche una sola volta.
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Che cos’è la memoria? Lo studio del ricordo in funzione della variabile tempo ha prodotto una delle più importanti scoperte nel campo di questo settore di ricerca: –la Memoria a Breve Termine o MBT.
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Hebb comincia a studiare la memoria (Continua) Tale idea, che esistano dei magazzini di memoria a lungo e a breve termine, era stata già avanzata da Hebb nel 1948. Si sapeva peraltro che la ritenzione diminuiva con il passare del tempo (curva dell’oblio), ma non si sapeva con esattezza quale fosse l’entità della perdita a tempi molto brevi e molto lunghi. Infatti se si proponeva al soggetto di ricordare del materiale abbastanza lungo subito dopo averlo letto, non si poteva conoscere quanto veniva perso nei secondi che si impiegavano per ripetere, subito dopo la lettura.
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Hebb comincia a studiare la memoria Era necessario quindi trovare un mezzo per misurare il ricordo senza intervalli, subito dopo la lettura. Ma occorreva anche impedire, perché la misura fosse corretta, che il soggetto stesso ricorresse a particolari operazioni automatiche di “fissaggio” del materiale come il rehearsal, che consiste nel ripetere mentalmente quanto si è udito.
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Gli studi di Brown Peterson e Peterson del 1959 (Continua) Brown (1958), Peterson e Peterson (1959) hanno il merito di aver messo in luce l’esistenza della MBT, misurando infatti la quantità di ricordo nelle condizioni in cui è impedito al soggetto il rehearsal. Il primo di questi studiosi sostiene che è necessario riconoscere l’esistenza di un magazzino a breve termine con capacità limitata e soggetto a rapido decadimento, se non interviene il rehearsal.
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Gli studi di Brown Peterson e Peterson del 1959 (Continua) Quando c'è molto materiale da mandare a memoria, sarà molto lungo anche l’intervallo di tempo che separa l’acquisizione dal ricordo, per cui buona parte delle tracce avrà tempo di deteriorarsi definitivamente prima di essere rievocata. Il rehearsal è, secondo Brown, una forma di ricordo che riattiva le tracce oppure provoca una reimpressione ex novo. Brown sostiene ancora che il magazzino della MBT è molto diverso da quello a lungo termine.
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Gli studi di Brown Peterson e Peterson del 1959 Se quest’ultimo è un archivio con enormi capacità, nel quale le informazioni vanno perse a causa di fenomeni di interferenza, la MBT ha una capacità molto limitata e ciò è dovuto soprattuto al fatto che le tracce in questa memoria hanno una velocità di decadimento molto rapida che causa l’oblio. Nessuna perdita di informazione della MBT poteva essere attribuita, secondo Brown, a fenomeni di interferenza.
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Il modello di Waugh e Norman (Continua) Il modello proposto da Waugh e Norman nel 1965 prevede due tipi di archivi: –memoria primaria e memoria secondaria. La memoria primaria è un magazzino di capacità limitate; per cui se gli elementi da ritenere sono troppi, si supera ben presto questa capacità e si è costretti a liberare la memoria dai vecchi elementi, per far continuamente posto a quelli nuovi. Gli elementi espulsi dalla memoria vanno perduti definitivamente.
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Il modello di Waugh e Norman L’oblio può essere contrastato se interviene il rehearsal perché tale operazione blocca l’immissione di nuovi elementi informativi. Gli elementi ripetuti rimangono nella memoria primaria fino a che dura il rehearsal. Durante tale fase di fissazione, le informazioni passano nella memoria secondaria. Non esiste di fatto un confine temporale preciso tra i due tipi di memoria.
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La teoria dell’informazione influenza gli studi sulla memoria (Continua) La teoria dell’informazione, all’inizio degli anni ‘50, influenzò notevolmente gli studi sulla memoria. Secondo tale teoria, ogni stimolo che colpisce i nostri organi di senso non è altro che un complesso di informazioni. Queste informazioni sono più efficaci e quantitativamente superiori, quanto più ampio è il campione di stimoli da cui proviene lo stimolo in oggetto. Infatti attraverso studi sperimentali si scoprì che il cervello risponde alla quantità di informazione: –maggiore è il numero di informazioni, maggiore è lo sforzo che viene fatto per riconoscere o ricordare lo stimolo.
