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PubblicatoFilumena Pinto Modificato 10 anni fa
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Ki Thetzè Nella Parashà viene istituito il dovere di ricordare la punizione di Miryàm per la sua maldicenza nei confronti di Moshè. La frase Ricorda quanto fece il Signore tuo D.o a Miryàm per strada nel vostro uscire dallEgitto ricalca, con alcune differenze, quanto verrà poi detto alla fine della Parashà: Ricorda quanto fece a te Amalèq per strada nel vostro uscire dallEgitto. Sia le somiglianze, sia le differenze, sono certamente significative. Innanzitutto, sappiamo quanto il proditorio attacco di Amalèq fosse potenzialmente distruttivo. È quindi chiaro che luso di una terminologia simile sta ad indicare come la maldicenza possa essere altrettanto distruttiva quanto un attacco in armi o il minare i fondamenti stessi dellesistenza (come indica il Midràsh nella Parashà di Be-shallàch). Ma lespressione … quanto fece il Signore tuo D.o non è meno significativa. A prima vista poteva bastare uno solo degli appellativi di Ha-Qadòsh Barùkh Hu. Perché la Torà li porta ambedue? E perché viene sottolineato il possessivo tuo, quando – trattandosi di Miryàm – avremmo potuto benissimo avere il possessivo suo, o più facilmente, nessun possessivo? Come sappiamo, ciò che noi generalmente traduciamo con il Signore corrisponde al Nome ineffabile di D.o, quello tetragrammato, che indica la caratteristica della misericordia divina, mentre laltro termine indica la severità divina. Cè chi ha spiegato che questo ci insegna che anche le persone che godono della benevolenza e della misericordia divina per le loro altissime virtù possono, se si sviliscono con la maldicenza, trasformare la misericordia in severa giustizia. È certamente vero, ma credo sia anche evidente un altro messaggio: la punizione (perché di punizione si tratta) può essere non solo un segno di severità, ma anche di misericordia, in quanto fa espiare colpe che altrimenti rimarrebbero legate alla persona, impedendole – forse – laccesso al mondo a venire. Infine, il fatto che si sottolinei – nella punizione di Miryàm – il possessivo tuo D.o sta ad indicare che la maldicenza da lei operata influisce su ogni persona, come abbiamo già visto nellinsegnamento dei Maestri: la maldicenza colpisce chi la fa, chi ne è oggetto e chi potrebbe ascoltarla. Rav Elia Richetti Regola 4 A.E se si è trasgredito e detto lashòn harà sul prossimo, e si vuole fare teshuvà, dipende dalla situazione:se gli astanti hanno respinto le sue rivelazioni, e (perciò)la loro stima della persona in questione è rimasta immutata in seguito a questa in questo caso non rimane che il peccato commesso verso D.o, cioè di aver contravvenuto al volere di D.o che ha comandato questo (precetto), come abbiamo indicato nellintroduzione – la riparazione consiste nel pentirsi di quel che si è fatto in passato, nellammettere la propria colpa, e nel decidere definitivamente di non farlo più in futuro, come si fa per tutti i peccati verso D.o. ma se la stima di quel tale è diminuita presso gli astanti via di questa (lashòn harà), e come risultato ne ha sofferto un danno fisico, economico o morale, allora diventa come tutti gli altri peccati verso il prossimo, che perfino Kippùr e la morte non (bastano a) espiare finchè non si è ottenuto il perdono da parte del prossimo; perciò bisogna chiedere perdono al prossimo per questa (lashòn harà), e quando laltro si sarà convinto a perdonarlo, non resterà altro che il peccato verso D.o e (allora) si comporterà secondo quanto esposto sopra. E perfino quando colui di cui si è sparlato non ne sa ancora