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TEMPO LINEARE E TEMPO CICLICO

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Presentazione sul tema: "TEMPO LINEARE E TEMPO CICLICO"— Transcript della presentazione:

1 TEMPO LINEARE E TEMPO CICLICO
Prometeo: “Il tempo che invecchia finisce per insegnare ogni cosa” Hermes: “Eppure tu ancora non sai essere saggio” (Eschilo, “Prometeo Incatenato”, vv ) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

2 TEMPO LINEARE E TEMPO CICLICO
Letteratura Filosofia Fisica Approfondimenti Classica greca Classica latina Moderna Società primitive Epoca classica moderna Teorie dei fisici Teorema ergodico Tempo come quarta dimensione Nietsche Orfismo Aristofane “Uccelli” S. Hawking Mircea Eliade Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

3 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Esiodo: Teogonia “In principio dunque vi era il Caos soltanto, ma poi nacquero Gea dall'ampio seno salda dimora per sempre di tutti gli immortali che abitano le cime del nevoso Olimpo; e il caliginoso Tartaro che è nel profondo della terra spaziosa ed Eros, il bellissimo fra gli Dei immortali, che spossa le membra e che di tutti gli Dei e di tutti gli uomini domina i cuori nel petto. Da Caos nacquero Erebo, le tenebre, e la nera Notte. Da Notte nacquero Etere ed Emera, Gea generò prima,simile a se stessa, Urano, affinchè la coprisse tutta quanta, poi generò gli alti monti , ameno soggiorno delle Dee,delle Ninfe...” (Esiodo, “Teogonia”, vv , vv ) VIII secolo a.C. Esistenza ab aeterno del Caos, dell’abisso primordiale dove tutto ha inizio Caos, Gaia, Eros: Chronos è implicitamente ammesso all’inizio del divenire Il tempo primordiale (Urzeit) è tempo prima del tempo o il tempo storico delle origini Il tempo è un αιòν (Eone), tempo illimitato Influssi orfici (§ Aristofane “Uccelli”) di origine orientale Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

4 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Aristofane: Uccelli “Da Principio c'era Caos e Notte ed Erebo nero e l'ampio Tartaro, ma non c'era terra né aria né cielo; e nel seno sconfinato di Erebo. Notte dalle ali nere genera anzitutto un uovo sollevato dal vento, da cui nelle stagioni ritornanti in cerchio sbocciò Eros il desiderabile, con il dorso rifulgente per due ali d'oro, simile a rapidi turbini di vento. E costui di notte mescolandosi con Caos alato nell'ampio Tartaro, fece schiudere la nostra stirpe, e per prima la condusse alla luce. Sino ad allora non c'era la stirpe degli immortali prima che Eros avesse mescolato assieme ogni cosa; ma essendo mescolate le une alle altre, nacquero Cielo ed Oceano e Terra e la stirpe senza distruzione di tutti gli Dei felici.” (Aristofane , “Uccelli”, vv ) Nel primo frammento orfico raccolto da Otto Kern (Orphicorum fragmenta, 1922), una citazione di Aristofane, è detto che in principio c’erano il Caos, la Notte, il nero Erebo, il Tartaro. Notte genera l’Uovo primordiale dalla cui fecondazione nasce Eros Il tempo è principio di tutte le cose, “la prima causa di tutte le cose” (frammento 68) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

5 Ferecide di Siro (metà VI secolo a.C.)
Il principio dell’essere non è la materia, ma il tempo, un elemento di natura spirituale da cui provengono la materia o le materie fondamentali stesse Probabilmente la figura di Chronos come figura cosmologica primordiale deriva dalla ipostatizzazione di ZRVAN AKARANA (il tempo senza fine) della concezione iranica. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

6 Eschilo: Prometeo Incatenato
Prometeo dona agli uomini (“indifesi e muti”) il segreto del fuoco e della tecnica: in questo modo dona un’altra temporalità; l’uno e l’altra sono in vista di uno scopo che né il cielo né la terra, percorsi da tempo ciclico, possono ospitare. La temporalità inaugurata da Prometeo non guarda il passato, ma il futuro o, come dice Eschilo, “il tempo che invecchia” (v. 981) regolato non più dalla figura del ritorno, ma dal perseguimento del bersaglio anticipato nel futuro. Il fine raggiunto si identifica con la fine poiché, quando lo scopo è raggiunto, esso è consumato; ciò che si ha in vista non è la morte, ma il raggiungimento della meta. Σκοπός significa: Meta, bersaglio (“L’oggetto su cui si fissano gli occhi”) Σκοπέω significa “avere anticipatamente in vista qualcosa, prevedere”, quindi “progettare” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

7 Tucidide: Guerra del Peloponneso
Tucidide ha introdotto il concetto delle tre dimensioni storiche, secondo il quale il futuro non è che una proiezione del presente sui fondamenti del passato. Il presente è il punto di arrivo del passato e contemporaneamente il punto di partenza del futuro come una fase di passaggio; esso rappresenta anche la base di orientamento del futuro, in quanto, in ciò che si vive, c’è già un nucleo di comprensione per ciò che potrà essere. La visione del tempo storico di Tucidide non è più quella LINEARE di Erodoto, ma TRIANGOLARE dove il presente è la base che sottende tanto il passato quanto il futuro. La visione del tempo è rappresentata dal personaggio di Temistocle del quale si sottolinea la capacità di ricavare dalla valutazione del presente previsioni per il futuro. Presente Futuro Passato Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

8 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Platone: Timeo “Ora la natura dell'anima era eterna e questa proprietà non era possibile conferirla pienamente a chi fosse stato generato: e però pensa di creare un'immagine mobile dell'eternità e ordinando il cielo crea dell'eternità che rimane nell'unità un'immagine eterna che procede secondo il numero, quella che abbiamo chiamato tempo. E i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che non erano prima che il cielo nascesse fece allora in modo che essi potessero nascere, mentre creava quello. Tutte queste sono parti del Tempo e l'era e il sarà sono forme generate di tempo che noi inconsapevolmente riferiamo a torto all'eterna essenza. Invero noi diciamo ch'essa era, che è e che sarà, e tuttavia solo l'è le conviene veramente e l'era e il sarà si devono dire della generazione che procede dal tempo: perché sono movimenti, mentre quello,che è sempre nello stesso modo immobile, non conviene che col tempo diventi né più vecchio né più giovane, né che sia stato mai,né che ora sia, né che abbia ad essere nell'avvenire; niente insomma gli conviene di tutto ciò che la generazione presta alle cose che si muovono nel sensibile,ma sono forme del tempo che imita l'eternità e si muove in giro secondo il numero.” (Platone, “Timeo”, cap. X) Platone pone alla base della sua concezione dell’uomo il dualismo anima/corpo. Ipotizza una concezione ciclica del tempo, secondo la quale l’anima trasmigra di corpo in corpo: quest’ultimo è mortale, mentre l’anima è immortale e tende a liberarsi del corpo: la morte ha un aspetto di liberazione dalle passioni e dall’ignoranza. La concezione ciclica del tempo e la teoria della reincarnazione è stata assunta da Platone attraverso Pitagora. Nel Timeo egli spiega come la concezione ciclica del tempo sia associabile a quella cosmica. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

9 Aristotele: Metafisica
“In realtà è fine l’opera, e il fatto s’identifica con l’opera e perciò anche il nome stesso di atto (ενέργεια ) deriva da opera (έργον) e tende verso l’atto perfetto (εντελέχεια).” (Aristotele, “Metafisica”, libro IX, 8, 1050a, 21-24) Nella concezione ciclica del tempo, raggiungere il τέλος (fine) significa anche raggiungere la propria fine e nella fine la propria forma. A questo alludono le parole aristoteliche ενέργεια (atto) ed εντελέχεια (atto perfetto) Nel ciclo non c’è finalità, ma solo compimento e l’opera (έργον) appare quando è compiuta, quando l’attività, che prendendo avvio l’ha promossa, è giunta alla fine. Εντελης εχω significa infatti “ho raggiunto il compimento”, “sono compiuto”. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

