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Marco Tullio Cicerone Un homo novus al potere
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Un autore nodale Cicerone fu uno dei protagonisti indiscussi della sua epoca, e resta, per l’importanza e l’entità della sua opera, un maestro di humanitas e un caposaldo per la riflessione etica e culturale del mondo occidentale. Attraverso la sua mediazione, infatti, la complessa cultura greca fu definitivamente assimilata dal mondo romano. Attraverso la sua opera, nei secoli successivi, questa sintesi venne reinterpretata dai Padri della Chiesa, passò al Medioevo latino e, attraverso la mediazione di Petrarca e la riflessione dell’Umanesimo, costituì una base imprescindibile per lo sviluppo della civiltà rinascimentale e della modernità.
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Le vicende della sua vita sono inscindibilmente legate all’epoca storica in cui visse, il I sec. a.C.: fu uomo politico di spicco (nonostante l’origine italica, da homo novus intraprese il cursus honorum e ricoprì il consolato), fu insignito di riconoscimenti straordinari dal Senato per avere sventato la congiura di Catilina, ebbe incarichi di governo nelle province, fu principe del foro, fu amico e nemico dei grandi del suo tempo, Cesare e Pompeo prima, Antonio e Ottaviano poi.
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Opere Scrisse moltissimo e si dedicò a svariati generi letterari:
orazioni; opere retoriche; scritti di filosofia; epistolario; opere poetiche.
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La vita Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino, una cittadina volsca che ebbe alla fine del IV secolo la cittadinanza romana. La famiglia, appartenente all’ordine equestre, si era trasferita a Roma quando Marco era ancora giovane; insieme al fratello Quinto, egli fu istruito da maestri greci, e dal celebre oratore Lucio Crasso. Si dedicò poi allo studio del diritto e della filosofia, frequentando soprattutto le lezioni dell’accademico Filone di Larissa, che si era rifugiato a Roma nell’88. Intraprese la carriera forense durante la dittatura di Silla, mostrando una notevole autonomia e intraprendenza assumendo, nella sua prima causa pubblica, le difese di Roscio Amerino contro Chrisogono, un potente liberto di Silla: siamo nell’80.
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Il 79 L’anno successivo, forse per sfuggire alle ritorsioni sillane, il giovane partì per completare la propria educazione in Grecia. Ad Atene conobbe Tito Pomponio Attico: della loro amicizia, che durerà per tutta la vita, è testimonianza un ricco epistolario. A Rodi segue le lezioni del maestro di retorica Apollonio Molone.
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L’inizio del cursus honorum
Al ritorno a Roma intraprese la carriera politica, e venne eletto questore nel 75, in Sicilia. In ricordo della sua moderazione i Siciliani nel 70 lo scelsero come patrono nella loro causa contro Verre, governatore nella provincia dal 73 al 71, accusato di malversazione e corruzione, e patrocinato da Ortensio, allora principe del foro. La causa fu vinta brillantemente, e Cicerone diventò in breve il più famoso avvocato di Roma.
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Il patronato giudiziario
Una legge impediva che le prestazioni forensi fossero ricompensate in denaro: il vantaggio era costituito dalla tessitura di una serie di relazioni di amicitia, cioè di legami di riconoscenza e di clientela che, stanti le strettissime relazioni, sia politiche che familiari, della nobilitas, aveva un raggio molto ampio. Dunque, è attraverso la sua attività di patrocinio nelle cause giudiziarie che Cicerone costruì i rapporti e ottenne gli appoggi che gli consentirono di approdare al consolato nel 63 e di dominare successivamente la scena politica
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Il 63: ascesa e declino di Cicerone
Ottenuto il consolato, egli riuscì a sventare una congiura ordita da un giovane nobile, Lucio Sergio Catilina. La sconfitta di Catilina procurò a Cicerone fama e onori, fra cui il titolo di pater patriae. Ma nel 58 egli incorse nella vendetta della parte popolare: il tribuno Clodio riuscì a fare approvare una legge che esiliava chi avesse fatto condannare a morte cittadini romani senza l’appello al popolo. La legge, con valore retroattivo, era stata concepita per liberarsi di Cicerone, che aveva fatto eseguire la condanna a morte dei congiurati rimasti in città senza concedere lo ius provocationis . Ancor prima dell’approvazione della legge, Cicerone partì per l’Epiro, in esilio. I suoi beni vennero confiscati e messi all’asta, la sua casa distrutta.
