Il nuovo dialogo in volgare Dagli Asolani al Galateo
Il ritorno del tema amoroso «La rinascita del platonismo a Firenze aveva ridato all’amore una legittimità ed una funzione nella vita spirituale dell’uomo e alla letteratura amorosa, al dibattito sull’amore, una serietà e importanza (…) Grazie alla speculazione ficiniana, l’amore greco di Platone veniva a dar la mano all’amore dei moderni poeti toscani: Cavalcanti e Dante, il Dante della Vita Nova e del Convivio e delle rime, e il Petrarca anche, riacquistavano una dignità di materia se non di lingua, non inferiore a quella dei classici. (…)Per contro nelle corti (…)e nella società cortese d’altre regioni d’Italia, a dispetto d’ogni teoria e pregiudizio, la pratica della letteratura amorosa in volgare acquistava ogni giorno maggior favore.» C. Dionisotti, Introduzione a «Prose» e «Rime», 1960
Gli Asolani di Pietro Bembo Scritto tra il 1497 e il 1502, in gran parte nella corte estense a Ferrara, è stampato da Aldo nel 1505 Il dialogo, in tre giornate, si svolge nel giardino della regina di Cipro, ad Asolo, unica corte riconosciuta nel territorio della Repubblica Veneta. Nel primo libro Perottino, l’amante infelice, sostiene la tesi anti-amorosa degli umanisti; nel secondo Gismondo, l’amante felice, lo difende; nel terzo Lavinello sostiene l’amor platonico e l’eremita l’amore per Dio, in un percorso ascendente, con inserzione di rime petrarchesche. Un esperimento di ricerca di un volgare per la prosa che molto deve al pluristilismo di Boccaccio.
La proposta di una nuova lingua La stampa degli Asolani produce scalpore: per l’oggetto trattato e per la lingua toscana usata: «La ricchezza vera della lingua era per Bembo nella sua purezza antica. (…) poteva apparire una concessione all’uso (…) si rivelava in effetti altra cosa: la proposta di un linguaggio non meno difficile (…) del latino umanistico. E, come il latino, questo linguaggio, toscano per una tradizione letteraria ormai comune all’Italia, non perché toscano fosse lo scrittore, si offriva come strumento di alta conversazione intellettuale a uomini e donne d’ogni parte d’Italia. (…) l’umanista, il veneziano Bembo accettava la tradizione nazionalistica medicea, che rivendicava come propria di Firenze e della Toscana, la lingua che Dante Petrarca e Boccaccio avevano con le loro opere imposto alla cultura di tutta Italia.» C. Dionisotti
Una scelta difficile: Bembo va ad Urbino Per la classe dirigente di Venezia, cui Bembo apparteneva, erano scelte inaccettabili: Bembo avrebbe dovuto impegnarsi nello Stato, servirne gli interessi, esserne ambasciatore. Negli studi, poi, avrebbe dovuto continuare nella tradizione umanistica di E. Barbaro. Nel 1506 va ad Urbino, scegliendo così ormai un’altra strada. Era una sede sicura e neutra, protetta da Giulio II, ma fuori dalle guerre di lui. C’erano intellettuali di rilievo, il fiore della cultura cortigiana: Castiglione e Cesare Gonzaga da Mantova, Ludovico di Canossa da Verona, Ottaviano e Federico Fregoso da Genova, Giuliano de’Medici e il Bibbiena da Firenze: era in piccolo l’Italia, ‘un piccolo parlamento’ di uomini diversi che rappresentavano l’Italia umanistica e cavalleresca.
Lo sviluppo di una concezione sistematica Nel 1512, dopo anni di studi umanistici latini e alcune prove poetiche in volgare, si trasferisce a Roma. 1512-13 risposta polemica a Giovanni Pico: l’epistola De imitatione riprende la polemica Poliziano/Cortese e propone il ciceronianesimo, la scelta linguistica e stilistica di fare tesoro della tradizione più alta e di inserirsi in essa. Cicerone per la prosa e Virgilio per la poesia eroica sono i modelli più alti, portano ad una cristallizzazione del latino. L’uso del volgare guadagnava spazio e comuni restavano però i criteri di giudizio e i procedimenti retorici dell’imitazione. 1513 Giovanni de’Medici viene eletto papa Leone X e sceglie Bembo tra i suoi segretari.