10 (simbolo di ciclicità del tempo)
Nel tempo ciclico c’è dunque identità tra fine e la fine. A sancirla è la morte che, conducendo le singole forme alla loro distribuzione per consentire la riproduzione di nuove forme, appare come il giudice implacabile che amministra il ciclo, NON nel senso che lo DESTINA a qualcosa, ma nel senso che lo RIBADISCE come ETERNO RITORNO, permettendogli così di durare eternamente come ciclo. Il τέλος (esito, scopo) che lo percorre non ha aspettative né pentimenti, la temporalità che esprime è la pura e semplice regolarità del ciclo, dove nulla può accadere che non è già accaduto e nulla può avvenire se non conformandosi al già avvenuto. Nel tempo ciclico non c’è nulla da attendere se non ciò che deve ritornare. UROBORO, il serpente che si morde la coda (simbolo di ciclicità del tempo) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

11 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Orazio: Carmina (II, 14) “Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni, nec pietas moram rugis et instanti senectae afferet indomitaeque morti, non si trecenis quotquot eunt dies, amice, places illacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi compescit unda, scilicet omnibus quicumque terrae munere uescimur enauiganda, siue reges siue inopes erimus coloni. Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: uisendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris. Linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter inuisas cupressos ulla breuem dominum sequetur. Absumet heres Caecuba dignior seruata centum clauibus et mero tinget pauimentum superbo, pontificum potiore cenis.” “Ahimé fugaci, Postumo, Postumo, scorrono gli anni, e nemmeno la fede negli dei ritarderà le rughe , la vecchiaia incalzante, la morte mai sconfitta; neppure, amico, se ogni giorno, quanti sono i giorni che se ne vanno, con trecento tori tu placassi l’inflessibile Plutone, che il triplice Gerione e Tizio tiene chiusi oltre quell’onda tetra che tutti noi, quanti la terra nutre con i suoi doni, dobbiamo attraversare, non importa se re o povera gente di campagna. Invano eviteremo Marte sanguinoso e nel mare Adriatico il sordo frangersi dei flutti, ci guarderemo invano, nell’autunno, dall’Austro che danneggia la salute. Si dovrà vedere l’onda nera del Cocito dalla pigra corrente, l’infame stirpe di Danao e il figlio di Eolo, Sisifo dannato alla lunga fatica. Si dovrà lasciare la terra, la casa, la moglie amata, e degli alberi che ora tu coltivi nessuno, solo il cipresso odioso, seguirà te, padrone dalla vita breve. Il Cecubo, che con cento chiavi tu hai riposto, lo berrà un erede più degno di te e il pavimento bagnerà con il vino squisito, superiore a quello riservato alle cene dei pontefici.” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

12 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Orazio: Carmina (I, 11) “Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati, seu plures hiemes, seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” “Non domandarti – non è giusto saperlo – a me, a te quale sorte abbian dato gli dèi, e non chiederlo agli astri, o Leuconoe; al meglio sopporta quel che sarà: se molti inverni Giove ancor ti conceda o ultimo questo che contro gli scogli fiacca le onde del mare Tirreno. Sii saggia, mesci il vino – breve è la vita – rinuncia a speranze lontane. Parliamo e fugge il tempo geloso: cogli l'attimo, non pensare a domani” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

13 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Orazio Tempo viene considerato come un’ossessione e, in questi versi, Orazio ricorda come breve sia la vita dell’uomo prima che la vecchiaia e poi la morte lo colgano. L’autore esprime il desiderio d’immortalità e di lasciare di sé memoria imperitura, affidando le sue opere ai posteri. Nel Carmen 11 , canto che Orazio dedica alla donna amata (ad Leuconoen), il poeta riprende il tema della caducità della vita da Omero, quello del tempo che fugge, quello della precarietà della vita umana (derivante dalla morale delfica). E’ presente anche l’allegoria della vita in balia delle onde, anticipata da Archiloco. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

14 Seneca: De brevitate vitae (I)
Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso uitae apparatu uita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens uulgus ingemuit; clarorum quoque uirorum hic affectus querellas euocauit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est: "uitam breuem esse, longam artem". Inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conueniens sapienti uiro lis: "aetatis illam animalibus tantum indulsisse, ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare." Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa uita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei impenditur, ultima demum necessitate cogente, quam ire non intelleximus transisse sentimus. Ita est: non accipimus breuem uitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum peruenerunt, momento dissipantur, at quamuis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt: ita aetas nostra bene disponenti multum patet. La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lamenta, della malignità della natura, poiché siamo generati per un esiguo scorcio di tempo, poiché scorrono via tanto velocemente questi attimi del tempo, a noi concesso, al punto che fatta eccezione proprio per pochi la vita abbandona tutti gli altri proprio mentre si apprestano a vivere. E di questo male comune, come lo -ritengono, non si lamentano soltanto la folla e il volgo ignorante, ma questa apprensione suscitò le lagnanze anche di uomini illustri. Di qui la famosa esclamazione del più grande dei medici. «Corta è la vita, lunga è l'arte». Di qui la contesa con la natura, disdicevole ad un uomo saggio, di Aristotele che giudicava che essa era stata di manica larga con gli animali tanto da farli vivere per cinque o dieci generazioni, mentre all'uomo nato, per tanto numerose e grandi attività è assegnato improrogabilmente un termine tanto più breve. Non è che abbiamo poco tempo: ne perdiamo molto invece. La vita è abbastanza lunga e ci è elargita con una notevole durata per il compimento delle più grandi imprese, se fosse tutta impiegata bene. Ma quando si consuma tra la lussuria e la noncuranza, quando non la si dedica a nessuna buona causa, in fine, quando ci costringe la necessità suprema, ci accorgiamo che è già passata mentre prima non avvertivamo il suo andare. È proprio cosi: non riceviamo una vita breve, ma la rendiamo tale e non ne siamo poveri, ma prodighi. Cosi ricchezze immense e regali vengono dissipati in un .momento quando toccano a un cattivo padrone, ma quando vengono affidati a un buon amministratore, anche se sono modici, crescono col loro stesso impiego; cosi la nostra vita si estende a lungo per chi sa disporne bene Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

15 Seneca: Epistulae morales ad Lucilium (I, 1)
“Seneca Lucilio suo salutem Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterît; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. Quid ergo est? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, 'sera parsimonia in fundo est'; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale.” “Seneca saluta il suo Lucilio. Fa' così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com'egli muoia giorno per giorno? In questo c'inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa' ciò che mi scrivi; fa' tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell'oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l'uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è. questo l'unico bene che l'uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà. Mi domanderai forse come mi comporti io che ti dò questi consigli. Te lo dirò francamente: il mio caso è quello di un uomo che spende con liberalità, ma tiene in ordine la sua amministrazione; anch'io tengo i conti esatti della spesa. Non posso dire che nulla vada perduto, ma sono in grado di dire quanto tempo perdo, perché e come lo perdo; posso cioè spiegare i motivi della mia povertà. Capita anche a me, come alla maggior parte della gente caduta in miseria senza sua colpa: tutti sono disposti a scusare, ma nessuno viene in aiuto. E che dunque? Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare. Ma tu, fin d'ora, serba gelosamente tutto quello che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché - ci ammoniscono i nostri vecchi - «è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia». Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore. Addio.” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

