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Deterrenza e difesa nell’era nucleare

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Presentazione sul tema: "Deterrenza e difesa nell’era nucleare"— Transcript della presentazione:

1 Deterrenza e difesa nell’era nucleare
Raymond Aron (Pace e guerra tra le nazioni, 1983) evidenzia quattro aspetti importanti della strategia di deterrenza: La deterrenza è al contempo di carattere offensivo e difensivo, convertendo una tattica offensiva (rappresaglia) in una strategia difensiva; “La dissuasione dipende tanto dai mezzi materiali di cui dispone lo stato che vuol fermarne un altro, quanto dalla risolutezza che lo stato oggetto di dissuasione attribuisce allo stato che lo minaccia di una sanzione”; È importante che il potenziale attaccante possieda la certezza (o almeno un considerevole dubbio) che le minacce del dissuasore saranno realmente attuate in caso di necessità; Da questo punto, segue l’importanza della percezione dell’avversario, nella considerazione di quanto le potenziali azioni di deterrenza vengono considerate sufficienti a dissuadere.

2 Le relazioni tra stati sono state e sono caratterizzate da un rapporto di deterrenza: l’avversario è dissuaso dall’attaccare perché teme la risposta dello stato attaccato, la quale può concretarsi in una sconfitta per l’attaccante o in un’azione punitiva (rappresaglia) i cui costi per l’attaccante risulterebbero superiori ai benefici derivanti dall’attacco. La tipologia classica della deterrenza si basa su tre fattori posti in alternativa: Deterrenza per negazione all’avversario di benefici (timore della sconfitta); Deterrenza attraverso l’imposizione all’avversario di costi eccedenti i benefici (timore della rappresaglia). Tale aspetto riguarda sia le circostanze nel corso della guerra, sia quelle esterne alla guerra stessa; Deterrenza in relazione agli attori: diretta, quando riguarda i due soggetti coinvolti; indiretta o estesa, quando la minaccia dissuasiva di rappresaglia implica la presenza di stati terzi, dei quali lo stato dissuasore deve in qualche modo garantire la protezione (“ombrello nucleare”).

3 Secondo Aron, si possono delineare tre modelli di funzionamento della strategia di deterrenza
Modello dell’impunità dell’aggressore: lo stato attaccato non è stato in grado d parare il colpo né di rispondere in modo adeguato. La deterrenza non ha funzionato e l’aggressore rimane impunito e vittorioso; Modello dell’equivalenza del delitto e del castigo: lo stato che ha subito l’attacco è in grado di lanciare una rappresaglia di entità almeno pari a quella dei danni subiti (MAD, Mutual Assured Destruction). La minaccia contenuta nel rapporto di deterrenza è stata attuata. Modello intermedio: la minaccia è attuata, ma i danni inflitti all’aggressore sono minori di quelli subiti dallo stato aggredito.

4 L’entità delle conseguenze ipotizzabili con l’avvento delle armi atomiche, al di fuori di ogni ragionevolezza, e il possesso di ingenti arsenali nucleari da parte delle due superpotenze, rende di fatto poco credibile se non impossibile l’idea stessa di una tale forma di deterrenza. Da qui il paradosso: può veramente essere credibile una minaccia basata su qualcosa di virtualmente impossibile? Intorno a questo interrogativo si sviluppò il dibattito strategico a partire dagli anni Cinquanta, tanto più a seguito della crisi di Berlino del 1948 e della guerra di Corea del 1950, nel corso delle quali il non-uso della bomba fece emergere con chiarezza il problema della credibilità del suo utilizzo come strumento di rappresaglia e la difficoltà di estendere la copertura offerta dalla deterrenza oltre i confini nazionali. Tale dibattito vide emergere sostanzialmente due teorie prevalenti: quella del warfighting (basata su un costante incremento dei propri mezzi di deterrenza al fine di garantirsi la vittoria finale) e quella del conflitto stabile (basata su una reciproca accettazione delle condizioni di partenza, che non contemplano vincitori in un conflitto nucleare)