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La teoria dell’informazione influenza gli studi sulla memoria Ovviamente tale capacità di desumere informazioni da complesse stimolazioni non può che essere definita. Oltre una certa quantità limite, il cervello non ha più la possibilità di filtrare le informazioni e quindi diminuisce la sua capacità di elaborazione. Se per esempio volessimo fare un piccolo esperimento, potremmo far ascoltare dei suoni ad un soggetto, chiedendogli di associare ad ogni suono un numero. Il soggetto ha appreso correttamente il compito quando di mostra di saper riconoscere esattamente ogni suono, chiamandolo col numero giusto.
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La quantità di informazione che possiamo ritenere può essere calcolata in bit (Continua) Con due suoni, il compito diventa più complicato, con quattro la complessità aumenta, ma l’apprendimento può ancora essere positivo; fino ad arrivare a sei suoni che, per via degli errori e della confusione che ingenerano nel soggetto sperimentale, può ritenersi la soglia massima della capacità di elaborazione. Tale quota, che corrisponde a 2,5 bit o unità di informazione, è ovviamente soggetta ad estrema variabilità, a seconda degli stimoli e a seconda dei soggetti.
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La quantità di informazione che possiamo ritenere può essere calcolata in bit (Continua) Che il cervello sia capace di elaborare ben più che 2,5 bit di informazione lo scopriamo se si considera, per esempio, il riconoscimento delle voci. I meccanismi che entrano in gioco sono gli stessi del riconoscimento dei suoni. Ma in questo compito il nostro cervello dimostra una abilità, una precisione e una prontezza che sono inspiegabili rispetto ai limiti della soglia di elaborazione dei suoni.
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La quantità di informazione che possiamo ritenere può essere calcolata in bit Siamo infatti capaci di distinguere una voce fra decine di altre voci che abbiamo in memoria. Ma i suoni variano solo in altezza, mentre le voci possiedono altre caratteristiche connotative, fra cui il timbro, l’altezza, il ritmo. Quando stimoli come questi si differenziano in più particolari aumenta la nostra capacità di discriminazione: –in poche parole sono gli stimoli stessi a rendersi più facilmente riconoscibili.
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Sistemi di memoria
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Il riconoscimento delle facce (Continua) Anche per il riconoscimento delle facce vale lo stesso discorso dei suoni. Se la nostra capacità di elaborazione si limitasse solo a 2,5 bit di informazione, potremmo riconoscere solo un numero molto limitato di facce. Al contrario siamo capaci di riconoscere un enorme numero di fisionomie e questo fenomeno, secondo Miller (1956) è estremamente adattativo anche se, in un mondo in continua fluttuazione, sarebbe stato meglio avere poca informazione su una grande varietà di cose, piuttosto che avere molta informazione su un piccolo pezzetto d’ambiente.
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Il riconoscimento delle facce Sempre secondo Miller il nostro cervello è capace di oltrepassare il limite costituito dalla capacità di elaborare solo 2,5 bit di informazione riorganizzando le informazioni in entrata. Se cerchiamo di ricordare le seguenti lettere P-A-O-L-O-M-A-R-I-A-L-I-S-A ad una ad una, dopo un primo tentativo potremmo ricordarne solo 5 o 6. Ma non avremo difficoltà una volta che noi le riconoscessimo come nomi di persona. Esiste quindi una capacità limitata della nostra memoria. Tale capacità però può essere migliorata notevolmente attraverso una ricodificazione delle lettere sotto forma di parole.
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Sistemi di memoria
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L’approccio odierno: i sistemi di memoria (Continua) Un sistema di memoria è una struttura in grado di conservare l’informazione nel tempo. Nella vita di ogni giorno, sii può ricorrere alla memoria interna del soggetto o ad un tipo di memoria esterna. Benché la Psicologia Cognitiva si interessi quasi esclusivamente dei sistemi di memoria interna dell’uomo, si può dire che i termini “codifica”, “ritenzione” e “recupero” siano usati per descrivere tre aspetti fondamentali dei sistemi di memoria.
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L’approccio odierno: i sistemi di memoria Il termine codificasi riferisce al modo in cui l’informazione, al suo arrivo, viene immagazzinata in un determinato sistema. Il termine ritenzione si riferisce al modo in cui l’informazione viene conservata in un sistema nel corso del tempo Il termine recupero si riferisce al modo in cui l’informazione viene estratta dal sistema. Si usa il concetto di perdita di informazione per riferirsi a ciò che accade quando qualcosa accade con il processo di immagazzinamento e di conservazione dell’informazione.