16 Seneca: De brevitate vitae (X, 2-5)
“In tria tempora vita dividitur: quod fuit quod est quod futurum est. Ex his quod agimus breve est quod acturi sumus dubium quod egimus certum. Hoc est enim in quod fortuna ius perdidit quod in nullius arbitrium reduci potest. 3 Hoc amittunt occupati; nec enim illis vacat praeterita respicere et si vacet iniucunda est paenitendae rei recordatio. Inviti itaque ad tempora male exacta animum revocant nec audent ea retemptare quorum vitia etiam quae aliquo praesentis voluptatis lenocinio surripiebantur retractando patescunt. Nemo nisi quoi omnia acta sunt sub censura sua quae numquam fallitur libenter se in praeteritum retorquet: 4 ille qui multa ambitiose concupiit superbe contempsit impotenter vicit insidiose decepit avare rapuit prodige effudit necesse est memoriam suam timeat. Atqui haec est pars temporis nostri sacra ac dedicata omnis humanos casus supergressa extra regnum fortunae subducta quam non inopia non metus non morborum incursus exagitet; haec nec turbari nec eripi potest; perpetua eius et intrepida possessio est. Singuli tantum dies et hi per momenta praesentes sunt; at praeteriti temporis omnes cum jusseritis aderunt ad arbitrium tuum inspici se ac detineri patientur quod facere occupatis non vacat. 5 Securae et quietae mentis est in omnes vitae suae partes discurrere; occupatorum animi velut sub iugo sint flectere se ac respicere non possunt. Abit igitur vita eorum in profundum; et ut nihil prodest licet quantumlibet ingeras si non subest quod excipiat ac servet sic nihil refert quantum temporis detur si non est ubi subsidat: per quassos foratosque animos transmittitur.” “La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest'ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l'animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la fame, né la paura, né l'assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi fiaccati e bucati.” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

17 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Seneca Opposizione tra l’atteggiamento degli occupati, che scialacquano il proprio tempo in occupazioni futili, ed il sapiens, che dedica il proprio tempo alla sola conquista della saggezza. La vita dell’uomo non è in sé breve, ma diviene tale in quanto gli uomini la sprecano in occupazioni ed impegni superflui. Quello che conta è il PRESENTE; il vivere bene ogni attimo come se fosse l’ultimo. Quella di Seneca è una visione ansiosa ed angosciata del tempo, nel disperato bisogno di controllarlo ed esorcizzarne le paure sottese. Il tempo scorre “come un fiume” (potremmo anche confrontarlo con il detto di Eraclito, πάντα ῥεῖ, cioè “tutto scorre” ). Nel terzo brano, Seneca divide il tempo in passato, presente e futuro. Il presente è assai breve ed inafferrabile, il futuro è incerto ed il passato è sicuro. Tuttavia, solo gli uomini saggi si volgono al passato volentieri, perché sanno di aver vissuto bene, sottoponendo tutte le loro azioni alla censura della coscienza e della sapienza. Al contrario, gli uomini affaccendati, che trascorrono la propria vita dedicandosi ad attività inutili, senza dedicarsi alla ricerca della sapienza, si rivolgono malvolentieri al passato, perché non osano riesaminare le proprie azioni manchevoli. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

18 Velleio Patercolo (19 a.C. – 31)
Secondo lo storico Velleio Patercolo, la storia romana rappresentava il culmine della storia, confine ultimo di ogni altra possibile evoluzione. Per questo motivo la narrazione storica di questo autore si concentrava intorno al suo centro di gravità e la storia dell'intero mondo conosciuto veniva a confluire in una sola città, Roma. Venne introdotto il concetto di "traslatio imperii", ossia di un passaggio del dominio sul mondo allora conosciuto attraverso una successione di popoli che si conclude con Roma. In questo stesso centro di gravità il medesimo concetto venne quindi applicato descrivendo la stessa storia romana come contrapposizione di due parti politiche, a loro volta culminante nel tempo presente, in cui i contrasti si erano ricomposti. La storia dunque veniva considerata conclusa con il presente e il presente, lo spazio e il tempo dello storico, costituivano lo stadio ultimo, il più perfetto di ogni possibile evoluzione storica. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

19 Francesco Petrarca: Se lamentar augelli…
Se lamentar augelli, o verdi fronde mover soavemente a l'aura estiva, o roco mormorar di lucide onde s'ode d'una fiorita et fresca riva, là 'v'io seggia d'amor pensoso et scriva, lei che 'l ciel ne mostrò, terra n'asconde, veggio, et odo, et intendo ch'anchor viva di sì lontano a' sospir' miei risponde. "Deh, perché inanzi 'l tempo ti consume? - mi dice con pietate - a che pur versi degli occhi tristi un doloroso fiume? Di me non pianger tu, ché miei dì fersi morendo eterni, e ne l'interno lume, quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi". Scritto intorno al 1351 – 1352 nel rifugio di Valchiusa, sede privilegiata della memoria dell’amore perduto, il sonetto segna uno snodo fondamentale nella vicenda amorosa del poeta dopo la morte dell’amata: al centro del componimento campeggia, infatti, la visione di Laura ormai divenuta una figura consolatrice. Laura, morta, appare “anchor viva”. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

20 Lorenzo de’ Medici: Quanto è bella giovinezza
Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Mida vien drieto a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro, s'altri poi non si contenta? Che dolcezza vuoi che senta chi ha sete tuttavia? Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Ciascun apra ben gli orecchi: di doman nessun si paschi, oggi siàn, giovani e vecchi, lieti ognun, femine e maschi. Ogni tristo pensier caschi, facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core: non fatica, non dolore! Ciò che ha esser, convien sia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza. Quanto è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Questo è Bacco e Arïanna, belli e l'un dell'altro ardenti: perché el tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti. Queste ninfe e altre genti sono allegri tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Questi lieti satiretti, delle ninfe innamorati, per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or da Bacco riscaldati, ballon, salton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Queste ninfe hanno anco caro da·lloro essere ingannate: non può fare ' Amor riparo, se non gente rozze e ingrate; ora insieme mescolate suonon, canton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza.     Questa soma, che vien drieto sopra l'asino, è Sileno: così vecchio è ebro e lieto, già di carne e d'anni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

21 Quanto è bella giovinezza
La “Canzona a Bacco”, scritta per le feste del carnevale, è considerata il migliore componimento dei “Canti carnascialeschi”. Essa descrive uno di quei carri allegorici che venivano allestiti in occasione delle festività. Il corteo trionfale è aperto da Bacco accompagnato da altre figure mitologiche (Arianna, Sileno, Mida, ninfe e satiri). Il ritornello indica i due temi chiave del componimento: l’abbandono al naturale desiderio della gioia (chi vuol esser lieto, sia) e l’incertezza del futuro (di doman non c’è certezza). La fuga del tempo giustifica il desiderio di godimento, la volontà di cogliere l’attimo e spremere tutte le soddisfazioni possibili. Il piacere dei sensi, che per definizione vive nell’attimo, è eterno ed immortale poiché esso è racchiuso nella dimensione dell’ora. Nel periodo umanistico è frequente l’incontro fra una poesia “alta” che canta i sensi e la bellezza e uno spirito pagano rimasto fedele a feste che inneggiano alle componenti più istintuali della vita. Il tema della fuga della giovinezza non si conclude con il tradizionale “trionfo della morte”, ma con un’esaltazione della vita. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

