Storia della Filosofia II Hume 1711-1776 Storia della Filosofia II
Impressioni e idee Hume divide le percezioni della mente in due classi, che si distinguono tra loro per il grado diverso di forza e di vivacità con cui colpiscono lo spirito. Le percezioni che penetrano con maggior forza ed evidenza nella coscienza si chiamano impressioni; e sono tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, nell'atto in cui vediamo o sentiamo, amiamo o odiamo, desideriamo o vogliamo. Le immagini illanguidite di queste impressioni si chiamano idee o pensieri.
Ogni idea deriva dalla corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l'impressione. L'illimitata libertà di cui pare che goda il pensiero dell'uomo trova il suo limite invalicabile in questo principio. Hume si tiene rigidamente fedele a questo principio fondamentale da un capo all'altro della sua analisi.
Locke, pur dopo aver ammesso che l'unico oggetto della conoscenza umana è l'idea, aveva riconosciuto, al di là dell'idea, la realtà dell'io, di Dio e delle cose. Berkeley, pur negando la materia, aveva ammesso la realtà degli spiriti finiti e dello spirito infinito di Dio, realtà entrambe irriducibili alle idee. Solo Hume risolve totalmente l'intera realtà nel molteplice delle idee attuali (cioè delle impressioni sensibili e delle loro copie) e nulla ammette al di là di esse. Per spiegare la realtà del mondo e dell'io, egli non ha a sua disposizione se non le impressioni, le idee e i loro rapporti.
Ogni realtà deve per lui risolversi nei rapporti con cui si connettono tra loro le impressioni e le idee. Tale è il tentativo di Hume. Ma è un tentativo che, per il suo stesso punto di partenza, non può riuscire a fondare le realtà che esamina, ma solo a risolverle nei loro elementi originari. La conclusione scettica è inevitabile.
Hume accetta e fa sua la negazione dell'idea astratta, già operata da Berkeley. Non esistono idee astratte, cioè idee che non abbiano caratteri particolari e singoli (un triangolo che non sia né equilatero né isoscele né scaleno, un uomo che non sia questo o quell'uomo ecc.); esistono solo idee particolari assunte come segni di altre idee particolari a esse simili. Ma per spiegare la funzione del segno, cioè la possibilità di un'idea di richiamare altre idee simili, Hume ricorre a un principio di cui si servirà largamente in tutte le sue analisi: l'abitudine.
Quando abbiamo scoperto una certa somiglianza tra idee che per altri aspetti sono diverse (per esempio, tra le idee di diversi uomini e di diversi triangoli), noi adoperiamo un unico nome (uomo o triangolo) per indicarle. Si forma così in noi l'abitudine di considerare in qualche modo unite tra loro le idee designate da un unico nome; sicché il nome stesso risveglierà in noi non una sola di quelle idee, ma l'abitudine che abbiamo di considerarle assieme. La funzione puramente logica del segno concettuale, che Locke e Berkeley avevano desunta da Ockham, diventa in Hume un fatto psicologico, un'abitudine.
Il principio di associazione La facoltà di stabilire relazioni tra idee è detta, da Hume, «immaginazione». Sebbene tale facoltà operi liberamente, essa non risulta completamente affidata al caso. Questa connessione è garantita da una forza che rappresenta, per la mente, ciò che la forza di gravità rappresenta per la natura. Tale è il cosiddetto principio di associazione delle idee, che Hume descrive come «una dolce forza che comunemente s'impone, facendo che la mente venga trasportata da un'idea all'altra».
Questa «dolce forza di attrazione» opera secondo tre criteri fondamentali: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causalità. Un ritratto, per esempio, conduce naturalmente i nostri pensieri al suo originale (somiglianza); il ricordo dell'appartamento di una casa porta a discorrere degli altri appartamenti della stessa casa (contiguità); una ferita fa pensare subito al dolore che ne deriva (causa ed effetto).
Hume ritiene che l'associazione stia alla base di quelle che Locke chiama «idee complesse». Tra queste idee le più importanti sono quelle di spazio e di tempo, di causa ed effetto, di sostanza (corporea o spirituale). A tali idee noi attribuiamo consistenza e oggettività. Invece Hume si propone di mostrare come a esse non corrisponda alcuna impressione.