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Zone cerebrali coinvolte nei processi di memoria
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La soglia limite: il magico numero sette, più o meno due (Continua) Questo fenomeno ci può anche informare rispetto a quanto riusciremo a superare la capacità limite: –se a questo punto utilizziamo le parole come items dell’esperimento, anche qui, dopo una prima lettura non riusciremo a ricordarne che 5 o 6. Ma se, ancora una volta, possiamo fare una ri- codificazione significativa, formando per esempio delle frasi, il limite sarà di nuovo superato.
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La soglia limite: il magico numero sette, più o meno due (Continua) Noi abbiamo quindi la possibilità di raggruppare gli items in unità particolari che Miller chiama chunks. La ri-codificazione per chunks ha una importanza eccezionale nei processi di memoria. Se poi si pensa che tale procedimento si serve soprattutto della ri-codificazione verbale, si può concludere che l’influenza di tale fenomeno si estende a tutte le attività cognitive, dal riconoscimento alla soluzione dei problemi.
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La soglia limite: il magico numero sette, più o meno due Gli studi di Miller e di altri hanno importanza in quanto hanno dimostrato che l’organismo non risponde tanto a uno stimolo singolo definito spazio- temporalmente, quanto allo stimolo in comparazione con l’insieme di altri stimoli di cui fa parte. In poche parole si potrebbe dire che quando riconosciamo qualcosa lo riferiamo a ciò che ci è noto circa il suo insieme di appartenenza. In questo senso la percezione è strettamente legata alla memoria in quanto è solo nella memoria che si trova la chiave interpretativa dello stimolo.
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I registri sensoriali (Continua) Un tipo particolare di memoria sono i cosiddetti registri sensoriali, che hanno la funzione di trattenere per pochissimo tempo, in forma non elaborata, quello che percepiamo. Nonostante vengano chiamate memoria, sono in realtà forme di persistenza dello stimolo, prima che venga analizzato. Furono Sperling (1960, Averbach e Corriell (1961) i primi a ipotizzare l'esistenza di registri sensoriali visivi.
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I registri sensoriali Le ricerche di Sperling avevano l’esigenza di spiegare perché solo una certa quantità di items memorizzati in precedenza poteva essere rievocata. Questa quantità, che attualmente viene chiamata span di memoria immediata, è una porzione piuttosto piccola del materiale appreso e non dipende da fattori quali: –la presentazione del materiale, il tempo di acquisizione, ecc. L’autore ipotizzò che quello che percepiamo delle lettere dell’alfabeto, per esempio, può essere conservato per brevissimo tempo.
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Il modello di Sperling del 1967 (Continua) Se in questo intervallo tutto il materiale non viene per così dire materializzato, scritto su un foglio o tradotto in parole, va irrimediabilmente perduto. Per cui lo span di memoria immediata non è altro che il massimo di informazione recuperabile dal registro sensoriale prima che inizi il processo di decadimento. Nel modello che segue, desunto da Sperling (1967) sono previsti dei meccanismi di esplorazione della memoria iconica (Magazzino dell’Informazione Visiva o MIV ), delle operazioni di rehearsal e un magazzino uditivo (MIU).
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Il modello di Sperling del 1967 Tra le operazioni di esplorazione o scansione e rehearsal interviene la memoria cuscinetto che ha la funzione di conservare le informazioni raccolte dalla memoria iconica sotto forma di istruzioni motorie. In questo modo il cuscinetto immagazzina le immagini e fornisce al meccanismo di ripetizione le informazioni necessarie perché questo le traduca in suoni. Qualora ciò non sia necessario, essi vengono conservati nel magazzino uditivo. Questo a sua volta può venire esplorato perché abbia luogo una nuova ripetizione sub-vocalica.
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Rappresentazione schematica del modello di Sperling
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I principali tratti della memoria
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Spiegazione dello schema (Continua) Dallo schema si può estrapolare il fatto che l’informazione, prima di essere comunicata attraverso parole o scrittura, viene tradotta in suoni e mantenuta attraverso il rehearsal in un magazzino di memoria uditiva. I processi che sono rappresentati graficamente prima della memoria uditiva, sono stati inseriti da Sperling per spiegare in che modo l’informazione sensoriale viene tradotta in suoni. Il processo di rehearsal in questo caso è troppo lento per eseguire una lettura rapida delle lettere nella memoria sensoriale.