22 Ciro da Pers: Orologio a ruote
Nobile ordigno di dentate rote lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosce note a chi legger le sa: SEMPRE SI MORE. Mentre il metallo concavo percuote, voce funesta mi risuona al core; nè del fato spiegar meglio si puote che con voce di bronzo il rio tenore. Perch’io non speri mai riposo o pace, questo, che sembra in un timpano e tromba, mi sfida ognor contro all’etá vorace. E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba, affretta il corso al secolo fugace, e perché s’apra, ognor picchia alla tomba. Sempre si more: anagramma di SERPE MI MORSE (ricordiamo che il serpente è simbolo di ciclicità // Uroboro). A chi legger le sa: invito ai saggi a decifrare il messaggio segreto. Orologio a ruote: l’orologio ha una voce di bronzo, funesta, perché la sua risonanza fa pensare alla morte, il suo cupo suono è simile alla voce del destino, avverte che bisogna lottare contro il tempo che tutto divora, che tutto distrugge, i suoi rintocchi avvicinano alla tomba. Nell’impressionante verso finale è riconoscibile l’immaginazione teatrale del Seicento che suggerisce l’immagine del tempo che trascina gli uomini alla tomba. Questo componimento è da confrontare con “La clessidra” di Francisco de Quevedo: il poeta esprime la mortalità e la fragilità dell’esistenza attraverso la sabbia ed il vetro della clessidra. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

23 Leopardi: Cantico del gallo silvestre
“Svegliatevi alla verità, uscite dal mondo falso!”: questo è il canto mattutino del gallo silvestre. Il giorno è paradigma della vita dell’uomo: all’alba (come nella giovinezza) domina la speranza che diminuisce a mano a mano che passano le ore e muore alla sera. Questa “Operetta” presenta un concetto nuovo che richiama anche il pensiero di Schopenhauer: il senso dell’Universo è dato dal movimento e dalla vita che agisce al suo interno; un Essere eternamente immobile sarebbe inutile. La conclusione poetica contraddice – come osserva lo stesso Leopardi – la logica filosofica tradizionale, ma apre una prospettiva filosofica nuova, all’interno della quale è l’uomo che da un senso all’Universo e, quindi, anche alla sua propria vita. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

24 Cantico del gallo silvestre
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all’uso delle lingue, e massime dei poeti, d’oriente. Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina. Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né susurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice? Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

25 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte. Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero e che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte. A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta. Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

26 FILOSOFIA: Società primitive, orientali, precolombiane
Nelle società primitive, probabilmente in base all’osservazione del movimento regolare degli astri celesti e della costanza dei cicli biologici, si rappresentava il tempo secondo l’immagine di una ruota o di un cerchio che ritorna su se stesso da sempre e per sempre. In India predominava una nozione del tempo completamente ciclica: l’unità primaria del tempo era definita yuga (era); un ciclo completo (o mahayuga), è composto da quattro ere, dove il numero quattro sta a indicare totalità o perfezione. Il primo yuga di ciascun ciclo è una sorta di “età dell’oro”, poi, ogni yuga successivo è peggiore di quello che lo ha preceduto fino a che si arriva alla ‘grande dissoluzione’ dopodiché il ciclo ricomincia da capo. Per l’uomo, questo aspetto ciclico del tempo è visto negativamente come origine della Samsara, la ruota della vita e della morte che non smette mai di girare la ruota dell’eterna reincarnazione da cui solo lo yogi illuminato o il buddhista che ha compreso la verità possono sfuggire. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

27 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Alla base della concezione cinese del tempo, così come illustrata nell’ “I Ching”, il libro dei mutamenti esistevano due modelli circolari di tempo o due mandala del tempo: uno era la cosiddetta ‘Sequenza del Primo Cielo’ o ‘Disposizione Originaria’: un cerchio composto da otto kua, i principi fondamentali di tutta l’esistenza, tra cui, a due poli opposti: “il creativo, che rappresenta la grande legge dell’esistenza, e il ricettivo, che mostra la sicurezza del grembo materno nel quale tutto ritorna dopo aver compiuto il circolo vitale” . Per i Maya il tempo era una divinità e corrispondeva inoltre ad un numero e gli Aztechi anche possedevano un simile mandala del tempo. Secondo gli Aztechi “i giorni ‘modificano’ tutte le cose mentre si muovono attraverso il cielo.” Iconograficamente le divinità sono rappresentate come figurine che portano sulla schiena un numero di giorni, mesi, anni e si muovono in un’immensa sequenza circolare. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

28 Fisici presocratici: Eraclito e Anassimandro
Per Eraclito il principio primo sempre "fu, è e sarà un fuoco eternamente vivente,che secondo misura si accende e secondo misura si spegne". “Il mondo di fronte a noi, il medesimo per tutti i mondi, non lo fece nessuno degli Dei né degli umani,ma fu sempre ed è e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spenge secondo misure.“ (Eraclito, “Frammenti”) « Principio degli esseri è l'infinito....da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo » ( Anassimandro, in “Simplicio”, “De physica”, 24, 13) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

29 Lucrezio, “De Rerum natura”
“Eadem sunt omnia semper.... nec magis id nunc est neque erit mox quam fuit ante.” Tutte le cose sono identiche sempre […]né ciò è ora, né sarà in avvenire più di quanto fu per l'innanzi. Cioè: nulla si crea e nulla si distrugge. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

30 Gli Stoici: Zenone e Cleante
Anche gli Stoici aderirono al mito dell'eterno ritorno come rotazione del cerchio su se stesso in un punto. Questo punto è il Fuoco, il Quale si identifica con la sostanza eterna primordiale e, in quanto la unifica e la pervade, viene chiamato anche Spirito. Il Fuoco-Spirito è Dio stesso visto come "ragione seminale" (Logoς sphrmatikoς) del mondo. Il mondo nasce e perisce secondo una vicenda ciclica (come già aveva sostenuto Empedocle): dopo un periodo di parecchie migliaia di anni, ha luogo una ekpurosin, una conflagrazione universale, nella quale tutto si dissolve nel fuoco; poi il fuoco artefice, che coincide con la ragione divina, contenente le ragioni seminali di tutte le cose, provvede a ricostruire il mondo, che ripercorre quindi un altro ciclo; questo nuovo mondo sarà perfettamente identico al precedente: é l' eterno ritorno dell'uguale, delle stesse cose e degli stessi eventi. Esso non può essere diverso dal precedente, perché se fosse diverso, ciò significherebbe che é migliore o peggiore del precedente, ossia che uno o l'altro non sarebbe il migliore dei mondi possibili, contraddicendo la tesi che l'azione razionale e provvidenziale della divinità dà sempre luogo al migliore dei mondi possibili. Riprendendo la connessione di Eraclito tra logoς e fuoco, i primi stoici (Zenone e Cleante), identificano il principio attivo con il fuoco artefice. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

31 Sant’Agostino di Ippona
S.Agostino, nella “Città di Dio” presenta le due concezioni opposte del tempo, la ciclica e la lineare, dimostrando quanto la prima sia fallace specialmente per quanto riguarda la teoria della reincarnazione delle anime, cioè della metempsicosi a cui la concezione ciclica conduce inevitabilmente. In questa concezione, non esistendo un principio del tempo, un punto in cui il movimento inizia,né una sua fine, ma il tutto svolgendosi in modo uguale da sempre e per sempre, la durata del cosmo, imitata dalla Ruota del tempo, è una ripetizione di eventi,chiamata con un termine preciso: anakylosis, cioè un ritorno eterno su se stesso. Agostino d’Ippona, Città di Dio, cap. XI Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

