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LIBERA UNIVERSITA’ POPOLARE – REGGIO EMILIA Il governo locale fra crisi e austerità Carlo Baccetti – Università di Firenze 20 gennaio 2014 La politica.

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1 LIBERA UNIVERSITA’ POPOLARE – REGGIO EMILIA Il governo locale fra crisi e austerità Carlo Baccetti – Università di Firenze 20 gennaio 2014 La politica locale fra decentramento, ricentralizzazione e ruolo delle Autonomie locali

2 La politica locale nella trasformazione del sistema politico italiano Anni Settanta: nuovo impulso agli studi sulle politiche pubbliche locali. Motivo: Trasformazione politica e sociale dell’Italia; esplosione dei movimenti collettivi di protesta Reazione dei Comuni: - istituzionalizzazione degli ambiti di partecipazione democratica (consigli di quartiere ecc.) - rivendicazione di maggiori competenze e autonomia - “invenzione” di nuovi servizi e nuove politiche (es.: medicina sociale, politiche per la cultura…)

3 Territorio e politica: la svolta degli anni Novanta La politica locale ha acquistato una nuova centralità da quando il richiamo al TERRITORIO è tornato ad essere un contenuto forte dell’IDENTITA’ POLITICA e il LOCALISMO è stato assunto come base ideologica per l’organizzazione di nuove formazioni politiche. Importanza non solo fattuale ma anche normativa e simbolica del territorio. INOLTRE: Fallimento del modello istituzionale centralista e straordinario di sviluppo economico, specie per il Sud. Insoddisfazione per una visione strettamente economicista dei problemi dello sviluppo Centralità dei “distretti industriali” – valorizzazione degli elementi non economici dello sviluppo – Maggiore attenzione alla specificità dei contesti locali - Capitale sociale Sussidiarietà – Diffusione di politiche pubbliche “contrattualizzate” Insomma: la globalizzazione della politica non ha espunto il territorio dalla politica stessa

4 Il motore politico del decentramento: la nascita delle Leghe In Italia, fino agli anni Ottanta i partiti storici, pur essendo i protagonisti della vita politica locale, erano poco interessati ai temi locali della politica, ai quali anteponevano le grandi problematiche di carattere generale e le discriminanti di valore universale: capitale/lavoro, laicità religione, capitalismo/comunismo… Il cammino verso il decentramento intrapreso negli anni Novanta non è stato una chiara scelta ideologica dei partiti, ma fu dovuto a motivazioni politiche di carattere contingente, a pressioni che hanno investito dall’esterno il sistema dei partiti. 1987-1992: crisi finale del sistema dei partiti, incapaci di rispondere alle sfide della modernizzazione – 1992-1994: collasso dei partiti storici – ”Tangentopoli” ESPLOSIONE DEL FENOMENO LEGHISTA – Le Leghe: associazioni politiche autonomiste a base territoriale che avanzano rivendicazioni federaliste e di difesa delle identità regionali. Le Leghe hanno “inventato” il TERRITORIO come riferimento prioritario dell’offerta politica Lega Nord (dal 1991): contrappone il LOCALISMO – economico, istituzionale, culturale e politico – alla partitocrazia. Esalta il territorio come ambito di specifici interessi e specifiche identità. Riemerge la frattura centro/periferia (“Roma ladrona”)

5 Regioni e governi locali nella trasformazione del sistema politico italiano (I). A partire dagli anni Novanta una serie di riforme legislative ha scardinato la consolidata struttura centralistica dello Stato italiano. Le riforme hanno ridisegnato, in parte, l’architettura costituzionale all’interno della quale sono state incrementate le competenze e le funzioni dei governi territoriali e si è innescata una significativa redistribuzione del potere verso le istituzioni e gli attori della politica locale. Gli obiettivi di decentramento e di autonomia indicati con le riforme legislative avviate negli anni Novanta erano ambiziosi. Sul piano delle politiche, si è cercato, ad esempio, una nuova e più razionale distribuzione di funzioni e differenziazione di ruoli tra Regioni ed Enti locali e tra i diversi livelli del governo locale, con l’obiettivo di fare chiarezza nella distinzione tra compiti di legislazione e di distribuzione delle risorse, propri delle Regioni, e compiti di amministrazione attiva propri delle Province e dei Comuni. Nello stesso tempo, si è stabilito che i criteri in base ai quali le Regioni dovevano assegnare il potere di amministrazione agli Enti locali erano quelli dell’efficienza e del risparmio economico; e che in nessun punto della catena amministrativa avrebbero dovuto esserci due livelli di governo che svolgevano la stessa funzione.