Prose della volgar lingua 1525 Ambientato a Venezia, si svolge in tre giornate a casa di Carlo, fratello dell’autore, morto nel 1503: la collocazione è al tempo della scrittura degli Asolani. I libro: si può usare il volgare come lingua letteraria o solo il latino? II libro: si esamina la proposta di Bembo attraverso il paragone tra la lingua di Petrarca e quella di Dante, ma si esamina anche Boccaccio. III libro: una nuova grammatica della lingua volgare potrà dare anche ad esso la regolarità e l’uniformità che caratterizzano il latino Personaggi: Carlo Bembo, alter ego; Giuliano de’Medici difende la tesi del fiorentino contemporaneo; Federico Fregoso illustra la tradizione volgare; Ercole Strozzi, poeta latino, avanza le ragioni umanistiche.
lingua e tradizione scritta Se Strozzi pone il problema della molteplicità dei volgari italiani, Carlo Bembo espone la tesi del Calmeta di una lingua cortigiana, parlata alla corte di Roma, che le contempli tutte in modo che «niuna se ne può dolere». A lui il Magnifico oppone un’obiezione forte: «questo favellare tuttavia non è lingua, perciò che non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore. (…) Perciò che se io volessi dire che la fiorentina lingua più regolata si vede essere, più vaga più pura che la provenzale, i miei due Toschi vi porrei dinnanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza più, (..) i quali due tale fatta l’hanno (..) Il Calmeta quale auttore ci recherà per dimostrarci che la sua lingua (..) sia da preporre alla mia? Sicuramente non niuno, che di nessuno si sa che nella cortigiana lingua scritto abbia infino a questo giorno.»
Canoni e modelli: la lingua fiorentina L’esame della lingua fiorentina della tradizione ne rivela la qualità: l’uso l’ha resa regolare, uniforme e duttile. Carlo Bembo la dichiara superiore a tutte le altre e Fregoso conviene: «il che si può credere ancora per questo, che non solamente i viniziani compositori di rime con la fiorentina lingua scrivono, se letti vogliono essere dalle genti, ma tutti gli altri italiani ancora.(…) Perché voi vi potete tener per contento, Giuliano, al quale ha fatto il cielo natìo e proprio quel parlare, che gli altri Italiani uomini per elezione seguono, et è loro istrano.» Ma Carlo: «viemmi talora in opinione di credere, che l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio.»
Le ragioni di un grande successo Per scegliere il volgare come lingua letteraria in una cultura sofisticata non bastava celebrarne la ‘naturalità’, bisognava mostrarne l’‘arte’. Escludere la contaminazione col latino e opporsi allo sperimentalismo del fiorentino contemporaneo. Non basarsi su una ipotetica collaborazione dei colti nell’ambito della corte romana, base troppo fragile ed eterogenea. «proprio perché l’Italia era politicamente in crisi, urgeva che il patrimonio comune della sua cultura, della sua tradizione linguistica e letteraria fosse rinsaldato e messo al riparo: urgeva che gli Italiani avessero una lingua indipendente, così dal frazionamento dialettale e politico come dalla preponderanza straniera.»
Moltitudine vs esperti L’unità linguistica toscana si impose non tanto per le virtù naturali del linguaggio toscano ma per la sua nobile tradizione letteraria, di Dante, Petrarca e Boccaccio che andavano esaminati e studiati come era stato fatto per i classici, superandone la lettura immediata di gusto. La volgar lingua dei toscani era cosa che andava al di là di essi. «Non è la moltitudine Giuliano, che alle composizioni d’alcun secolo dona grido e autorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de’quali, perciò che sono essi più dotti degli altri reputati, (…) E i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitudine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a’dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere quanto egli scrive bene; ché del popolo non fanno caso.»