32 FISICA: le teorie dei fisici
La concezione biblica di un tempo lineare ha sostenuto il pensiero dell’uomo occidentale per almeno due millenni e ha sviluppato l’idea che il tempo esista come un unicum assoluto. La scoperta di Einstein che la velocità della luce appare la stessa a ogni osservatore, in qualsiasi modo si stia muovendo portò alla definizione della teoria della relatività e all’abbandono dell’idea che esista un tempo unico ed assoluto. “Per noi fisici credenti la distinzione fra passato, presente e futuro è solo un’ostinata illusione” < A. Einstein Quando i fisici tentarono di unificare la legge di gravità con la meccanica quantistica introdussero l’idea di tempo immaginario. Esso è indistinguibile dalle direzione nello spazio. Eppure se ci riferiamo al tempo reale che noi viviamo ci accorgiamo che c’è una grande differenza fra le direzioni avanti e indietro nel tempo. Esempio: Immaginiamo una tazza colma d’acqua che cade da un tavolo e va frantumarsi sul pavimento. Se filmiamo il fatto rivedendo la scena possiamo accorgerci se il movimento scenico va avanti o all’indietro. Se la scena è proiettata all’indietro vedremo i cocci riunirsi rapidamente e ricomporsi in una tazza che balza sul tavolo. Il tempo è regolato dalla seconda legge della termodinamica: questa dice che in ogni sistema chiuso il disordine o l’entropia aumenta sempre col tempo. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

33 La seconda legge della termodinamica
“...c'è una sola legge della natura - la seconda legge della termodinamica - che riconosce una distinzione fra passato e futuro. Questa legge è responsabile della freccia del tempo,quella proprietà a senso unico che non ha nulla di analogo nello spazio e che è distintamente riconosciuta dalla coscienza.” < Arthur. S. Eddington, “The Nature of Physical World” “Ogni forza F, applicata a un corpo libero di muoversi, produce un’accelerazione a del corpo, il cui modulo è direttamente proporzionale all’intensità della forza e inversamente proporzionale alla massa inerziale m del corpo. La forza agente e l’accelerazione prodotta hanno la stessa accelerazione e lo stesso verso: F= m a” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

34 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
L’aumento col tempo del disordine o dell’entropia è un esempio della cosiddetta freccia del tempo, qualcosa che distingue il passato dal futuro, dando al tempo una direzione ben precisa. Esistono almeno tre frecce del tempo ben distinte: - la freccia del tempo TERMODINAMICA - la freccia del tempo PSICOLOGICA (che è la direzione in cui noi sentiamo che trascorre il tempo, la direzione in cui noi ricordiamo il passato, ma non il futuro) - la freccia del tempo COSMOLOGICA (la direzione del tempo in cui l’universo si sta espandendo anziché contrarsi) La seconda legge della termodinamica risulta dal fatto che esistono tanti stati disordinati molto più numerosi di stati ordinati. (Se consideriamo i pezzi di un puzzle in una scatola vedremo che esiste un solo stato in cui tutti i pezzi formano una figura completa; di contro, esiste un numero grandissimo di disposizioni in cui i pezzi sono disordinati e non compongono un’immagine). “Per spiegare dove abbia le sue basi la struttura del cosmo e renderci conto dell'esistente distinzione tra passato e futuro è necessario rifarsi alla creazione dell'universo: al Big Bang. La struttura cosmica che è emersa dalla fornace primordiale aveva un grado elevatissimo di ordine; tutta l'attività successiva dell'universo si è svolta a spese di quell'ordine che è stato disgregato. Ne rimane ancora una quantità enorme, che non può però durare in eterno.” < Paul Davies “Universi possibili” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

35 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
Il teorema ergodico Nonostante la teoria più comunemente accettata sia quella secondo cui l’universo ha avuto origine dal ‘big bang‘ da esso si espande verso un punto finale di morte di calore, altri scienziati ritengono che l’universo sia in uno stato stazionario in cui la materia viene continuamente creata e distrutta, senza che sia possibile individuare un punto di inizio e un punto di fine. Secondo il teorema ergodico “indipendentemente dallo stato in cui l’universo finito può esistere in un dato momento, esso passerà attraverso tutti gli altri stati possibili in una determinata sequenza per ritornare in seguito allo stato di partenza.” George David Birkhoff (Overisel, 21 marzo 1884 – Cambridge, 12 novembre 1944) è stato un matematico statunitense, noto soprattutto per quello che oggi viene chiamato teorema ergodico. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

36 Il tempo come quarta dimensione
Nel primo capitolo del libro “La Macchina del Tempo” di H. G. Wells, l’autore spiega tramite un esempio le quattro dimensioni che esistono nel mondo. “Si disegna su un foglio un punto, una retta, un piano e un cubo e il protagonista spiega. Il punto non esiste nella realtà perché non ha dimensioni. La retta non esiste perché ha solo una dimensione. Il piano non esiste perché è bidimensionale. Il cubo può esistere perché ha tre dimensioni, però con il trascorrere del tempo un oggetto si corrode. In quel caso si corroderà il foglio su cui il cubo è disegnato, non il cubo stesso. Quindi il cubo non esiste nella realtà ma esiste solo il foglio su cui è disegnato. Quindi la nostra realtà non è tridimensionale, ma ha quattro dimensioni, e la quarta è, appunto, il tempo.” Dal nostro punto di riferimento, o da quanto percepito dai nostri sensi, le dimensioni sono quattro. Appunto tre per lo spazio ed il tempo che è inteso come movimento. Grazie alle tre dimensioni spaziali percepiamo i corpi, le cose e grazie al tempo ne percepiamo il movimento; ma spazio e tempo non sono indipendenti, o meglio, per la teoria della relatività, lo sembrano a basse velocità. Spazio e tempo non sono tra loro indipendenti ad alte velocità, come quelle alle quali si muove un particella, ma esistono relazioni analitiche invertibili che legano posizione e velocità, quindi spazio e tempo. Per cui noi viviamo in una sola dimensione che é lo spazio - tempo. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

37 Approfondimenti: Nietsche
L'eterno ritorno dell'uguale, più spesso detto soltanto ETERNO RITORNO, è uno dei capisaldi della filosofia di Friedrich Nietzsche. Il ragionamento che sta dietro al semplice - ma spesso incompreso - concetto di Nietzsche è il seguente: “In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.” Nel caso specifico del discorso esistenziale, Nietzsche fa notare che (essendo le "cose del mondo" di numero finito, e il tempo infinito) anche nella vita umana questo concetto è applicabile: ogni evento che possiamo vivere, l'abbiamo già vissuto infinite volte nel passato, e lo vivremo infinite volte nel futuro. La nostra stessa vita è già accaduta, e in questo modo perde di senso ogni visione escatologica della vita. La caratteristica fondamentale dell'Oltreuomo sta proprio nella sua capacità di non pensare più in termini di passato e futuro, di principi da rispettare e scopi da raggiungere, ma vivere "qui e ora" nell'attimo presente. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

38 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
L' "eterno ritorno" dell'uguale è visto come una trappola statica alla quale è sottoposto il destino umano, che nel suo movimento apparente tra passato, presente e futuro, è immobilizzato dalle "scorie indigeste" della propria storia personale, dal proprio substrato psichico, che rallenta e alla fine impedisce ogni progresso o cambiamento. È proprio questo passato che, rielaborato prima dalla mente del singolo, poi dalle masse tramite processi storici e culturali, si traduce in "ragione apollinea" (il “Super Io” freudiano), andando ad inibire progressivamente e a rimuovere l' "istinto dionisiaco" proprio dell'era presocratica, preplatonica e precristiana. Al contrario, tagliare col passato, per sempre e continuativamente, vuol dire rompere il circolo perpetuo che vizia il destino dell'uomo; rompere il cerchio dell'"eterno ritorno" significa aprirsi la via ad un nuovo tempo rettilineo, proiettato verso l'infinito e infinitamente diverso da sé, in costante cambiamento. Miniatura araba del XVIII secolo rappresentante un uroboro Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

