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Commedie e tragedie tra II e I secolo a. C.
Ipertesto della prof.ssa M. G. Desogus
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La commedia Cecilio Stazio (? – 168 o 166 a. C.)
Terenzio (circa 185 – 159 a. C.)
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Cecilio Stazio Sappiamo che è nato nell’Italia settentrionale, forse a Mediolanum, ossia a Milano. Abbiamo circa 300 frammenti delle sue opere. Sappiamo ben poco di lui, ma aveva una buona fama e qualche critico lo poneva in cima ai comici latini. Anche lui amava le sententiae e ne abbiamo conservato varie.
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Sententiae di Cecilio Stazio
«Vivas ut possis, quando nec quis ut velis» («Vivi come puoi, dal momento che non puoi vivere come vorresti»). «Homo homini deus est, si suum officium sciat». («Un uomo è come un dio per l’altro uomo, se sa qual è il suo dovere»). Pensiamo a persone come il Mahatma Gandhi o a Nelson Mandela, uomici che sono stati più che eroi per i loro popoli…
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Terenzio Nasce a Cartagine nel 185 a. C. (secondo alcuni studiosi forse 10 anni prima). Fu schiavo di Terenzio Lucano, che lo liberò per la sua intelligenza e per la sua bellezza. Morì giovane, nel 159 a. C., prima ancora di compiere 25 anni, durante un viaggio in Grecia. Sarebbe morto perché disperato avendo perduto un bagaglio con le sue nuove commedie.
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Terenzio e gli Scipioni
Era amico degli Scipioni, come altri intellettuali (di qui il mito letterario del «circolo scipionico»). Fu accusato di fingere di scrivere opere letterarie che in realtà sarebbero state composte dagli Scipioni. Terenzio non controbatté più di tanto, probabilmente per fare un favore ai suoi amici Scipioni, che potevano così apparire come valenti letterati.
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Le commedie di Terenzio
Si conservano 6 commedie: Andria («La ragazza di Andro»); Hecyra («La suocera»); Heuautontimorumenos («Il punitore di se stesso»); Eunuchus («L’eunuco»); Phormio («Formione»); Adelphoe («I fratelli»).
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Adelphoe («I Fratelli»)
E’ una commedia particolarmente interessante perché propone due personaggi che rappresentano due modelli educativi opposti: da un lato Demea, che è un padre all’antica, severo e burbero; dall’altro Micione, padre più moderno, comprensivo fino a divenire permissivo. Fa riflettere su i pro e i contro di entrambi i modelli educativi.
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La crisi della commedia
Dopo Terenzio, i Romani si dedicarono sempre meno alla commedia. Secondo gli studiosi, il motivo è il fatto che si era esaurito il repertorio delle commedie greche a cui si erano ispirati Plauto, Cecilio Stazio e Terenzio. Per questo i romani provarono nuovi generi: la commedia togata, il mimo e l’atellana letteraria.
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La commedia togata I Romani tentarono di creare nuove storie e le espressero nella commedia togata, quella di ambientazione romana. Tuttavia queste storie non piacquero molto al pubblico e perciò questo genere non si sviluppò. Al contrario piacque molto il mimo.
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Il mimo Era uno spettacolo simile al moderno varietà, con artisti e attori che si esibivano in vario modo. Si potrebbe paragonare a programmi come Colorado Café e a Zelig. Vi recitavano anche le donne, che però erano ritenute di bassissima classe sociale ed equiparate a prostitute. Infatti spesso il pubblico chiedeva la «nudatio» delle mime, ossia «uno spogliarello». In tempi come quelli ciò era ritenuto accettabile, poiché erano considerate comunque come delle cortigiane.
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La tragedia Pacuvio Accio
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Pacuvio Era nipote di Ennio (figlio di una sua sorella).
Nacque a Brindisi intorno al 220 a. C. e morì a Taranto intorno al 130 a. C. Fu sia scrittore che pittore. Compose perlopiù tragedie cothurnatae, ma abbiamo notizia anche di una praetexta.
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Pacuvio (2) Restano 400 frammenti delle sue opere.
Amava il pathos delle scene più drammatiche, fino al punto di esasperarlo. Scrisse anche sententiae; tra esse ricordiamo: «patria est ubicumque est bene». «la patria si trova dovunque si stia bene».
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Accio Visse dal 170 all’85 a. C. Usava molto l’allitterazione e i neologismi (talvolta alquanto artificiosi).
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La crisi della tragedia
Dopo Accio le tragedie furono sempre meno apprezzate dai Romani. Si cominciò a fare esecuzioni «concertistiche», ossia con le scene più interessanti di varie opere. Inoltre si puntò sulla grandiosità delle scenografie. In verità i Romani preferivano i giochi gladiatori e le gare ippiche, oltre ad altre competizioni che trovavano divertenti.
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