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L’anno successivo (il 57) Pompeo riuscì a fare approvare ai comizi il ritorno dell’esule, che venne richiamato a Roma e reintegrato nei suoi diritti. Dopo il ritorno dall’esilio, Cicerone prosegue la sua attività politica (nel 51 è proconsole in Cilicia). Al suo ritorno, alla fine del 50, la situazione a Roma è dominata dal conflitto fra Cesare e Pompeo: Cicerone era convinto, nonostante inclinasse verso Pompeo, di potere svolgere anche in questo caso una funzione di conciliazione, per evitare la guerra civile: “E quanto a quello che dici: “che cosa succederà, quando si dirà: ‘di’ la tua opinione, Marco Tullio’?. Risponderò brevemente: ‘sono dalla parte di Pompeo’. Tuttavia, in privato, esorterò Pompeo alla concordia” (Ad Att. 7, 3, 2-3).
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La nuova politica sta per travolgere Cicerone
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Come noto, all’arrivo di Cesare dalla Gallia, Pompeo fuggì da Roma; Cicerone si ritirò a Formia, mantenendo in un primo tempo una indecisa neutralità. Dopo vari tentennamenti, testimoniati da lettere piene di angoscia, decise di raggiungere Pompeo in Epiro nell’estate del 49. Lì continuarono le sue insicurezze e si pentì del passo compiuto. Dopo la sconfitta di Farsalo, battaglia cui non partecipò perché si trovava malato a Durazzo, tornò a Roma (è il 48) e si affidò alla clemenza di Cesare, che lo perdonò e lo reintegrò nell’ordo senatorio.
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Ma non c’era più spazio, nella Roma cesariana, per un intervento politico, e Cicerone si ritirò nell’otium letterario, dedicandosi esclusivamente allo studio e alla scrittura, sperando così, attraverso la sua opera intellettuale, di giovare alla comunità. Restava tuttavia l’angoscia per il tramonto di un mondo nella cui ricostruzione aveva sperato. Scrive in questo periodo al fratello Quinto (3, 5, 4): “Farei quel che posso, ma, cosa che non ti sfugge affatto, anche per dedicarsi alla poesia ci vuole una certa forza d’animo, che queste circostanze mi hanno strappato completamente. (...) Sono angosciato, fratello mio carissimo, angosciato perché non esiste più uno stato”.
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Alla morte di Cesare, nel 44, Cicerone credette alla possibilità di un ritorno all’attività politica: fu uno dei fautori dell’ascesa del giovane Ottaviano e si batté disperatamente contro Antonio.ù Tra il settembre del 44 e l’aprile del 43 pronuncia contro di lui quattordici orazioni, che, per la forza che ricorda Demostene, vennero chiamate Filippiche. Ma al costituirsi del secondo triumvirato, il suo nome venne inserito nelle liste di proscrizione: Plutarco racconta che per tre giorni Ottaviano tentò di convincere Antonio a perdonare Cicerone, ma che alla fine cedette, in seguito a un crudele patteggiamento
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“Cesare (Ottaviano) doveva sacrificare Cicerone, Lepido il fratello Paolo e Antonio Lucio Cesare, suo zio materno. Così si allontanarono dai sentimenti umani, spinti dal furore e dalla furia, e ancor più mostrarono come nessun animale sia più bestiale dell’uomo, se alla passione si unisce il potere” (Vita di Cicerone, 46, 5-6).
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Morte di Cicerone – Livio (in Seneca il Vecchio, Suas. 7. 17)
“Marco Cicerone all’arrivo dei tribuni si era allontanato dalla città, sapendo per certo, cosa che (in effetti) era (vera), che non si poteva sottrarre ad Antonio più di quanto Cassio e Bruto si potessero (sottrarre) a Cesare. In un primo tempo era fuggito nella villa di Tusculo; di là, per vie traverse, parte per la villa di Formia, con l’intenzione di imbarcarsi da Gaeta. E dopo che, preso il largo di là parecchie volte, ora i venti contrari lo avevano riportato indietro, ora non poteva egli stesso sopportare il rollìo della nave in balia del mare agitato, lo prese infine il tedio della fuga e della vita, e ritornato alla villa precedente, che dista dal mare poco più di mille passi (= un miglio), disse: "Morirò nella patria spesso salvata (da me)". È noto che i suoi servi erano pronti a combattere coraggiosamente e fedelmente; (ma) egli ordinò di deporre la lettiga e di sopportare tranquilli ciò a cui l’iniqua sorte lo costringeva. A lui che si sporgeva dalla lettiga e che offriva il collo immobile fu tagliata la testa. Né (questo) fu abbastanza per la stolta crudeltà dei soldati; gli tagliarono anche le mani, rimproverando(le) di aver scritto qualcosa contro Antonio. Così il capo (fu) portato ad Antonio e per suo ordine (fu) posto sui rostri fra le due mani.
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