39 L’eterno ritorno ne “La Gaia Scienza”
« Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [...]. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina"?. Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: "Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?" graverebbe sul tuo agire come il pensiero più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? » (Friedrich Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 341.) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

40 L’eterno ritorno in “Così parlò Zarathustra”
"Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all'indietro, dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e avanti è un'altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo". Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?". "Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo". [...] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque anche se stesso? [...] E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via non dobbiamo ritornare in eterno?". Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quand'ero bambino, in infanzia remota: allora udii un cane ululare così. [...] D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna. Ma qui giaceva un uomo! Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

41 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
E proprio qui! il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, adesso mi vide accorrere e allora ululò di nuovo, urlò: avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo? E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! Non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: "Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me buono o cattivo gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. [...] Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l'enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una previsione: che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più nere fra le cose strisceranno nelle fauci? Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente; e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! » (Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così parlò Zarathustra.) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

42 Approfondimenti: Cosmogonia e Orfismo
Per “COSMOGONIA” si intende una spiegazione delle origini del mondo. Bisogna comunque precisare che la parola greca per designare il “mondo”, kosmo", sottende un significato che non collima completamente con il nostro. Innanzitutto, per un Greco il termine kosmos indica l’ordine, l’organizzazione armoniosa. Di conseguenza si chiama cosmogonia il processo per il quale il mondo si è organizzato così come noi lo conosciamo; con “cosmogonia” si dovrebbe dunque intendere la “NASCITA DELL’ORDINE NEL MONDO”. La cosmogonia implica l’organizzazione degli elementi fisici (lo spazio e il tempo) come quella del mondo religioso e sociale. Una cosmogonia include pertanto una TEOGONIA (cioè un racconto mitico intorno alle origini degli dèi), e, talora, anche una ANTROPOGONIA (cioè una narrazione di natura mitologica inerente la nascita degli uomini). La differenza tra cosmogonia e teogonia consiste nel fatto che la cosmogonia racconta come si è organizzato il “kosmo", mentre la teogonia spiega la situazione, la gerarchia e le funzioni degli dèi del pantheon. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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In ogni cosmogonia c’è uno STADIO INIZIALE completamente diverso rispetto alla situazione nella quale l’uomo si trova a vivere; situazione che, in realtà, è la CONSEGUENZA ultima di quel processo organizzativo messo in moto dalla cosmogonia. Tutto ciò accade in un tempo primigenio e sacro. All’origine le cose non avevano ancora nome, perché non erano state differenziate, non esistevano in quanto elementi distinti; uno dei risultati dell’organizzazione del mondo è il fatto che ogni cosa abbia il suo nome. Secondo le cosmogonie, il PROCESSO di organizzazione del mondo può essere quasi MECCANICO, e quindi precedente alla comparsa delle divinità, oppure può presentarsi come una sequela di avvenimenti fondanti provocata e organizzata da una DIVINITA’ DEMIURGICA. In ogni caso, in tutte le cosmogonie greche conosciute l’organizzazione del mondo è sempre avvertita come un ordinamento e mai come una creazione. Da uno stadio in cui le cose sono prive di forma e disposte disordinatamente, in una generale staticità, si passa a uno stadio cinetico nel quale si organizza la materia. Il passaggio da uno stadio indifferenziato iniziale a quelli successivi si realizza proprio per mezzo della DISSOCIAZIONE DEGLI ELEMENTI OPPOSTI. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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Esiodo: Teogonia CAOS TERRA TARTARO EROS CIELO EREBO NOTTE OCEANO e CRONO ETERE GIORNO Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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Orfismo Sull’orfismo come fenomeno religioso, filosofico e soprattutto letterario, abbiamo notizie a partire dal VI sec. a.C. e fino alla fine dell’impero romano (IV d. C.). L’orfismo è innanzitutto una religione del libro, nella quale la rivelazione si realizza mediante la trasmissione di un logos, di un discorso sugli dèi; tramite l’iniziazione sapienziale e non mediante un’esperienza di visione, un’esperienza patetica di contatto immediato con il divino. Le fonti più antiche mostrano già gli orfici come dei gruppi di fedeli che appartengono a una religione “misteriosofica” e distinta da quella ufficiale (la religione olimpica). La differenza fondamentale è da situare nella credenza da parte degli orfici di un DESTINO FELICE e MIGLIORE dopo la morte del corpo. Per loro, la vita mortale non rappresenta la vera vita, ma una parentesi che l’iniziato deve superare prima di poter godere della felicità eterna. Il paradiso promesso ai credenti orfici si trova nell’aldilà ed appare descritto come un locus amoenus tradizionale: un luogo con fontane, prati e boschi. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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I principali dèi orfici sono divinità ben conosciute nel pantheon olimpico: DIONISO, PERSEFONE, ZEUS, ADES. Per spiegare la loro situazione nel mondo presente, gli orfici fanno appello al mito di Dioniso. I Titani, esseri mostruosi ma antenati dell’umanità, si sono travestiti e hanno ingannato Dioniso bambino. Essi hanno ucciso e smembrato il dio, poi lo hanno mangiato. Come castigo per questo crimine i Titani sono stati fulminati da Zeus. Gli uomini, per essere nati dalle ceneri dei Titani, sono gli eredi di questa sorta di colpa antecedente. Il castigo per loro è l’esistenza terrena e, per purificarsi da questa macchia, dovranno rispettare un certo modello di vita e celebrare diversi riti. Il mito di Dioniso fa parte delle teogonie orfiche, e il fatto che sia stato scelto per essere utilizzato nel rituale si spiega perché questo racconto mitico comprende tutti gli elementi adatti a una DOTTRINA di SALVEZZA. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

47 La Teogonia del papiro di Derveni
La versione più antica di una teogonia orfica si trova nel Papiro di Derveni (datato tra il 340 e il 320 a.C.) e si è conservata solo in uno stato frammentario. Un autore anonimo cita e glossa alcuni versi di un antico poema di contenuto teogonico, che risale al 500 a.C. circa. Si tratta dunque del testo orfico più antico pervenuto a noi. NOTTE (esiste dall’inizio dei tempi) CIELO (il primissimo che regna) CRONO (castra e detronizza il padre) ZEUS (detronizza il padre Crono) ZEUS DEMIURGO (crea il mondo secondo un progetto stabilito e intelligente, diverso da quello precedente, pieno di violenza e disordine) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

48 Teogonia di Eudemo NOTTE CIELO TERRA OCEANO e TETI
Uno schema un po’ più ampio presenta la cosiddetta teogonia orfica di Eudemo. Noi la conosciamo grazie alle notizie del neoplatonico Damascio (V-VI d. C.) che, a sua volta, la lesse nell’opera di Eudemo, un filosofo del secolo IV a.C. allievo di Aristotele. Eudemo avrebbe studiato da parte sua una teogonia orfica che risaliva almeno al sec. V a.C. ed era attribuita a Orfeo; è possibile, dunque, che gli stessi Platone e Aristotele abbiano conosciuto il nostro poema. NOTTE CIELO TERRA OCEANO e TETI FORCIDE, CRONO, REA e gli altri TITANI ZEUS, ERA, POSEIDONE e ADES DIONISO Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

49 Teogonia di Gerolamo ed Ellanico
Ancora grazie al neoplatonico Damascio, conosciamo una terza teogonia orfica, ossia quella di Gerolamo ed Ellanico. Sembra che Damascio non abbia una conoscenza diretta di questa teogonia, ed abbia attinto esclusivamente dalle opere di Gerolamo ed Ellanico, personaggi sui quali non possediamo notizie certe al punto da non poter asserire se si tratti o meno di due autori distinti. La composizione della teogonia è datata probabilmente al II a.C, ma questo non impedisce che siano stati utilizzati elementi che risalgono a una data molto più antica. ACQUA E FANGO (asessuati) TEMPO (assieme a Necessità) ERACLE (drago alato con testa di toro e leone, rappresentante di tutti gli animali) ETERE, CAOS, EREBO RIPARTIZIONE ACQUE PRIMORDIALI UOVO Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