5 La teoria del warfighting
I teorici del warfighting partivano dalla constatazione che le armi nucleari erano ormai divenute mezzi affidabili di rappresaglia e che, di conseguenza, una strategia basata sulla minaccia del loro utilizzo era tecnicamente possibile, trasferendo così il problema dal piano tecnico a quello della credibilità, della risolutezza. Di fronte ad un avversario ritenuto aggressivo e poco affidabile come l’URSS, l’unico modo per dimostrarsi risoluti era quello di mantenere la superiorità militare e di preparare la vittoria in caso di conflitto. Strategia della “rappresaglia massiccia” (amministrazione Eisenhower, 1953, segr. di stato John Foster Dulles): basata sulla maggiore capacità nucleare USA Si ponevano tuttavia due problemi: quello dei conflitti limitati e della possibilità di difesa. Il primo relativo alla evidente impossibilità di rispondere in misura “illimitata” con uno scontro totale ad un’azione offensiva limitata; il problema della difesa evidenziava la necessità di strumenti difensivi tali da garantire da un eventuale primo colpo nucleare in modo da rassicurare anche gli alleati sulla reale volontà di usare armi nucleari in circostanze diverse da un attacco diretto contro il territorio americano.

6 La teoria del warfighting
B. Liddell Hart: “Oserebbe un governo responsabile fare uso della bomba H come risposta ad un’aggressione locale limitata?... Nella misura in cui la bomba H riduce la verosimiglianza di una guerra totale, accresce le possibilità di una guerra limitata promossa attraverso un’aggressione locale massiccia”. William Kaufmann: “ Se raccogliessimo la sfida sovietica, piomberemmo nell’orrore incommensurabile di una guerra atomica. Se non reagissimo, però, patiremmo una grave perdita di prestigio e diminuiremmo la nostra capacità di costituire un deterrente contro un’ulteriore espansione del comunismo. Problema 1: come definire gli obiettivi limitati per i quali sarebbe valsa la pena di rischiare un allargamento del conflitto? Problema 2: l’uso di mezzi limitati (armi nucleari tattiche) avrebbe generato una inevitabile escalation (Kissinger, guerra limitata: l’unico modo per mantenere un conflitto limitato è l’uso di armi convenzionali, in grado di evitare perdite non giustificabili e pericoli di escalation).

7 La teoria del conflitto stabile
Alle problematiche definite dal warfighting i fautori del conflitto stabile sommano l’enorme e intollerabile capacità distruttiva delle armi nucleari. Di fronte a tali evidenze, il valore del possesso di armi nucleari consiste nella capacità di garantire la rappresaglia attraverso un secondo colpo e non nel rendere possibili strategie basate sulla credibilità della minaccia di un primo colpo. Scopo della strategia non è la vittoria, ma lo stallo, raggiunto attraverso il reciproco riconoscimento della capacità di esercitare la deterrenza nei confronti dell’avversario (teoria dei giochi: “gioco del pollo”) Le armi nucleari non devono essere giudicate secondo il criterio militare dell’operatività, ma secondo quello politico della stabilità Tale approccio determina la possibilità di una seria politica di controllo degli armamenti e il raggiungimento di accordi su livelli stabili dei mezzi di deterrenza.

8 McNamara, la risposta flessibile e la MAD
Tipica dell’opera di McNamara (segretario alla difesa dal 1961 al 1968 sotto amministrazioni Kenmnedy e Johnson) fu la ricerca di una molteplicità di opzioni strategiche che permettessero di evitare, durante una crisi, scelte obbligate e non credibili. Non si trattava di stabilire come una guerra dovesse essere combattuta, quanto piuttosto di essere pronti a combattere diversi tipi di guerra, a partire naturalmente dai conflitti convenzionali. Passaggio dalla rappresaglia massiccia alla risposta flessibile (riscontrabile anche nel build-up militare nucleare e convenzionale: più armi e di tipo diverso = più opzioni disponibili) Si tratta di stabilire una vasta gamma di opzioni militari che vanno dalla risposta convenzionale ad uno scambio nucleare counterforce lontano dalle grandi città, tale dunque da limitare i danni nel corso di una guerra nucleare, rendendo quindi credibile una risposta diversamente ritenuta troppo devastante per essere tollerata.

