Contro Hegel nel suo tempo La filosofia di Artur Schopenhauer
Dai biografici e opere dell’autore 1788- 1860 – Nacque a Danzica da famiglia facoltosa, viaggiò largamente per tutta l’Europa e, dopo la morte per suicidio del padre, si trasferì giovanissimo a Weimar con la madre. Qui frequentò Goethe dal quale trasse più tardi la dottrina dei colori. Studiò medicina a Gottinga, si laureò quindi in filosofia (essendo le due facoltà abbinate) con la tesi La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente nel 1813. Nel 1819 pubblicava per la prima volta Il mondo come volontà e rappresentazione, sua opera principale. L’anno successivo presentò tale opera per l’esame di libera docenza. L’esercizio alla libera docenza non fu possibile all’università di Berlino, a causa dei contrasti con Hegel. Il filosofo idealista già in fase d’esame di libera docenza contrastò la filosofia di Schopenhauer, cosa che gli causò non pochi problemi al nostro autore in ambiente universitario. Schopenhauer infatti teneva lezioni e corsi in contemporanea con il grande filosofo Hegel, considerato in quel tempo una vera e propria autorità filosofica. Solo dopo la morte di Hegel arriverà il successo e non prima del 1833. Dopo il ritiro dalla libera docenza universitaria, verso la fine della sua vita, Schopenhauer vide il successo della sua grande opera nella pubblicazione del 1859.
Temi principali del pensiero Critica all’hegelismo e ritorno al kantismo. Irrazionalismo e ritorno ad alcuni principi della filosofia empirista, a Leibniz e al «gran principio» e per certi versi allo stesso Cartesio, padre delle premesse filosofiche moderne. Diversamente da Kant, Schopenhauer dice che il «fenomeno» è «apparenza» di una realtà più profonda e che non può essere conosciuta solo in maniera scientifico-razionale, questa realtà-apparenza è la «volontà». La «volontà» è il vero «noumeno» e l’uomo non riesce a coglierla con la ragione, ma solo nelle apparenze delle cose empiriche che sono condizionate dallo spazio e dal tempo. Quel che ci «appare» è appunto «il mondo come rappresentazione».
Echi delle letture esoteriche Dottrina del velo di Maia… È una dottrina buddista: il velo di Maia nasconde la realtà mediante la frammentaria differenziazione della realtà una e indifferenziata. Il saggio è colui che strappa il «velo» e giunge alla conoscenza della «cosa in sé». Ma la «volontà» genera anche il «dolore», che è una categoria della realtà che deve essere contrastato ma che non può essere distrutto, poiché appartiene al vivere. Schopenhauer a questo proposito sfocia in una progressiva distruzione della «volontà», ossia della vita in quanto causa del dolore. Il suo irrazionalismo «metafisico» sfocia così in un’etica negativa e pessimistica non priva di suggestione e di pathos. Il celebre critico letterario F. De Santis, tra i primi estimatori e scopritori di Schopenhauer in Italia, si occupò molto del nostro autore e fu lui a paragonare in un suo saggio (1858) il filosofo di Danzica al nostro G. Leopardi.
Il superamento della «volontà» Per Schopenhauer la «volontà» s’incarna nel nostro corpo e coincide con l’azione. Si manifesta altresì anche a livelli più bassi dell’uomo, come soggetto diveniente, conoscente, essente e agente, negli animali e persino nelle piante. Solo nell’uomo la «volontà» diventa ragione e si oggettiva nella rappresentazione, il cui grado supremo è l’idea. Riprendendo un aspetto della dottrina platonica, Schopenhauer diche che «l’arte» ha una funzione liberatrice mediante la potenza del genio. L’arte ha il potere di liberarci dal contingente e dall’apparenza, dai rapporti di causa ed effetto, e ci conduce ad una «contemplazione» dell’Idea. L’arte può liberarci persino dal «dolore», ma in maniera limitata. Il vero superamento dal dolore è di carattere «etico» e si raggiunge mediante un progressivo abbandono della volontà di vivere, mediante l’»ascesi», oltre la giustizia, oltre la compassione, si raggiunge mediante la «noluntas». La noluntas, pratica che si raggiunge mediante l’ascesi, il nirvana, o attraverso virtù cristiane, ci porta alla suprema saggezza, al «nulla» dove non si soffre e dove l’uomo «supera sé stesso». Echi di questa filosofia troveranno dei riscontri nel superuomo di Nietzsche.
Qualche considerazione sul pessimismo Schopenhauer non ha mai usato la definizione di «pessimismo» per il proprio filosofare. A giudizio di molti storici del pensiero filosofico non è pertanto «conveniente» dare simile appellativo al nostro autore. Probabilmente la celebre analisi che il filosofo fa sul «piacere» come «momentanea cessazione del dolore», ha notevolmente contribuito a fare di lui il filosofo pessimista per antonomasia: «La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia» A. Schopenhauer.
Per collegarsi ai testi e ad altre discipline Schopenhauer teorizza tre stati esistenziali il dolore: posta la Volontà quale essenza della realtà e poiché volere significa desiderare qualcosa che non si ha, lo stato di tensione continua che ne deriva genera sofferenza. il piacere: il godimento (fisico) e la gioia (psichica) è cessazione del dolore, scarico da uno stato preesistente di tensione, che ne è condizione indispensabile. la noia: subentra quando viene meno l’aculeo del desiderio o il pungolo delle preoccupazioni La concezione del piacere come cessazione del dolore era stata già sostenuta da Pietro Verri e da Leopardi. Schopenhauer, in uno scritto, cita esplicitamente Leopardi manifestando grande apprezzamento per “l’italiano che ha saputo rappresentare in maniera profonda il dolore”. Il dolore Poiché la Volontà di vivere si manifesta in tutte le cose, il dolore non riguarda solo l’uomo ma investe ogni creatura. Tutto soffre: dal fiore che appassisce all’animale ferito, dal bimbo che nasce al vecchio che muore. L’uomo, tuttavia, soffre più d’ogni altra creatura perché è dotato di maggiore consapevolezza ed è destinato a sentire in maniera più vivace e distinta il pungolo della Volontà. Fra tutti gli uomini, poi, il genio sperimenta la più acuta sofferenza: “chi aumenta il sapere moltiplica la sofferenza” (Qohelet 1, 18). Anche a questo proposito è evidente l’analogia con il pensiero leopardiano. Il poeta italiano, infatti, scriveva nel suo Zibaldone di pensieri: “Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi”. (Pensieri LXVIII). La noia Se finora si è rintracciata una sostanziale analogia fra la filosofia leopardiana e quella schopenhaueriana, le due linee di pensiero divergono a proposito della concezione della noia. Per Leopardi, infatti, la noia è prova della grandezza e della nobiltà dell’uomo, in quanto segno di sproporzione tra la nullità e l’insufficienza delle cose terrene e la grandezza del nostro desiderio. “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani: considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio…”