50 MOIRE, CENTIMANI, CICLOPI
UOVO CIELO FANES, EROS o “colui che brilla”, dio androgino con ali d’oro e testa di toro TERRA TITANI MOIRE, CENTIMANI, CICLOPI CRONO detronizza il padre Cielo ZEUS detronizza il padre Crono e divora FANES ZEUS si unisce incestuosamente alla madre REA PERSEFONE - KORE DIONISO Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

51 Teogonie delle Rapsodie
Le Rapsodie, opera in 24 canti di un autore sconosciuto sono il più lungo dei poemi afferenti alla tradizione orfica. Si possono datare a poco prima del 100 a.C. I filosofi neoplatonici dei secoli V e VI d.C. (Damascio, Olimpiodoro e Proclo) ne hanno trasmesso numerosi frammenti che diversi filologi si sono sforzati di disporre in sequenza al fine di ricostruire la successione degli eventi. TENEBRE, NEBBIA TENEBROSA, NOTTE TEMPO accompagnato da NECESSITA’ ETERE e ABISSO (CAOS) UOVO contenente FANES (dio sintesi di tutti gli animali) NOTTE CIELO MOIRE, CENTIMANI E CICLOPI TERRA SETTE TITANIDI E SETTE TITANI (CRONO) Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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CRONO castra CIELO SORELLA REA ZEUS UBRIACA E CASTRA CRONO S’INSEDIA SULL’OLIMPO E DISTRIBUISCE I POTERI DIVINI IN UN NUOVO ORDINE POSEIDONE - MARE PLUTONE - INFERI La storia dell’umanità, secondo gli orfici, comincia con la violenza esercitata su Rea-Demetra da suo figlio Zeus, atto che provoca la nascita di Persefone. Zeus, assunte le sembianze di un serpente, violenta anche questa e, come risultato, Persefone partorisce Dioniso a Creta. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

53 Influssi orfici ne “Gli Uccelli” di Aristofane
Le commedie di Aristofane erano rappresentate ad Atene in occasione delle feste religiose in onore di Dioniso, chiamate Lenee e Dionisie. L’opera fu dunque rappresentata durante la guerra del Peloponneso, a ridosso della disastrosa spedizione di Atene contro Siracusa, e incarna il desiderio di fuggire da un’atmosfera opprimente alla ricerca di una vita libera. Aristofane intende criticare le coercizioni della vita cittadina (come le tasse e i commercianti) e scrive perciò una commedia caratterizzata da una visione utopica, nella quale immagina una città ideale. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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L’argomento degli Uccelli è abbastanza semplice: un ateniese ingegnoso progetta di costruire una città sulle nuvole e costringe gli dèi ad accettare di sottomettersi agli uccelli; questi ultimi, allora, saranno le nuove divinità. In questa commedia antica, c’è un eroe comico che deve affrontare un problema fondamentale per la sua felicità e quella dei suoi. Il nostro eroe è Pistetero, la cui funzione è quella di convincere gli uccelli ad unire le loro forze e vincere gli uomini e gli dèi. Si tratta di una commedia sovversiva che rompe l’ordine stabilito tra il mondo divino e quello umano. Non solo gli uomini si ribellano a Zeus, ma anche gli uccelli, e l’intento è quello di ripristinare l’ordine del tempo di Crono quando gli dèi, gli uomini e gli animali convivevano in maniera armoniosa. Aristofane inventa una cosmogonia nella quale gli uccelli occupano una posizione antichissima. In genere, le cosmogonie possono rispondere a funzioni politiche e rituali. La cosmogonia degli Uccelli ha invece una funzione puramente comica. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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Al commediografo greco interessa stabilire l’origine e la supremazia degli uccelli, a differenza delle cosmogonie tradizionali che motivano, invece, la posizione degli uomini. Per questa ragione Aristofane si rifà a una cosmogonia dell’uovo – così come nelle cosmogonie orfiche –, per sostenere che gli uccelli sono gli esseri più antichi del mondo e, di conseguenza, le divinità primordiali. È chiaro che Aristofane prende come modello le cosmogonie tradizionali, per esempio quella di Esiodo oppure quelle degli orfici, e fa la parodia di numerosi elementi presenti in queste opere. In tal senso, la cosmogonia orfica dell’uovo viene utilizzata come fondamento per l’ornitogonia, ed è di matrice orfica anche la presentazione della Notte come elemento primordiale. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

56 Aristofane: Gli Uccelli
Orsù uomini nati a una vita tenebrosa, simili alle stirpi delle foglie, esseri fragili, figure plasmate di fango, razza inconsistente di ombra, senza ali, che vivono un giorno, sventurati mortali, uomini simili a un sogno, prestate attenzione a noi, gli immortali e i sempre viventi, abitanti dell’etere, che mai non invecchiano, che meditano pensieri eterni, affinché, dopo avere ascoltato da noi ogni cosa in modo veritiero riguardo alle cose del cielo, diventiate sicuri conoscitori della natura degli uccelli, dell’origine degli dèi e dei fiumi, dell’Erebo e del Caos, da parte mia direte a Prodico di piangere fino alla fine dei suoi giorni. In principio c’erano il Caos e la Notte e il buio Erebo e l’ampio Tartaro, ma non esisteva la Terra, né l’aria, né il cielo. Da Erebo, nel seno sconfinato, la Notte dalle ali di tenebra generò dapprima un uovo non fecondato, dal quale col trascorrere delle stagioni scaturì Eros, il desiderato, che ha il dorso splendente con due ali d’oro, che è simile ai turbini dei venti veloci. E questo, congiunto di notte al Caos alato nell’ampio Tartaro, covò la nostra stirpe, e fu la prima che condusse alla luce. Neppure la razza degli immortali esisteva prima che Eros congiungesse tutte le cose. Quando si congiunsero gli uni con gli altri (sc. Gli esseri già nati), nacquero il cielo e l’oceano e la terra, e la razza immortale di tutti gli dèi beati: ecco perché noi siamo di molto i più antichi fra tutti i beati. E che siamo figli di Eros è evidente da molti indizi: voliamo e viviamo con gli innamorati Uccelli, vv. 690 sgg Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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Nel v. 693 possiamo sottolineare l’abilità stilistica del commediografo che usa il verbo esistenziale “ειμί” e non “γένετο”, per mostrare che gli esseri sono primigeni, ossia che non diventano, ma sono eterni, esistono da sempre. Per lo stesso motivo, nel v. 694, insiste nel dire che la Terra e il Cielo non esistevano ancora, col risultato di far risaltare quanto gli uccelli siano più antichi di questi elementi (Caos, Notte, Erebo e Tartaro). Mentre nella versione orfica è il Tempo che genera l’uovo, nella versione di Aristofane, è invece la Notte a farlo. Aristofane conferisce qui alla Notte un ruolo molto importante come elemento primordiale, simile a quello che essa ha in alcune cosmogonie orfiche. Nei vv. 696 sg., Aristofane racconta la nascita di Eros da un uovo; e proprio nella poesia teogonica orfica accade spesso che Eros-Fanes nasca da un uovo. La descrizione di Eros ricorda infatti l’apparizione di Fanes nella Teogonia di Gerolamo e Ellanico, trasmessa da Damascio, dove si dice che Fanes “possiede ali d’oro sulle spalle” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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Nel v. 698, il Caos porta l’epiteto “alato”, che non è caratteristico della tradizione orfica. Aristofane lo usa, invece, per amplificare l’antichità degli uccelli. Le entità primigenie Caos e Tartaro compaiono nuovamente: la coppia questa volta è costituita da Eros e Caos, ma la loro unione si verifica nel Tartaro e di notte. Si vede dunque l’interesse deliberato di Aristofane volto a combinare elementi primordiali. Dalla prima unione sessuale, quella di Eros e Caos, nascono gli uccelli. Nel v. 699 si rompe la solennità del contesto attraverso l’uso del verbo “covare”, derivato da “neotton", “pollo”. Nonostante questo, Aristofane non rinuncia ad utilizzare la terminologia propria delle genealogie; egli infatti ricorre al sostantivo “genos" “razza”, o all’espressione “la condusse alla luce”, che ricorda un passo di Esiodo (Teogonia, v. 626). Il v. 700 mette l’accento sul fatto che non esisteva ancora la razza degli immortali prima degli uccelli. Poi compare un nuovo elemento: la mescolanza di tutte le cose per opera di Eros: si tratta di una concezione non orfica, ma propria di Empedocle. Nei vv compaiono gli esseri che seguono quelli primordiali nelle teogonie: Cielo, Oceano e Terra, quindi gli dèi con gli epiteti tradizionali di “immortali” e “beati”. Alla fine (v. 702) Aristofane è convinto di avere dimostrato, comicamente si capisce, che gli uccelli sono molto più antichi degli dèi e di molti altri esseri primigeni. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