6 Regioni e governi locali nella trasformazione del sistema politico italiano (II). Sono stati introdotti incentivi alla cooperazione, all’unione tra i comuni e alle fusioni, soprattutto per superare l’inadeguatezza dei comuni molto piccoli; si è ridefinito il ruolo delle Province, affidando ad esse nuovi strumenti e competenze; si è cercato di promuovere l’efficienza dei servizi pubblici locali, ammettendo per la loro gestione la costituzione di società per azioni miste pubblico-private e aprendole progressivamente alla concorrenza e al mercato. Sul piano della politica e della capacità di governo, le riforme hanno mirato a rinnovare la classe politica locale ─ introducendo nuovi percorsi di selezione e di ingresso nelle istituzioni “direttamente dalla società civile” e riducendo il peso del canale d’accesso partitico ─ e, contemporaneamente, a dare ai nuovi vertici degli esecutivi il massimo grado di legittimazione popolare, il controllo sulle giunte e la garanzia di una solida maggioranza che assicurasse stabilità e durata del mandato di governo. E si sono rafforzati, al contempo, strumenti della democrazia partecipativa per favorire il coinvolgimento dei cittadini e il confronto con gli amministratori (procedure d’accesso agli atti facilitate, forum e consultazioni, referendum non solo consultivi…). Più di altri livelli istituzionali, il governo locale è in grado di canalizzare un numero crescente di domande politiche ed economiche, di promuovere iniziative innovative per inventare nuove risposte ai nuovi problemi della collettività ed è chiamato a presenziare sui molteplici scenari dove si prendono decisioni che influiscono significativamente sulla qualità della vita dei cittadini.

7 Obiettivi della l. 142/1990 Strumenti e soluzioni indicati dalla l. 142 Strumenti e soluzioni individuati dalle riforme varate tra il 1993 e il 1999 Riconoscere agli enti locali l’autonomia statutaria (oltre a quella regolamentare) L’autonomia è limitata da una disciplina legislativa molto puntuale La riforma del 1999 estende i contenuti dello statuto, che trova limiti solo in espliciti principi di legge Avviare una nuova distribuzione di funzioni agli enti locali (differenziandone i ruoli) Un ruolo importante è affidato alla Regione (che mantiene solo le funzioni di ambito regionale) Le riforme del 1997-98 confermano le linee della 142 e avviano un ampio processo di conferimenti Sviluppare la partecipazione dei cittadini Procedimento e accesso, referendum consultivo Il referendum non è più solo consultivo, se ne facilita lo svolgimento Superare l’inadeguatezza dei piccoli comuni Incentivi alle fusioni e unioni dei piccoli comuni Le riforme del 1997-98 puntano sui «livelli minimi» di esercizio delle funzioni; la riforma del ’99 rafforza e agevola la cooperazione e punta sulle unioni di Comuni e sulle comunità montane Ridefinire il ruolo delle ProvinceNuovi strumenti e competenze, tra cui il Piano territoriale di coordinamento Le riforme del 97-98 rafforzano le Province, in materia di territorio e di attività produttive Tab. 1. Decentramento ed autonomia nelle riforme legislative degli anni Novanta. Fonte: Vandelli, 2005 2, p. 96.