nulla, bisogna rivelargli il torto che gli si è recato e chidergli perdono per questo, perché si è consapevoli di esserne la causa. E da questo possiamo capire quanto si debba stare attenti a questo vrutto vizio, perché è quasi impossibile per chi ci si abitua, che D.o ce ne liberi, fare teshuvà, perché non potrà certamente ricordarsi di tutte le persone che ha afflitto con la sua maleicenza. E pure ruguardo a quelle persone di cui ricorda di aver sparlato, esse non lo hanno mai saputo, e quindi vi vergognerà a rivelarlo alle loro orecchie. E a volte si sparla di un difetto di una famiglia, danneggiando in questo modo tutte le generazioni successive, e non si potrà ottenere il perdono per questo, come hanno detto i nostri Maestri Chi racconta un difetto di una famiglia non potrà mai espiare (questa colpa). Perciò bisogna allontanrsi molto da questo vizio orrendo. Per non finire in seguito, che D.o ce ne guardi, come Ciò che è storto non si può raddrizzare. (Ecclesiaste 1,15) (Liberamente tratto da Le leggi della maldicenza del Chafètz Chaìm, 2007)
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settimanale no. 224 A cura dellUfficio Rabbinico di Venezia La Parashà della settimana: Ki Tetzè Acc. lumi ore: 19.38 Uscita ore:20.40 AVVENIMENTI DELLA SETTIMANA 9 Elùl 5769 29 Agosto 2009 Rav Moshè Provenzal (Provenzalo) Nato nel 1503 e morto nel 1575, era chiamato anche Mosè da Rosa, probabilmente perché nato a Rosa, nel vicentino. Fu uno dei maggiori talmudisti del Rinascimento. Per decenni Rabbino della Comunità italiana di Mantova, era interpellato da Rabbini di ogni dove per la soluzione di problemi halakhici. A seguito della Controriforma, diversi colleghi lo osteggiarono per le sue posizioni aperte. Formulò una speciale Havdalà per luscita di Shabbàth coincidente con la sera di Moèd. Linnovazione suscitò le ire di Meìr Katzenellenbogen di Padova e di Moshè Basilea, al punto che venne allontanato dal suo incarico, ma successivamente essi revocarono il loro bando. In un altro caso, quando volle invalidare il divorzio di Samuele Venturozzo perché a suo dire forzato, si trovò ad incorrere nella censura di vari colleghi italiani, e si rivolse al duca Guglielmo, con laiuto di Leone Sommo, per poter essere ascoltato da un Tribunale Rabbinico imparziale. Tuttavia nel 1566, per ordine dei Rabbini di Venezia supportati dai Rabbini di Grecia e di Turchia e da Moshè Trani, fu escluso dal suo ministero per tre anni. Invece molti Rabbini di Safed, fra i quali Yosèf Caro, lo sostennero. Perciò continuò a reggere la Comunità di Mantova fino alla morte. Nel 1560 gli fu rivolto il quesito se fosse lecito giocare a pallacorda (tennis) di Shabbàth, ed egli rispose positivamente, a condizione che non ci fossero scommesse, si giocasse solo con le mani (senza racchetta) e non in orario delle Tefillòth. La sua approvazione alla pubblicazione dello Zòhar (Mantova, 1558-60) dimostra che egli, a differenza di molti contemporanei italiani, era favorevole alla diffusione della Qabbalà. Scrisse il Beùr Inyàn Shenè Qawwìm (una dissertazione sul teorema di Apollonio sulle parallele che non sincontrano mai, pubblicato in calce alledizione di Sabbioneta del 1553 della Guida del Maimonide), Élle Ha-Devarìm e Beùr Zè Yatzà Rishonà sul divorzio Venturozzo – Tamari, Hassgòth al Meòr Enàyim (glosse allopera di Azaryà DeRossi pubblicate nelledizione di Mantova del 1573), Be-Shèm Qadmòn (Venezia 1596, un compendio poetico delle regole grammaticali), più vari responsi, commenti a vari trattati del Talmud ed alla Guida dei Perplessi solo in parte editi. בס"ד תורת היום
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