59 Mircea Eliade: Il mito dell’eterno ritorno
L’autore analizza i riti di moltissime civiltà nei giorni che precedono e seguono la fine dell’anno. Egli nota che “Esiste ovunque una concezione della fine e dell’inizio di un periodo temporale, fondata sull’osservazione dei ritmi biocosmici, che si inquadra in un sistema più vasto, quello delle purificazione periodiche e della rigenerazione periodica della vita […] Una rigenerazione periodica del tempo presuppone, sotto una forma più o meno esplicita, e in particolare nelle civiltà storiche, una creazione nuova, cioè una ripetizione dell’atto cosmogonico. E questa concezione di una creazione periodica, cioè della rigenerazione ciclica del tempo, pone il problema dell’abolizione della ‘storia’.” Poi Eliade analizza il cerimoniale dell’anno nuovo babilonese, l’akîtu, e lo divide in cinque parti: Il primo atto delle cerimonie rappresenta la dominazione di Tiamat e segna quindi una regressione nel periodo mitico che precede la creazione.[…]Assistiamo al capovolgimento di ogni ordine sociale, non un segno che non evochi la confusione universale, il caos; assistiamo, si potrebbe dire ad un ‘diluvio’ che annienta tutta l’umanità per preparare la via all’avvento di una specie umana nuova e rigenerata. D’altra parte, nella tradizione babilonese del diluvio, come è stata conservata nella tavoletta XI del’epopea di Gilgamesh, viene ricordato che Utanapishtim, prima di imbarcarsi sulla nave che aveva costruito per sfuggire al diluvio, aveva organizzato una festa ‘come quella del giorno dell’anno nuovo’. La creazione del mondo, che avvenne in illo tempore, viene così riattualizzata ogni anno. L’uomo partecipa direttamente a quest’opera cosmogonica (lotta tra i due gruppi di comparse); questa partecipazione lo proietta nel tempo mitico, rendendolo contemporaneo della cosmogonia. La ‘festa delle sorti’ è una formula della creazione, in cui si decide della ‘sorte’ di ogni mese e di ogni giorno. La ierogaima realizza in un modo concreto la ‘rinascita’ del mondo e dell’uomo.” Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

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In seguito, l’autore fa una disamina dei riti delle varie civiltà e li suddivide in sei parti che possiamo riscontrare nella quasi totalità di questi. “1) I dodici giorni intermedi prefigurano i dodici mesi dell’anno. 2) Durante le dodici notti corrispondenti i morti vengono in processione a visitare la loro famiglia e spesso questa visita avviene nel quadro del cerimoniale delle società segrete di uomini. 3) A questo punto i fuochi vengono spenti e riaccesi 4) E’ il periodo delle iniziazioni, di cui precisamente l’estinzione e la rianimazione del fuoco costituiscono uno degli elementi essenziali. 5) La lotta rituale tra due gruppi avversari. 6) Presenza dell’elemento erotico. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

61 Stephen Hawking: Dal Big Bang ai buchi neri
Nel libro “Dal big bang ai buchi neri” l’astrofisico americano Stephen Hawking spiega, attraverso un lungo discorso, le teorie riguardo la formazione e l’evoluzione dell’universo. Ecco alcuni brani più interessanti. Supponiamo che Dio abbia deciso che l’universo debba finire in uno stato di alto ordine, ma che non abbia alcuna importanza in quale stato sia iniziato. In principio l’universo sarebbe probabilmente in uno stato molto disordinato. Ciò significherebbe che il disordine è destinato a diminuire col tempo. Gli esseri umani che si trovassero ad osservare queste scene vivrebbero però in un universo in cui il disordine diminuisce con il tempo. Io (N.B. S. Hawking) sosterrò che tali esseri avrebbero una freccia del tempo psicologica orientata all’indietro. In altri termini, essi ricorderebbero gli eventi del futuro e non del passato. Quando la tazza è rotta, essi ricorderebbero di averla vista integra sul tavolo, ma vedendola sul tavolo non ricorderebbero di averla vista in pezzi sul pavimento. E’ piuttosto difficile parlare della memoria umana perché non sappiamo nei particolari in che modo funzioni il cervello. […] Elisa Lalumera e Andrea Vittorio

62 Elisa Lalumera e Andrea Vittorio
L’universo avrebbe avuto inizio con un periodo di espansione esponenziale o “inflazionaria” in cui le sue dimensioni sarebbero aumentate di un fattore molto grande. Nel corso di tale espansione le fluttuazioni di densità sarebbero rimaste dapprima piccole, ma in seguito avrebbero cominciato a crescere. Nelle regioni in cui la densità era leggermente maggiore della media si sarebbe avuto un rallentamento dell’espansione per opera dell’attrazione gravitazionale della massa extra. Infine, tali regioni avrebbero cessato di espandersi e si sarebbero contratte a formare galassie, stelle ed esseri come noi. L’universo sarebbe iniziato in uno stato omogeneo e ordinato e sarebbe diventato grumoso e disordinato col passare del tempo. Ciò spiegherebbe l’esistenza della freccia del tempo termodinamica. […] Per compendiare, le leggi della scienza non distinguono fra le direzioni del tempo in avanti e all’indietro. Ci sono però almeno tre frecce del tempo che distinguono il passato dal futuro. Esse sono la freccia termodinamica (la direzione del tempo in cui aumenta il disordine), la freccia psicologica (la direzione del tempo in cui ricordiamo il passato e non il futuro) e la freccia cosmologica(la direzione del tempo in cui l’universo si espande anziché contrarsi). Ho mostrato che la freccia psicologica è essenzialmente identica con la freccia termodinamica, cosicché le due puntano sempre nella stessa direzione. La proposta dell’assenza di un confine per l’universo predice l’esistenza di una freccia del tempo termodinamica ben definita perché l’universo deve cominciare in uno stato omogeneo e ordinato. E la ragione per cui noi vediamo questa freccia termodinamica accordarsi con lla freccia cosmologica è che forme di vita intelligente possono esistere soltanto nella fase di espansione. La fase della contrazione non sarà adatta perché non ha una freccia del tempo termodinamica forte. Elisa Lalumera e Andrea Vittorio


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