Un dramma in cinque atti: LA PASSIONE DI MATTEO Un dramma in cinque atti: La preparazione della Pasqua (26,1-19) La cena coi Dodici (26,20-35) La preghiera al Getsemani (26,36-46) Dall’arresto alla morte di Giuda (26,47-27,10) Dalla condanna a morte alla sepoltura (27,11-66)
Diversamente dalle passioni degli altri vangeli, di fronte a quella di Matteo lo spettatore è ancora più colpito dalla ricchezza delle immagini, e, se possibile, dalla loro più grave drammaticità. Sono molte le caratteristiche che distinguono il racconto matteano della passione da quello degli altri vangeli. Sul piano dei contenuti narrati, in particolare, vanno ricordati: Il suicidio di Giuda
Alcuni elementi del confronto tra Gesù e Barabba Il lavaggio delle mani di Pilato, con la nota frase “il suo sangue ricada su di noi…”, Mt 27,25.
I segni che seguono immediatamente la morte del Messia, come la risurrezione dei corpi di molti santi. Tutte queste parti rivestono, nella storia della passione di Matteo, un ruolo molto importante che contribuisce non poco a delineare il pensiero teologico e cristologico del primo evangelista.
Inoltre Matteo conferisce a tutto il suo racconto un tono di un colore caratteristico, che egli ha saputo preparare e che esprime la sua sensibilità, la sua origine, la sua cultura. Questa tonalità e il carattere che contraddistingue solo la passione di Matteo e non ce la fa confondere con le altre, sono dati dalla presenza di un elemento chiave nel tessuto testuale: IL SANGUE.
Il sangue dell’alleanza versato per molti per il perdono dei peccati 20 Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. 21 Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». 22 Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». 23 Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. 24 Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». 25 Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l'hai detto». 26 Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, detta la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». 27 Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, 28 perché questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. 29 Io vi dico che d'ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio». 30 Dopo ave cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Il racconto dell’ultima cena è articolato in due momenti fondamentali: L’annuncio del tradimento di Giuda (Mt 26,20-26) L’istituzione dell’eucaristia (Mt 26,26-29)
Giuda, che si è già organizzato per vendere il messia, non è una marionetta manovrata, e per questo Gesù tenta per l’ultima volta di fargli cambiare idea, rivolgendogli – indirettamente, in una formula che vale non solo per lui, ma per tutti – quell’ammonimento, nello stile dei guai (cf. v. 24), che già aveva fatto ai farisei (cf. 23,1-36). Quanto valeva per loro – la preoccupazione perché cambiassero atteggiamento – vale ancor più per uno dei Dodici.
Mettendo in bocca a Giuda la parola “Rabbi” (normalmente usata nel primo vangelo dagli avversari di Gesù), Matteo vuol dire che Giuda parla come i nemici di Gesù, senza scorgere la reale identità del suo maestro. Questa cecità non è soltanto la conseguenza dell’ingordigia, ma anche di una fede frantumata.
L’originalità del vangelo di Matteo emerge meglio se si mettono al centro di questa scena le parole di Gesù sul calice. A guardar bene, infatti, il sangue dell’alleanza si trova al centro dei vv. 26-30: il v. 26 (“detta la benedizione”) corrisponde al v. 30 (“dopo aver cantato un inno”); il v. 27 (“il calice che devono bere tutti”) corrisponde al v. 29 (il non bere più del frutto della vite), e dunque al centro rimane il v. 28 con le sue parole sul calice e sull’alleanza.
26 Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, detta la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». 30 Dopo ave cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 29 Io vi dico che d'ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio». 27 Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, 28 perché questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati.
Torna qui uno dei temi fondamentali del primo vangelo: il perdono dei peccati. Matteo è l’unico evangelista ad associare, nella formula di 26,28, il versamento del sangue alla remissione dei peccati. Viene qui spiegato il significato del nome di Gesù a cui Matteo aveva alluso in 1,21 (“egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”), e col quale il lettore aveva appreso un’informazione fondamentale: quel nome ha qualcosa a che fare con il peccato del popolo
Solo con le parole sul calice, e ciò a cui esse preludono – ovvero la passione del giusto – il lettore avrà finalmente chiaro tutto il quadro: la liberazione dai peccati avrà luogo non con gesti o parole, qualcosa insomma di estrinseco a Gesù, ma con il dono della vita stessa del Messia. La morte di Gesù è per la salvezza dei peccatori e, in Matteo, ha un significato chiaramente espiatorio, non solo per il popolo ebraico, ma per l’intera umanità.