8 Creare un sistema di governo per le aree metropolitane La Regione delimita l’area, riordina i Comuni, ripartisce le funzioni; nell’area la Provincia si configura come autorità metropolitana La riforma del ’99 punta sulla differenziazione: in ogni area le scelte sulla delimitazione e sull’ordinamento partono dal basso Promuovere efficienza nei servizi pubblici locali Si ammettono le Spa locali, purché a maggioranza pubblica Il dl del ’99 apre decisamente alla concorrenza e al mercato, stabilendo obbligo di gara Garantire autorevolezza e stabilità al sistema di governo locale Razionalizzazione dell’elezione del sindaco da parte del consiglio; sfiducia costruttiva La riforma del ’93 ha introdotto l’elezione diretta del sindaco; la riforma del ’99 tende ad un migliore equilibrio tra gli organi Ridurre vincoli e controlli I controlli del CORECO sono limitati ai soli atti del consiglio La riforma del ’97 riduce i controlli a statuti, regolamenti, bilanci Rinnovare l’organizzazione degli enti locali Distinzione tra indirizzo (organi elettivi) e gestione (funzionari); ridefinizione dei compiti del segretario, che resta funzionario statale Le riforme del ’97 precisano espressamente i compiti dei dirigenti; il segretario è scelto dal sindaco che può anche nominare un direttore generale

9 Dopo il 2001: verso uno «Stato delle autonomie locali»? Il punto più alto nel processo di decentramento politico-amministrativo e di potenziamento delle autonomie locali lo si raggiunse nel marzo del 2001 quando, proprio allo scadere della XIII legislatura, il parlamento italiano approvò la legge di riforma costituzionale 3/2001 Il «patto federale» che venne stipulato con questa legge doveva prendere corpo soprattutto attraverso l’autonomia finanziaria, di entrate e di spesa, di cui avrebbero goduto le Regioni e gli Enti locali, ai quali sarebbero andati tributi ed entrate proprie e il diritto di ricevere una parte del gettito fiscale nazionale. Per garantire che anche le Regioni più povere, cioè con una minore capacità fiscale pro capite, fossero in grado di sostenere finanziariamente le funzioni loro assegnate, la legge istituiva un «fondo perequativo nazionale» attraverso cui, in sostanza, una quota delle risorse finanziarie delle regioni più ricche – quelle del Centro-Nord – veniva messa a disposizione delle Regioni meno ricche – quelle del Sud. La nuova legge costituzionale presentava insomma una sua specificità che consisteva nell’abbinamento tra «principio di sussidiarietà» e riforma in senso federalista dello Stato. Diversamente da altri modelli federali, il modello di decentramento federalistico introdotto in Italia fissava direttamente in Costituzione l’assetto degli Enti locali (Comuni, Province e città metropolitane) e non lo lasciava alla discrezione della legge ordinaria o delle leggi regionali. Ugualmente, sia le funzioni che le risorse degli Enti locali venivano definite ed attribuite sulla base dei principi fissati in Costituzione.

10 Le nuove politiche dei governi locali Le politiche pubbliche degli Enti locali sono state ridefinite alla luce sia delle trasformazioni organizzative che in conseguenza delle nuove priorità che i governi locali si sono dati. La mobilitazione si concentra sempre più sugli obiettivi di promozione dello sviluppo economico e sulle politiche di coesione sociale, rese necessarie, queste ultime, dai grandi processi mondiali di trasformazione economica e sociale, che hanno riscritto l’agenda anche dei governi locali. Le amministrazioni locali sono riconosciute non solo come enti erogatori di servizi ma come attori politici essenziali per lo sviluppo del territorio. I cambiamenti intervenuti nella governance locale riguardano anche, in modo significativo, l’introduzione di metodi innovativi di finanziamento di cui, dagli anni Novanta, hanno cominciato ad avvalersi gli Enti locali. Particolarmente frequente, tra gli strumenti di finanza innovativa, è, ad esempio, il ricorso alla «finanza di progetto» come strategia di finanziamento, ovvero come ricerca delle risorse economiche necessarie alla realizzazione di opere infrastrutturali o per l’attivazione di servizi pubblici.

