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PubblicatoGuido Marconi Modificato 8 anni fa
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Andrea Viviani Stefano Telve
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Andrea Viviani
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L’imperativo è il modo verbale che esprime: (a) il comando (impĕrĭum, in latino): torna indietro; (b) il monito: pensa bene prima di agire; (c) la preghiera: dacci oggi il nostro pane quotidiano.
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Ha un tempo (il presente) e due persone (la seconda singolare e la seconda plurale): mangia con calma, mangiate con calma. Nei verbi della seconda e della terza coniugazione queste sono identiche alle rispettive persone del presente indicativo: bevi/bevete, corri/correte; nella prima coniugazione invece la coincidenza si ha al plurale (mangiate ) ma non al singolare (dove l’imperativo di seconda persona collima con la terza dell’indicativo: mangia).
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Le forme imperativali sono rese riconoscibili, nel discorso, dal contesto e soprattutto dal tono imperioso; di qui l’uso grafico di fare seguire all’imperativo il punto esclamativo: scappa!, corri!
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Non hanno imperativo i verbi modali potere, dovere e volere.
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Gli ausiliari essere e avere presentano per la seconda singolare forme dedicate ed esclusive: rispettivamente, sii (sii forte) e abbi (abbi fede); per la seconda plurale, invece, hanno le normali forme del congiuntivo presente siate e abbiate.
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Alcune forme di imperativo sono cristallizzate: dai è un intercalare di esortazione o di incoraggiamento che si rivolge a una persona a cui si dà del tu, pur se al Nord lo si adopera anche con persone con cui si usano altri allocutivi; ma va’ è una formula di incredulità o di allontanamento; to’, monosillabo con cui si porge qualcosa a qualcuno (anche ironicamente: prenditi questo cazzotto, to’) non è che quel che resta dell’imperativo togli «prendi»; in alcune zone d’Italia al suo posto si usa tiè, anche questo imperativo tronco di tenere. Il diffuso insulto vaffanculo contiene, univerbato col resto, l’imperativo va’.
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Gli imperativi di seconda persona dei verbi fare, andare, stare, e dare sono convenzionalmente trascritti come fa’, va’, sta’ e da’. Occorre evitare quindi, di usare con queste parole l’accento (come spesso accade), dato che il segno grafico necessario è l’apostrofo, che è traccia di una elisione. Per tutti i verbi menzionati, sono però ammesse anche le forme sane fai, vai, stai e dai.
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L’imperativo condivide con l’infinito (e con il gerundio e il participio passato) la posizione dei pronomi clitici, che devono, come nelle altre forme finite del verbo, obbligatoriamente seguire (diventando parole enclitiche) e non precedere la forma verbale: parlami, andatevene, facendolo, presolo.
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Le possibilità di rendere comando, monito e preghiera non si esauriscono nelle forme del modo imperativo; il recupero, per es., della terza persona singolare e plurale avviene attraverso l’impiego del congiuntivo presente, detto a questo scopo esortativo. Si hanno quindi forme come taccia ed entrino che non solo allargano ad altri interlocutori il raggio delle possibilità, ma che sollevano anche dall’imbarazzo del tu quando si impieghi l’imperativo tout court: queste forme, nei fatti, costituiscono il lei e il voi, rispettivamente, di taci ed entrate.
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Possono anche darsi forme di comando dilazionato nel tempo: è il caso della valenza iussiva che può assumere sia l’indicativo presente (adesso ti siedi e mi stai a sentire, invece di adesso siediti e stammi a sentire), sia l’indicativo futuro in frasi come la seguente: farete come vi dico io.
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Persino i verbi modali possono essere recuperati in una valenza ‘imperativa’ grazie all’impiego di forme ‘impersonali’ – che, evitando di esplicitare il destinatario, pure attenuano il tono del comando o del monito: non si mangia a bocca aperta, qui non si fuma – oppure di perifrasi – che trasferiscono su altri elementi lessicali il compito di veicolare comandi e moniti: è bene che …, non è opportuno che …, è preferibile …, si eviti di ….
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In sostanza, l’imperativo propriamente detto (anche nelle sue forme indirette: zitto!/-i!, buona!/-e!, ecc. sono forme ellittiche di un predicato costituito da sta’(i)/state + aggettivo) non va mai, per ragioni di cortesia e di mitigazione, impiegato fuori dai contesti in cui è tollerabile per confidenza del rapporto: tra partner, familiari e conoscenti stretti, oppure necessario: in caso di imminente pericolo e situazioni similari.
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Non è un caso che anche l’infinito possa essere impiegato al posto dell’imperativo (o della sua versione più ‘formale’, il congiuntivo esortativo) quando si voglia scegliere, in un contesto di moderata informalità, una sorta di via intermedia anche rispetto al freddo tono degli impersonali; è la prassi, ad es., dei ricettari di cucina che ad aggiungi/aggiungete o si aggiunga più volentieri preferiscono l’infinito: aggiungere un pizzico di sale. L’infinito con questo valore è molto usato anche in cartelli o in comandi militari: spingere, tirare, serrare le file, ecc.
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Stefano Telve
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L’imperativo con negazione si esprime, in italiano moderno (a differenza che in altre lingue romanze), con due forme diverse per persona: per la seconda persona singolare, si esprime con un infinito preceduto dalla negazione non e eventualmente seguito da una particella di intensificazione (non fare questo; non bere questo acido); per la seconda persona plurale, invece, la forma è uguale a quella dell’imperativo affermativo (non fate questo).
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Per entrambe le persone, il comando negativo si esprime col futuro, nel qual caso ha un particolare tono di sorpresa o di perentorietà: non vorrete partire con questa neve!, non vorrai mica picchiarmi!, non avrai altro Dio fuori che me. Nell’imperativo negativo il pronome clitico è, nella tradizione letteraria, perlopiù proclitico, sia con l’imperativo (per la seconda persona plurale: non lo fate), sia con l’infinito iussivo (che supplisce l’imperativo per la seconda persona: non lo fare).
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Anticamente era possibile anche l’imperativo, non temi, che Vittorio Alfieri usava ma per il quale veniva tuttavia contestato da Ranieri de’ Calzabigi: cfr. Sorella 1993: 780, e Mauroni 2006: 251).
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È tuttavia frequente, specie dall’Ottocento in avanti, anche il tipo con pronome enclitico (non fatelo, non farlo), osteggiato dai puristi ottocenteschi ma presente, sia pure in misura minoritaria rispetto alla soluzione proclitica, in alcuni romanzi coevi (ad es., in quelli di Francesco Domenico Guerrazzi: Mauroni 2006: 248- 252). I due tipi sono del tutto intercambiabili nell’uso odierno.
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