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Spiegazione dello schema Ogni lettera infatti può essere ripetuta mentalmente al massimo in un terzo di secondo, per cui non è possibile leggerle tutte prima che scompaiano dal registro sensoriale. E’ necessario a questo punto inserire una memoria intermedia, la memoria cuscinetto, per raccogliere le informazioni sensoriali velocemente prima che svaniscano e per mantenerle a disposizione per un eventuale operazione di rehearsal. Uno dei problemi che ha interessato questo studioso riguarda la natura delle informazioni che sono depositate nel registro sensoriale visivo (o memoria iconica secondo Neisser).
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Esperimenti di Sperling (Continua) Sperling fece numerosi esperimenti attraverso i quali capì che nella memoria iconica è depositato qualcosa di molto simile allo stimolo, cioè viene conservato del materiale visivo con tutti i suoi elementi di specificità. Per esempio, in questo tipo di memoria la “a” (Palatino, Macintosh) e diversa dalla “a” (Chigago, Macintosh) perché i due simboli non sono riconosciuti come esempi della stessa classe “A”, non sono cioè categorizzati. Altri esperimenti confermarono a Sperling che le informazioni iconiche hanno carattere visivo.
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Esperimenti di Sperling Due immagini fatte vedere per brevissimo tempo e in stretta successione si confondono e, secondo alcuni studiosi, questo è dovuto ad una sovrapposizione materiale nei registri visivi che genera la confusione. Altri esperimenti mostrano che le icone, proprio per le loro caratteristiche di immagini, hanno la proprietà di integrarsi: –se illuminiamo un disco rotante, su cui sia stato disegnato un raggio bianco con dei flash rapidissimi, possiamo vedere un ventaglio di raggi bianchi ruotare. Questo succede perché l’immagine del disco in una posizione si somma, nella memoria iconica, con l’immagine dello stesso disco leggermente ruotato.
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L’ipotesi di von Wright (Continua) Anche von Wright (1968) ipotizzò che le icone siano materiale non categorizzato. Egli utilizzò la stessa procedura di Sperling con la sola differenza che, insieme alle lettere (consonanti) c’erano anche dei numeri. Il soggetto doveva rispondere a due segnali, uno per le consonanti e uno per i numeri. Le percentuali di ricordo esatto dimostravano che il compito era molto più difficile di quello utilizzato negli esperimenti da Sperling.
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L’ipotesi di von Wright Da ciò von Wright concluse che nella memoria iconica non può essere fatta una discriminazione in base al criterio di appartenenza categoriale (riconsocere lettere o numeri), perché il materiale non è stato ancora riconosciuto. Oltre ad un magazzino sensoriale preposto alla conservazione delle immagini, esiste anche un altro registro dotato delle stesse caratteristiche, che ha la funzione di conservare per brevissimo tempo i suoni (memoria ecoica). Dagli esperimenti effettuati risultò comunque che la memoria ecoica ha una durata maggiore di quella iconica.
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Il cognitivismo e i modelli di memoria (Continua) Una nuova interpretazione e la creazione di un modello comportamentale antiassociazionista (la teoria che vede il comportamento come una sequenza di stimoli cui seguono risposte condizionate) passa anche attraverso la definizione di un nuovo tipo di organizzazione cognitiva, e quindi anche attraverso un nuovo modello di acquisizione di dati e di memoria. Miller, Galanter e Pibram, nel 1960 pubblicano il libro “Piani e struttura del comportamento”, considerato generalmente il manifesto della psicologia cognitivista.
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Il cognitivismo e i modelli di memoria In tale opera, attraverso l’utilizzo di strumenti concettuali, desunti dagli studi di simulazione di comportamenti biologici su calcolatore, si sostiene che il comportamento, o come dicono, “tutte le correlazioni fra stimolo e risposta devono essere mediate da una rappresentazione organizzata dell’ambiente che è costituita da un sistema di concetti e relazioni entro cui l’organismo si colloca” (Miller et alt, 1960). Già alcune ipotesi precise sull’importanza della rappresentazione interna si trovano negli scritti dei gestaltisti, fra cui Koehler, e in Tolman, anche se non viene mai chiarito il modo in cui l’azione viene diretta da questa organizzazione cognitiva.