11 La crisi (finanziaria) del disegno autonomistico negli anni Duemila. Tra neo-centralismo e degenerazioni della classe politica locale Il nuovo protagonismo guadagnato dalle Regioni e dai governi locali nel sistema politico italiano, dagli anni Novanta ad oggi, ha presentato tuttavia limiti e incongruenze notevoli. Riforma incompiuta: peccato originale del processo di decentramento e di riordino istituzionale non si è scelto un nuovo modello di relazioni intergovernative, non si è data una risposta precisa alla domanda cruciale «che cosa si decentra e a chi» e non si è fatta chiarezza in merito all’attribuzione delle «funzioni fondamentali» proprie di Regioni, Province e Comuni. Tra un modello propriamente regionalista che devolvesse compiti e funzioni soprattutto al livello di mesogoverno rappresentato dalle Regioni, o un modello che favorisse piuttosto il rapporto diretto tra Stato ed Enti locali, decentrando funzioni e competenze direttamente a Comuni e Province, in realtà non si è scelto, per non scontentare nessuno.

12 Decentramento frenato da problemi di carattere finanziario (I) C’è stato, soprattutto, un problema di carattere finanziario, legato ai costi della politica (anche) locale, che è intervenuto nell’ultimo decennio, a frenare il processo di decentramento e a ridimensionare per molti aspetti l’autonomia guadagnata nel decennio precedente da Regioni e governi locali. Il problema dei costi della politica ha due aspetti distinti, che finiscono poi per sovrapporsi. 1)L’altra faccia dell’elezione diretta: personalizzazione della politica e professionalizzazione degli eletti. Gli eletti hanno finito col sostituire i partiti, i quali vivono quasi soltanto nelle istituzioni: «Oggi troppo spesso si sta nei partiti solo per essere eletti o si viene eletti senza nemmeno entrare nei partiti. L’eletto, a quel punto […] non risponde più a nessuno. Ha i soldi, ha una segreteria, dirige di fatto le strutture di partito» (Salvi e Villone 2005). I “costi della politica” - Peculiari risorse di tipo clientelare a disposizione dei governi locali - Particolarmente rilevanti anche perché possono essere utilizzate con notevole libertà, senza troppi rischi di incorrere in sanzioni di tipo amministrativo o penale.

13 Decentramento frenato da problemi di carattere finanziario (II) 2)Vincoli di bilancio e neocentralismo. Vincoli di bilancio posti dall’Unione Europea. Già coi parametri economici e i vincoli di bilancio introdotti con il Trattato di Maastricht (1992), relativi al tasso di inflazione e al rapporto tra deficit di bilancio, debito pubblico e prodotto interno lordo e poi soprattutto dagli anni Duemila con l’introduzione della moneta unica, gli Stati dell’Unione furono vincolati al rispetto rigoroso della disciplina di bilancio. Perciò, in Italia, i governi nazionali, in modo abbastanza indipendente dal colore politico, hanno adottato politiche finanziarie restrittive e misure di ricentralizzazione della spesa, fortemente penalizzanti delle autonomie locali: così è stato con il vincolo del patto di stabilità interno, il taglio massiccio dei trasferimenti erariali alle Regioni e agli enti locali, la riduzione delle entrate proprie e il divieto di effettuare nuove assunzioni. I due aspetti del problema finanziario – sprechi e spese clientelari (che spesso sfociano nella corruzione) da un lato e, dall’altro, rigorosa disciplina di bilancio imposta “dall’alto” – si sovrappongono, perché i primi giustificano la seconda e la costringono ad essere ancor più “spietata”. Insieme ai molti sprechi ed eccessi di spesa che certamente c’erano, si sono però ridotti anche i servizi ai cittadini e gli investimenti infrastrutturali e per promuovere lo sviluppo.

14 Decentramento frenato da problemi di carattere finanziario (III) La riduzione della capacità di spesa delle Regioni e dei governi locali significa che questi non sono più in grado di esercitare in modo autonomo poteri e funzioni che le riforme degli anni Novanta gli avevano attribuito. Tra le vittime illustri di questa virata neocentralistica c’è, ad esempio, il federalismo fiscale introdotto dalla riforma costituzionale del 2001. Nel maggio 2009 il governo aveva approvato una importante legge in materia di autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e degli Enti locali, dando attuazione al federalismo fiscale previsto dall’art. 119 della Costituzione riformata. In realtà il governo non ha poi dato attuazione alla delega, che è rimasta in stallo perché nel frattempo è “esplosa” la crisi della finanza pubblica e la risposta data dai governi in Europa, negli ultimi tre anni, è stata quella di accentuare fortemente le restrizioni attraverso una secca ricentralizzazione della gestione della spesa.

