11:30-12:30 Introduzione ai rivelatori a fotoemissione.

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Transcript della presentazione:

11:30-12:30 Introduzione ai rivelatori a fotoemissione

Rivelatori per l’Astronomia Spaziale SILVANO Fineschi Istituto Nazionale di Astrofisica Osservatorio Astronomico di Torino

08-3 Effetto fotoelettrico Nel 1887 Hertz aveva casualmente scoperto che illuminando una placca di zinco con delle radiazioni ultraviolette il metallo si caricava elettricamente. Solo alcuni anni dopo si capì che quando una superficie metallica viene colpita da radiazione di abbastanza alta frequenza essa libera degli elettroni. La spiegazione a questo fenomeno sta nel fatto che l’energia della radiazione incidente si trasforma in energia cinetica degli elettroni colpiti, che di conseguenza si muovono. Quando questa energia cinetica supera la forza che tiene legati gli elettroni all’atomo (energia di soglia fotoelettrica), essi si staccano dalle proprie orbite. I risultati ottenuti dallo studio di questo fenomeno si possono schematizzare in tre punti fondamentali:  Si ha emissione fotoelettrica solo se la frequenza della radiazione incidente è superiore al valore di soglia fotoelettrica  L’energia cinetica degli elettroni emessi dipende dalla frequenza della radiazione incidente e non dalla sua intensità  Il numero degli elettroni emessi per unità di tempo aumenta all’aumentare dell’intensità della radiazione elettromagnetica incidente

08-44 Effetto fotoelettrico: la teoria (I) Einstein nel 1905 riuscì a spiegare l’effetto fotoelettrico supponendo che l’energia dell’onda fosse concentrata in pacchetti discreti chiamati fotoni. Egli considerò che l’energia cinetica acquistata dagli elettroni doveva essere equivalente all’energia posseduta dai fotoni: dove W o rappresenta il lavoro di estrazione, v max rappresenta la velocità massima con cui vengono espulsi gli elettroni, rappresenta la frequenza e h è la costante di Planck. Posto che l’energia cinetica sia minima ( E k = 0 ), e ponendo W o = h o si ottiene che  o (soglia fotoelettrica); si deduce che o rappresenta la frequenza minima che deve possedere la radiazione per estrarre un elettrone dal metallo. L’intensità del raggio incidente determina invece il numero degli elettroni “estratti” dal metallo: più sono i fotoni incidenti, più elettroni verranno a contatto con essi e quindi più elettroni saranno emessi. WoWo h h

08-55 L’effetto fotoelettrico può essere considerato come un processo a tre stadi. 1. Assorbimento ed eccitazione Assorbimento: dove R è la riflettività (bassa), e  è il coefficiente di assorbimento (alto) Eccitazione: nei metalli, si possono creare elettroni liberi; nei semiconduttori si possono creare coppie elettrone-lacuna 2. Trasporto elettronico Si hanno prevalentemente processi di scattering elettrone-elettrone, per cui un un elettrone mobile può eccitarne altri (l’elettrone iniziale perde un quantitativo  E di energia che cede all’elettrone urtato e che può diventare mobile); si genera una popolazione di fotoelettroni (tipicamente uno veloce e molti lenti) con un processo random walk; si hanno continue perdite di energia sul reticolo cristallino, sugli stati trappola, per ricombinazione 3. Estrazione alla superficie Un elettrone che arriva alla superficie con energia E > 0 può essere estratto purché la sua energia sia tale da superare il “livello del vuoto” Effetto fotoelettrico: la teoria (II)

08-66 Effetto fotoelettrico: efficienza di conversione Si vede come in tutte le fasi del processo di fotoemissione vi siano delle perdite che condizionano l’efficienza del sistema. Si definiscono:  Efficienza quantica: la probabilità che un fotone interagisca con il materiale e produca almeno un fotoelettrone. È un numero minore di 1  Quantum yield: il numero medio di fotoelettroni prodotti per ogni fotone interagente

08-77 Fotocatodo Il fotocatodo è un elettrodo che emette fotoelettroni quando viene investito da radiazione di opportuna lunghezza d’onda. Il fotocatodo è la parte del rivelatore a fotoemissione che viene investito dalla radiazione: l’efficienza di un tale rivelatore dipende soprattutto dalle caratteristiche del fotocatodo stesso. Si distinguono due diverse classi di fotocatodi:  Fotocatodo trasparente: l’emissione di fotoelettroni avviene dalla parte opposta a quella di incidenza della radiazione (fenomeno trasmissivo)  Fotocatodo opaco: l’emissione di fotoelettroni avviene dalla stessa parte di incidenza della radiazione (fenomeno riflessivo) Il fotocatodo deve lavorare in vuoto: se il rivelatore è sigillato da una finestra, la risposta del fotocatodo alle lunghezze d’onda corte è tipicamente limitata dalla banda passante della finestra stessa; alle lunghezze d’onda lunghe, la risposta dipende dalla composizione chimico-fisica del materiale fotoemittente.

