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La bellezza come dono divino
Nella poesia greca delle origini, la bellezza è considerata un valore assoluto, spesso legato alle azioni degli eroi, i quali sono ricoperti da un manto di alone divino che li rende splendenti agli occhi umani.
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Origine del mito della bellezza
Durante il periodo arcaico i poeti-cantori, ispirati dagli dei, raccontano la verità attraverso il mito. Le parole del poeta sono ritenute belle poiché vere, in quanto le Muse donano ai loro messaggeri la capacità di guardare oltre l’apparenza sensibile per scorgere la verità originaria.
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con i simboli del suo sapere.
Nella mitologia classica le Muse erano delle bellissime giovinette, figlie di Mneemosine, la personificazione della memoria e di Zeus, il padre di tutti gli dei. Ognuna delle sorelle possedeva una forma specifica del pensiero ed era raffigurata con i simboli del suo sapere. Callìope, la prima di tutte in dignità, era la musa della poesia epica e recava uno stilo e una tavoletta ricoperta di cera. Clio era l’ispiratrice della storia ed era rappresentata con un rotolo di carta in mano. Eràto, la musa della poesia d’amore, aveva il capo incoronato di rose e mirto. Euterpe, protrettrice della poesia e della musica, aveva come simbolo della sua arte il flauto. Melpòmene, che presiedeva alla tragedia, era raffigurata con la maschera tragica, i costumi ed un pugnale insanguinato in mano. Talìa, che era invece la musa della poesia pastorale e della commedia, recava la maschera comica e una corona di edera sul capo. Polinnia presiedeva alla geometria, all’oratoria e alla facoltà di imparare ed ispirava gli inni in onore degli dei e degli eroi. Tersicore, la musa della danza, aveva ghirlande di fiori sul capo e la lira in mano. Urania, infine, era la patrona dell’astronomia e recava come strumenti delle sue conoscenze il compasso ed il mappamondo.
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Kalós kái agathós – letteralmente bello e buono sono i caratteri della bellezza secondo la concezione greca arcaica. Bellezza, forza, onore e coraggio sono i tratti fondamentali dell’eroe omerico donati dalla divinità: il valore del corpo, la prestanza fisica sono uniti alla lealtà, alla virtù, in quanto l’estetica manifesta l’etica.
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L’identità tra bellezza e virtù permane nella glorificazione del nudo caratterizzante la produzione greca del V secolo a.C.: Nel Discobolo di Mirone ( 455 a.C. ca), ad esempio, è esaltato l’ideale della bellezza del corpo nudo dalle proporzioni armoniche. Mirone scolpisce un corpo d’atleta in movimento nel momento culminante dell'azione: la torsione del corpo è vigorosa e, allo stesso tempo, armoniosa e delicata, mentre il volto esprime quella pacatezza, priva di turbamento, data dalla concentrazione. L’ideale estetico classico è strettamente legato al mito di Apollo, dio del sole e della luce, protettore dell’arte poetica e profetica. La bellezza – quale sole che illumina – trasfigura colui che ne viene investito; il bello è un valore che si irradia nello spazio e nel tempo, travolgendo le coscienze di coloro che sanno riconoscerlo.
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BELLEZZA E FORZA NEI POEMI OMERICI
Nei poemi omerici, come l’Iliade, la bellezza è strettamente legata alla forza, vera protagonista del poema: il casus belli risiede nell’atto di forza di Paride che rapisce Elena e nella sua irresistibile bellezza. Elena, la più bella tra le mortali, è il dono offerto a Paride da Afrodite e così Elena non potrà resistere alle parole della dea: “Vieni; Alessandro ti invita a tornare a casa; egli è nel talamo, sul letto rotondo, luminoso di bellezza nelle sue splendide vesti; non diresti che da un duello ritorni, ma che vada ad una festa o, da una festa tornato, riposi” (Omero, Iliade, III, vv ). Chi incontra la bellezza non può separarsene, così in Omero la divinità è bellezza e nella bellezza l’uomo riconosce, rispetta e obbedisce alla Divinità.
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Nel periodo classico la filosofia greca giunge a una nuova teorizzazione del bello come solo in parte riconducibile ai sensi e alla corporeità: la vista continua a garantire la percezione del bello sensibile al quale viene contrapposto quello intelligibile, oggetto esclusivo degli occhi della mente.