15 Crisi finanziaria e “riordino istituzionale” Duplice processo in corso da alcuni anni all’insegna di una ricentralizzazione assai spinta, in termini di riordino istituzionale e di rigore finanziario. Decentramento frenato. Fino a far immaginare un’inversione di tendenza non episodica. Negli anni Novanta le trasformazioni dell’assetto istituzionale dello Stato hanno seguito una logica incrementale. Sono scaturite da valutazioni di opportunità di carattere politico contingente, sono state dettate soprattutto da pressioni esterne ed è mancata una valutazione della coerenza complessiva del sistema che si andava riformando. Altrettanto incrementale, priva di una visione progettuale e sistemica è l’attuale fase di controriforme neoocentraliste, sollecitate dall’”Europa” e dai “mercati”.

16 Il governo locale oggi. Tra accorpamenti e soppressioni Il nuovo sistema delle autonomie locali è rimasto per molti aspetti incompiuto e, d’altra parte, in molti casi l’autonomia è stata utilizzata in modo irresponsabile. Forse proprio l’irresponsabilità con cui una parte non piccola della nuova classe politica locale ha usato l’autonomia, rappresenta la delusione maggiore, rispetto alle speranze di rinnovamento “dal basso”, dal territorio, anche in termini di etica pubblica, che animavano i riformatori degli anni Novanta. Decentrare poteri e competenze lontano da Roma non è che abbia molto contribuito ad abbassare il tasso di inefficienza, di clientelismo, di corruzione… «Caro Primo Ministro… abolisci le Province». La lettera della BCE al Governo italiano É stato attivato un processo di riordino istituzionale degli Enti locali dettato anch’esso, quasi soltanto, dall’esigenza di tagliare la spesa pubblica. Tra gli obiettivi principali del riordino c’è la Provincia.

17 La scomparsa della Provincia Sebbene la Provincia fosse entrata da tempo nel mirino dei “riformatori”, la sua sfortuna ha subito un’accelerazione decisiva dall’estate del 2009 in conseguenza di un preciso “suggerimento” nientemeno che della Banca centrale europea. Lettera del 5 agosto 2011, scritta a quattro mani dal presidente Jean Claude Trichet e dal suo successore designato Mario Draghi: la BCE indica al governo italiano, la strada da seguire «per accrescere il potenziale di crescita» del Paese, le misure da introdurre per assicurare «la sostenibilità delle finanze pubbliche» e le decisioni da prendere «immediatamente» per migliorare l’efficienza dell’amministrazione pubblica. Tra le misure suggerite:«azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali» e «un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)». Il governo delle “larghe intese” e la Provincia: obiettivi «contingenti» e ambizioni riformatrici Luglio 2013: la corte costituzionale affossa il Salva Italia (dicembre 2011) e Spending review (luglio 2012) del Governo Monti Il DdL costituzione del governo Letta per abolire le Province. Nel frattempo: ll DdL del ministro Delrio.

18 La riforma in cantiere. Città metropolitane, Unioni di Comuni e fusioni (I) Il 26 luglio 2013 il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Graziano Del Rio, già sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’ANCI ha presentato uno «Schema di disegno di legge recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle Province, sulle unioni e fusioni di comuni». Lo schema del DdL governativo persegue «risultati ambiziosi» e si prefigge tre obiettivi di riforma «di carattere sistematico» e un obiettivo «contingente». Gli obiettivi strutturali sono 1) istituire «finalmente» le città metropolitane; 2) definire «una nuova disciplina organica delle Unioni di Comuni» per dare ad esse una struttura normativa coerente. L’obiettivo è quello di rafforzare e valorizzare le Unioni come strumenti a disposizione dei Comuni perche possano operare in modo più efficiente e responsabile di fronte «alle esigenze dei cittadini»; e 3) «rivisitare» l’istituto delle fusioni di comuni, allo scopo di incrementarle ed ottenere così «dimensioni più accettabili e coerenti del livello comunale».