08-88 Fotocatodi: caratteristiche (I)

08-99 Fotocatodi: caratteristiche (II)

08-10 Fotocatodi: caratteristiche (III)

08-11 Fotocatodi: risposta spettrale (I)

08-12 Fotocatodi: risposta spettrale (II)

08-13 Il fotomoltiplicatore è un rivelatore ottico che consiste di un fotocatodo, di una sezione ottico-elettronica di ingresso, di uno stadio moltiplicatore (9-13 dinodi) e da un anodo; tutto è sigillato in un vetro sotto vuoto. Il fotoelettrone prodotto (primario) va ad incidere sul primo dinodo, da dove può espellere un certo numero di elettroni secondari (emissione secondaria). Questi vanno ad incidere sul dinodo successivo innescando un processo a cascata di moltiplicazione di elettroni ( e – ). Fotomoltiplicatore

08-14 Il channeltron (CEM) Il channeltron (channel electron multiplier) è un rivelatore di particelle cariche e di fotoni. Esso è costituito da un tubicino di diametro interno pari a circa 1 mm, costruito con un speciale vetro drogato al piombo. Questo vetro presenta delle caratteristiche di alta resistività e di elevata emissione secondaria. I channeltron tipicamente non sono mai rettilinei per evitare il feedback ionico (gli elettroni nel tubo ionizzano il gas residuo, gli ioni che vanno in direzione opposta cadono sul fotocatodo provocando l’emissione di altri elettroni e danneggiando il fotocatodo stesso): incurvando il canale, si riduce il tempo di volo degli ioni e quindi il feedback ionico. Il guadagno che si riesce ad avere in questo modo arriva sopra 10 8.

08-15 Il channeltron (CEM): modi operativi Un CEM può operare in due modi sostanzialmente diversi:  Modo analogico: la corrente letta in uscita dal dispositivo è proporzionale all’intensità del segnale in ingresso. Il CEM in questo caso è mantenuto ad un guadagno relativamente basso  Conteggio di impulsi (o conteggio di fotoni ): se il guadagno del CEM è sufficientemente elevato, si possono rivelare i singoli eventi. In questo caso, l’uscita del CEM è data da una serie di impulsi di segnale dato dalla saturazione del CEM Quando il CEM lavora in saturazione, la carica spaziale vicino all’uscita dal canale è estremamente elevata. In pratica, la densità di carica negativa è tale da respingere fortemente gli elettroni secondari emessi dalle pareti del canale. Quando questi elettroni vanno nuovamente ad urtare contro la parete del canale hanno acquisito poca energia cinetica ed originano un solo elettrone secondario. Si ha quindi un equilibrio dinamico, definito regime di saturazione.

08-16 La microchannel plate (MCP) Il CEM non ha intrinsecamente la capacità di risolvere spazialmente i fotoni incidenti. Per poter determinare la posizione dei fotoni incidenti si utilizzano i rivelatori a microchannel plate (MCP). Questi rivelatori sono basati sulla possibilità di realizzare una matrice di CEM allineati e fusi tra di loro (diametro dei canalini 2-25  m) avente spessore mm. Ogni canalino si comporta come un fotomoltiplicatore a dinodo continuo, e quindi l’effetto di moltiplicazione degli elettroni conserva l’informazione spaziale con una risoluzione data dalla MCP.

08-17 MCP: realizzazione (I) Dopo aver tagliato la MCP, si effettua l’etching chimico per realizzare i canalini, ed infine si deposita un materiale conduttore (Inconel, oppure Ni-Cr) sulle due facce della MCP per formare gli elettrodi. La deposizione è fatta in modo tale da penetrare uniformemente dentro ai canalini. La sola MCP (senza fotocatodo) è sensibile alla radiazione di lunghezza d’onda compresa tra 5 e 100 nm con discreta efficienza quantica. Per migliorare le prestazioni ed estendere il range di sensitività si deposita un fotocatodo sulla MCP (fotocatodo opaco) oppure sulla finestra che sigilla il rivelatore (fotocatodo semitrasparente).

08-18 MCP: realizzazione (II) Foto al microscopio elettronico di una MCP con pori di 2  m di diametro prima e dopo il processo di etching.