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“Si narra che il filosofo-mago-scienziato (Pitagora)
avesse scoperto per caso il fondo numerologico, matematico dell'armonia musicale. Passando davanti all'officina di un fabbro, egli sarebbe rimasto colpito dal modo in cui i martelli dell'artigiano, battendo il ferro sull'incudine, riuscivano a produrre echi perfettamente in accordo tra loro. E soprattutto fu sorpreso della corrispondenza tra rapporti numerici semplici e consonanze sonore” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII, I).
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PITAGORA E LA MUSICA I pitagorici vedono nel numero il principio primo fondante la realtà, l’ordine e l’armonia del cosmo. L’intuizione avuta viene sperimentata da Pitagora attraverso la costruzione di un monocordo, uno strumento formato da una lunga cassa di risonanza nella quale è tesa una corda. Sotto la corda, e sopra una scala a intervalli determinati, scorre un ponticello mobile che, secondo il grado della scala nel quale è posto, divide la corda così da ottenerne il suono desiderato. Questo strumento permise a Pitagora di comprendere come l'altezza di una nota sia proporzionale alla lunghezza della corda che la produce, e che gli intervalli fra le frequenze sonore diventano espressione di rapporti numerici. Ponendo la stanghetta esattamente al centro della corda, Pitagora ricava la prima unità di misura nell’ottava (1:2), probabilmente, infatti, risale proprio a lui il concetto di divisione dell'ottava.
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Il termine stesso armonia, dal greco harmonίa, significa ‘accordo’, il che accentua il concetto di ordine numericamente esprimibile. Il bello, dunque, consiste nell’ordine matematico in grado di esprimere la simmetria visiva del cosmo nell’armonica unità composta da elementi contrari.
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Armonie dell’universo.
I pitagorici dedicano ampio spazio allo studio dell’armonia musicale poiché gli accordi musicali esprimono nel modo più evidente la natura dell’armonia universale e sono quindi assunti come modello di tutte le Armonie dell’universo.
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Pitagora afferma, inoltre, come la tensione delle corde imita la tensione dell’anima, sostenendo lo stretto legame tra musica e animo umano. La scala diatonica costruita secondo l'intonazione pitagorica, è formata da sette delle dodici note che compongono la scala cromatica, secondo la precisa successione di sette intervalli: cinque toni due Semitoni. La scala cromatica è una scala musicale composta da tutti e dodici i semitoni del sistema temperato, in cui il semitono è considerato l'intervallo minimo tra due note.
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IL BELLO E IL VERO IN PLATONE
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Platone articola le prime riflessioni sul bello legandolo all’armonia e all’ordine, subendo l’influenza del razionalismo pitagorico. Sulla scia della concezione pitagorica, Platone farà coincidere l’idea del Bene in sé con il Vero e con il Bello al vertice di una dimensione immutabile e perfetta oltre il mondo sensibile: in un mondo, appunto, ideale. La bellezza esistente nel mondo è copia della bellezza ideale, in grado di accendere il desiderio di intraprendere quel percorso che possa ricondurre l’uomo alla verità e al sommo bene. Attraverso l’eros, il desiderio che la bellezza sensibile accende, l’anima dell’uomo comprende come la bellezza non possa essere legata alla molteplicità sensibile particolare, ma è qualcosa che accomuna tutte le cose belle trascendendone la natura. Il desiderio di bellezza, l’amore spinge l’ascesa dell’uomo verso la sapienza autentica.
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La bellezza è una sollecitazione, l’unica che in qualche modo si vede, che permette di saldare il sensibile con l’intelligibile, in quanto il Bene come idea suprema si mostra come Bello nei rapporti sensibili di proporzione, ordine e armonia a vari livelli.
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EROS E BELLEZZA In Platone il concetto di eros è connesso all'antico aristocratico ideale pedagogico della kalokagathìa , tutto ciò che è bello-kalòs è anche vero e buono-agathòs, e viceversa. Dalla bellezza di un corpo si risale a quella di tutti i corpi e da qui alla bellezza delle anime e al Bello in sé, al vero bene assoluto. La bellezza dei corpi, infatti, fa sì che Eros faccia desiderare agli uomini di vincere la morte attraverso la generazione o la purificazione dalle cose terrene. In questo senso, l'anima cerca di fuggire il più possibile dal corpo, e perciò il vero filosofo desidera la morte e la vera filosofia è esercizio di morte. Il paradosso descritto nel Fedone ribadisce come la morte sia un episodio che riguarda unicamente il corpo; essa non solo non danneggia l'anima, ma le arreca grande beneficio, permettendole di vivere una vita più vera, una vita tutta raccolta in se medesima e interamente congiunta con l'intellegibile.
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