19 La riforma in cantiere. Città metropolitane, Unioni di Comuni e fusioni (II) L’obiettivo contingente riguarda la Provincia: in attesa di scomparire diviene ente di secondo grado, mantiene solo compiti di di coordinamento «di area vasta» e le sue funzioni vengono trasferte a Comuni e Regioni. Il disegno del ministro Del Rio si muove in una prospettiva di riforma che va oltre l’urgenza dei tagli alla spesa pubblica locale – unico vero motore, in precedenza, delle proposte di accorpamente/soppressione delle Province. C’è l’ambizione di ridimensionare il policentrismo autonomistico consacrato dalle riforma costituzionale del 2001 (legge 3/2001) ma che, si dice, ha dimostrato di operare piuttosto come policentrismo «anarchico», con insufficiente capacità di coordinamento interistituzionale, per ridisegnare un sistema delle autonomie locali “a due punte”. Saranno i sindaci e i Presidenti delle Unioni di Comuni il nerbo della classe politica del governo locale, chiamati a governare non solo l’amministrazione comunale in senso proprio, ma anche «l’intera organizzazione territoriale di area vasta». Il disegno collettivo è tutto orientato alla valorizzazione dei Comuni e della classe politica municipale; i sindaci e solo i sindaci sono indicati come il tessuto connettivo, il tessuto forte della democrazia locale, gli attori politici sui quali investire per far rinascere la fiducia dei cittadini nella politica.

20 La riforma in cantiere. Città metropolitane, Unioni di Comuni e fusioni (III) Le Unioni divengono il punto di snodo e di raccordo principale dell’asse comuni-Regione, che si profila come la linea di assestamento della nuova governance interistituzionale substatale. Inoltre, le Unioni potrebbero affermarsi come il necessario strumento di governo di livello intermedio sul territorio dell’Area metropolitana. La riforma della governance territoriale procede comunque anche lungo altri percorsi. Segnali molto recenti ma già di una certa consistenza, infatti, inducono a ipotizzare che nel riassetto istituzionale potrebbero assumere un certo peso le fusioni di comuni, come superamento, o come naturale evoluzione, delle stesse Unioni. Molte leggi regionali prevedono il percorso di fusione, lo promuovono, lo facilitano, nel caso la fusione coinvolga tutti i comuni di una preesistente unione, e lo incoraggiano con argomenti efficaci, ovvero con generosi contributi finanziari (in Toscana: 250mila euro per ogni comune coinvolto nella fusione per cinque anni a partire dall’anno successivo all’elezione del nuovo consiglio comunale unificato; ma con possibilità di ottenere contributi maggiori).

21 Possibili vantaggi delle fusioni Per molti comuni la fusione può certamente segnare un significativo passo in avanti verso un’adeguata integrazione istituzionale e una governance sostenibile. Per superare lo scollamento tra sistemi locali di vita e di lavoro e ambiti di governo politico- amministrativi ─ stante una rete territoriale dei comuni disegnata su assetti socio economici ormai da tempo superati ─ che impone costi aggiuntivi alle famiglie e alle imprese. Effetto positivo delle fusioni: risparmi di spesa dovuti alle economie di scale e al superamento delle duplicazioni. Ma anche altri non quantificabili miglioramenti delle performances amministrative, con conseguenze positive molto importanti per la vita quotidiana delle persone: spostamento di risorse dalle funzioni amministrative e istituzionali alle politiche direttamente generatrici di beni e servizi; maggiore equità per i cittadini nell’accesso ai servizi stessi; unificazione delle procedure amministrative, con conseguenti minori costi di transazione per i cittadini e gli operatori economici; miglioramento, nel medio periodo, della qualità delle prestazioni e dei servizi, grazie alle maggiori possibilità di qualificare e specializzare il personale del nuovo comune unico; maggior peso contrattuale degli amministratori locali. Infine, potenziale ma realistico vantaggio quantificabile, per i cittadini: possibilità che le risorse finanziarie garantite ai comuni che si fondono permettano di diminuire le tasse locali (come l’addizionale IRPEF e l’IMU).


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