9 McNamara, la risposta flessibile e la MAD
La gestione della questione dei missili di Cuba, in cui la minaccia di ritorsione fu tenuta ai massimi livelli fino a determinare la “resa” sovietica, portò all’evoluzione del pensiero strategico nella cosiddetta MAD (Mutual Assured Destruction) derivante dal concetto di “rappresaglia massiccia” attraverso la garanzia di una reciproca capacità di infliggere danni inaccettabili al proprio avversario anche dopo aver subito un primo colpo a sorpresa. Il raggiungimento di un’analoga capacità da parte sovietica diventava la migliore garanzia reciproca di una stabilità internazionale. Attraverso la MAD si riconosceva che le forze offensive di per sé non avevano alcuna speranza di eliminare le forze offensive dell’avversario. Paradossalmente il fattore difensivo ne usciva fortemente penalizzato. Infatti “la possibilità che una delle superpotenze sviluppi un’efficacia difesa antimissile ... finirebbe per annullare la forza deterrente dell’avversario, esponendo quest’ultimo ad un primo attacco contro cui non sarebbe in grado di reagire” (York e Wiesner 1984)

10 Missili antibalistici contro MAD
Un punto di debolezza della MAD era costituito dall’assenza di indicazioni sull’uso delle forze strategiche da utilizzare nell’eventualità che la deterrenza fallisse il suo scopo. In questo senso lo sviluppo da parte dell’URSS di ABM (missili antibalistici) determinò la messa in discussione della MAD. Che senso aveva ancora parlare di possibile riposta a fronte di un sistema di missili anti missile in grado di arginare o arrestare ogni risposta? Da qui il rinnovato impegno verso nuove armi offensive come i vettori a testata multipla indipendente (MIRV), in grado di moltiplicare il numero degli ordigni che la difesa avrebbe dovuto arrestare. Il perfezionamento degli ABM sovietici, oltre ai progressi della tecnologia radar, determinò a sua volta la corsa agli armamenti di difesa da parte USA, riaprendo la sfida (interna e internazionale) tra attacco e difesa .

11 Azione-reazione e “folle precipitazione”
McNamara: “Quali che siano le loro o le nostre intenzioni, le azioni – o addirittura le azioni potenziali – che ciascuno dei due intraprende nello sviluppo delle forze nucleari scatenano necessariamente una reazione da parte dell’altro”. “Se noi schierassimo un potente sistenma ABM negli Stati Uniti, è chiaro che i Sovietici sarebbero fortemente motivati ad aumentare la propria capacità offensiva in misura tale da cancellare il nostro vantaggio difensivo”. La”folle precipitazione”, avrebbe spinto la corsa agli armamenti verso livelli sempre più pericolosi, portando ad una proliferazione degli arsenali e ad un continuo miglioramento della precisione delle testate. A partire dal 1967 il totale dei missili americani se era mantenuto costante al livello di 1.750, ma dieci anni dopo gli stessi missili potevano trasportare oltre testate, con eguale evoluzione da parte sovietica.

12 Il concetto di escalation
Il termine viene usato per indicare una trasformazione qualitativa del carattere di un conflitto verso una crescita in ampiezza e intensità. Esiste ora un accordo generale sul fatto che esso si riferisce a qualcosa di più del semplice allargamento di un conflitto ed implica piuttosto il superamento di un limite accettato in precedenza da entrambe le parti. Un limite del genere è, ad esempio, quello tra obiettivi militari e civili, tra l’attacco al territorio degli alleati e quello delle stesse superpotenze e tra l’uso di armi convenzionali e nucleari. Herman Khan identificava 44 gradini di una “scala dell’escalation”, nella quale le armi nucleari iniziavano ad essere utilizzate al quindicesimo, sebbene la soglia nucleare non si considerasse superata veramente fino al ventiduesimo. I responsabili politici potevano esercitare il proprio controllo lungo tutto il percorso verso il finale apocalittico di una spam war (guerra spasmodica o insensata).

13 Il concetto di escalation
Il dibattito sulla strategia nucleare si è incentrato sulla possibilità per uno dei due avversari di controllare il conflitto nucleare in modo da non dover soffrire un livello di danni inaccettabile, raggiungendo però i propri obiettivi strategici Alla fine emersero due approcci fondamentali al problema dell’escalation: Tentare di prevalere in un conflitto dominando a qualsiasi livello ed attribuendo all’avversario l’onere del passaggio ad un livello più alto e pericoloso; Sfruttare le incertezze inerenti al processo dell’ escalation a fini di deterrenza, avvertendo l’altra parte che la situazione poteva finire fuori controllo

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