08-19 Per avere guadagni elevati, oppure per lavorare in conteggio di fotoni (regime di saturazione), si devono utilizzare configurazioni a due (Chevron) o tre (Z- stack) MCP. Rivelatori a MCP: Chevron e Z-stack

08-20 MCP: readout con fosforo (Image Intensifier Tubes)

08-21 Modalità analogica con readout a fosforo Il rivelatore a MCP con readout su uno schermo con fosforo è tipicamente utilizzato in regime analogico. Infatti, di solito sul retro di questo sistema si accoppia un sensore di immagine, ad esempio tramite un opportuno sistema ottico, e si ottiene così un’immagine intensificata di quella proiettata in ingresso alla MCP (talvolta anche con una conversione in lunghezza d’onda). L’accoppiamento ottico può essere fatto tramite un sistema a lenti oppure tramite una accoppiatore a fibra ottica.

08-22 Intensified CCD for Sounding-rocket Coronagraph (I)

08-23 Intensified CCD for Sounding-rocket Coronagraph (II)

08-24 Intensified CCD for Sounding-rocket Coronagraph (III)

08-25 Intensified CCD for Sounding-rocket Coronagraph (III)

08-26 Modalità in conteggio di fotoni Tuttavia molte applicazioni astronomiche, che sono caratterizzate da un basso o bassissimo segnale, necessitano di osservazioni in regime di conteggio di fotoni: ad esempio spettroscopia di sorgenti deboli, osservazioni della corona solare estesa, oppure osservazioni nella regione dell’ultravioletto da vuoto o nei raggi X. In questi casi il flusso di radiazione è costituito da pochi fotoni al secondo per pixel o anche meno. Siccome segnali così bassi possono essere facilmente “sommersi” dal rumore del rivelatore, è preferibile utilizzare rivelatori a MCP in regime di conteggio di fotoni. Anche in questo caso si possono utilizzare sistemi con uscita su uno schermo al fosforo, ma usando metodi di lettura diversi da quello a integrazione. Tipicamente, il rivelatore viene letto velocemente (decine di frames al secondo) per avere i singoli impulsi isolati e non sovrapposti, e spesso poi si utilizzano algoritmi di centroiding per ottenere la massima risoluzione spaziale. Molto più spesso però in questi casi si va a “leggere” direttamente la posizione della carica prodotta in uscita della MCP, evitando quindi la conversione elettroni-fotoni visibili. Il sistema è più efficiente, ma deve lavorare tutto in vuoto con opportuni sistemi di “lettura” della carica elettrica. In questi rivelatori il pixel non esiste “fisicamente”, ed è creato dall’elettronica di lettura.

08-27 MCP: readout a singolo anodo (Position Sensitive Detector)

08-28 MCP: readout a multi anodo discreto (il Multi-Anode Microchannel Array: MAMA) (I) Questa geometria dell’array di anodi consente di determinare solo una coordinata spaziale dell’evento. Per avere l’immagine bidimensionale bisogna replicare questa geometria su un layer diverso posto perpendicolare. Bisogna fare in modo che entrambi i layers raccolgano una carica equivalente, per avere la stessa sensibilità di rivelazione lungo le due direzioni.

08-29 MCP: readout a multi anodo discreto (il Multi-Anode Microchannel Array: MAMA) (II) Si può dimostrare che con questa geometria dell’array di anodi a  b pixel lineari possono essere definiti univocamente usando un totale di a+b elettrodi. Quindi per un rivelatore bidimensionale, ad esempio, di 1024  256 pixel [=(32  32)  (16  16)] sono sufficienti 96 elettrodi (e relativi amplificatori).

08-30 MCP: readout a multi anodo continuo (sistemi a divisione di carica) Wedge and Strip Anode (3 anodi)

08-31 MCP: readout a multi anodo continuo (sistemi a linea di ritardo: Double Delay Line) Si determina la posizione dell’evento per mezzo della differenza tra i tempi di arrivo del segnale alle due estremità di una linea di ritardo. Il tempo tipico di attraversamento di queste linee è  50 ns: siccome utilizzando elettronica commerciale si hanno errori dell’ordine della decina di ps per segnali di alcuni pC, si possono avere diverse migliaia di elementi risolutivi (pixel).

08-32 Modello di laboratorio di un rivelatore a MCP-DL 32

08-33 MCP: readout a multi anodo continuo (sistemi a linea di ritardo: Crossed Delay Line)

08-34 MCP: readout a multi anodo continuo (sistemi a linea di ritardo: Helical Double Delay Line)

08-35 Il rivelatore di FUSE

08-36 Illuminazione uniforme su un rivelatore di FUSE In questa immagine ad alto contrasto (alta illuminazione uniforme) di una piccola porzione di uno dei rivelatori di FUSE si può osservare il pattern esagonale (chicken wire) dovuto alla giunzione tra le fibre. I bordi sono più brillanti rispetto al centro di circa il 20%; la larghezza degli esagoni è di circa 100 pixel (~600  m). Si possono anche osservare alcune zone “cieche” e un problema di lettura su una riga del rivelatore.