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Gli schemi di comportamento (Continua) I cognitivisti, infatti, individuano il fatto che esiste una organizzazione del comportamento, configurazione che è importante sia per il comportamento che per la percezione. Le configurazioni che riguardano il comportamento, però, tendono ad essere preminentemente temporali. Quello che i cognitivisti vogliono fornire è il mezzo attraverso il quale elaborare una mappa della rappresentazione cognitiva dell'appropriato schema di attività. Individuare uno schema alla base del comportamento non è facile in quanto non si riesce a definire le unità minimali ultime del comportamento.
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Gli schemi di comportamento In ogni comportamento possiamo individuare unità specifiche e altre più generali. “Uscire di casa” è una unità che può essere ricondotta a unità di comportamento più generali (“Fare un viaggio”) o più specifiche (“Aprire la porta”). A sua volta, ognuna di queste unità ha delle sottounità. Se si eseguono tutte le possibili scomposizioni si arriva ad un comportamento ridottto a un complesso di unità organizzate gerarchicamente, a seconda della loro complessità.
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Come si legano gli schemi con la memoria? (Continua) Tutto questo discorso, come si lega con la successione delle azioni guidata da un’organizzazione cognitiva? I cognitivisti suppongono che in questo complesso di schemi non siano contenute solo delle nozioni, ma anche delle istruzioni sul modo in cui vanno eseguite le azioni. All’origine di ogni comportamento ci sarebbe un piano di cui il comportamento è la realizzazione. “Un piano è ogni processo gerarchico nell’organismo che può controllare l'ordine in cui deve essere eseguita una sequenza di operazioni” (Miller et alt, 1960).
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Come si legano gli schemi con la memoria? In questa accezione il piano non è altro che un programma completo di operazioni, che fissa la successione di quelle più generali così come di quelle più specifiche. Secondo questi studiosi, ogni comportamento è scomponibile in unità più semplici, per cui, se vengono eseguite tutte le possibili scomposizioni, si avrà lo stesso comportamento, ridotto alla sua forma essenziale, cioé un complesso di unità organizzate gerarchicamente a seconda della loro complessità.
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Tecniche di memorizzazione attraverso la distintività contestuale
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Il piano come raccordo fra la rappresentazione della conoscenza, l’immagine mentale e l’azione (Continua) Inoltre è necessario, perché l’analisi sia efficace, che sia attuata a tutti i livelli gerarchici simultaneamente, altrimenti andrebbero perse le proprietà configurative del comportamento stesso. L’esecuzione di un piano può anche non essere una azione vera e propria (lettura silenziosa), ma anche operazioni di raccolta e trasformazione di informazione, cioè tutte le attività cognitive in generale. Miller e gli altri definiscono il piano come il sistema di raccordo fra la rappresentazione della nostra conoscenza, l’immagine mentale, e l’azione.
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Il piano come raccordo fra la rappresentazione della conoscenza, l’immagine mentale e l’azione Tra immagine e piano non c'è una distinzione precisa in quanto un piano, una volta acquisito, viene a far parte dell’immagine; a sua volta la conoscenza deve essere incorporata in un piano generale altrimenti non avrebbe la possibilità di condizionare il comportamento. La realizzazione e la creazione di un piano avviene sempre attraverso operazioni di confronto fra due elementi: –l’unità di analisi non è più il riflesso perché non esistono risposte automatiche, bensì risposte controllate. Parlando di controllo i cognitivisti si riferiscono sempre ad un confronto fra la situazione percepita e la situazione rappresentata.
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Le verifiche del comportamento (Continua) Per esempio se noi chiamiamo per nome una persona a noi familiare, lo stimolo, cioè la persona, deve essere confrontato con una qualche immagine che di costei possediamo e, nel caso in cui questo test risulti positivo, allo stesso stimolo si attribuirà la conferma che il nome corrisponde alla persona fisica che conosciamo. Se il risultato del confronto fra stimolo/persona fisica è negativo, cioè non riconosciamo la persona, riesamineremo più in dettaglio lo stimolo per procedere a verifiche più accurate dei nostri ricordi.
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Fine della seconda parte La prossima lezione riguarderà la terza parte della memoria
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