Tanto per cominciare, argomenta Hume, spazio e tempo non sono delle «impressioni», ma delle nostre «maniere di sentire» le impressioni, ovvero dei modi con cui le impressioni si «dispongono» dinanzi allo spirito. Ad esempio, l'idea di tempo «non deriva da un'impressione particolare mescolata ad altre, ma nasce dalla maniera complessiva con la quale le impressioni si affacciano alla mente senza essere nessuna di esse. Cinque note suonate nel flauto ci danno l'impressione e l'idea di tempo, ma il tempo non è una sesta impressione che si presenti all'udito o ad un altro senso». Parimenti destituite di oggettività sono le idee di causa ed effetto e di sostanza materiale e spirituale.
Proposizioni che concernono relazioni tra idee e proposizioni che concernono dati di fatto Come Leibniz aveva distinto le "verità di ragione" dalle "verità di fatto", Hume distingue le proposizioni che concernono relazioni tra idee (come le proposizioni matematiche) dalle proposizioni che concernono fatti (come le proposizioni delle scienze naturali). Le prime, precisa Hume, si possono scoprire «per mezzo della sola operazione del pensiero, indipendentemente da ciò che è realmente esistente in una qualsiasi parte dell'universo». Si tratta infatti di proposizioni che noi costruiamo basandoci semplicemente sul principio di non-contraddizione. Invece, le proposizioni che concernono dati di fatto non sono fondate sul principio di non-contraddizione, bensì sull'esperienza, giacché il contrario di un fatto è sempre possibile e «ogni cosa che è, può non essere». Infatti, argomenta Hume con una celebre immagine, la proposizione «il sole domani non si leverà» è una proposizione non meno intelligibile né più contraddittoria dell'altra «il sole domani si leverà».
Le proposizioni che concernono relazioni tra idee si possono scoprire «per mezzo della sola operazione del pensiero, indipendentemente da ciò che è realmente esistente in una qualsiasi parte dell'universo». Si tratta infatti di proposizioni che noi costruiamo basandoci semplicemente sul principio di non-contraddizione. Ad esempio, posta la definizione di triangolo rettangolo, ricaviamo per via puramente razionale che «il quadrato dell'ipotenusa è uguale al quadrato di due lati». Nella terminologia instaurata da Kant, tali proposizioni sono dette analitiche, in quanto il predicato è già implicitamente contenuto nel soggetto, dal quale può venir razionalmente ricavato per via di analisi. Le proposizioni che concernono relazioni tra idee hanno quindi in se stesse la loro validità: «Anche se non vi fossero, in natura, cerchi o triangoli — sentenzia Hume — le verità dimostrate da Euclide conserverebbero intatta la loro certezza e la loro evidenza».
Le proposizioni che concernono dati o «materie di fatto» (matter of fact) non sono fondate sul principio di non-contraddizione, bensì sull'esperienza, giacché il contrario di un fatto è sempre possibile e «ogni cosa che è, può non essere». Infatti, argomenta Hume con una celebre immagine, la proposizione «il sole domani non si leverà» è una proposizione non meno intelligibile né più contraddittoria dell'altra «il sole domani si leverà».
L'analisi critica del principio di causalità Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si fondano sulla relazione di causa ed effetto. La tesi fondamentale di Hume è che la relazione tra causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, cioè con il puro ragionamento, ma soltanto per esperienza. Nessuno, messo di fronte a un oggetto che per lui sia nuovo, è in grado di scoprire le sue cause e i suoi effetti prima di averli sperimentati e soltanto ragionando su di essi.
La connessione tra causa ed effetto, anche dopo che è stata scoperta per esperienza, rimane arbitraria e priva di qualsiasi necessità oggettiva. Causa ed effetto sono due fatti interamente diversi, ognuno dei quali non ha nulla in sé che richiami necessariamente l'altro. Quando vediamo una palla di biliardo che corre diritto verso l'altra, anche supponendo che nasca per caso in noi il pensiero del movimento della seconda palla come risultato del loro incontro, potremmo benissimo concepire altre possibilità differenti: per esempio, che le due palle rimangano entrambe ferme o che la prima ritorni indietro diritto o scappi da uno dei lati. Queste possibilità non possono essere escluse perché non sono contraddittorie. L'esperienza ci dice che una sola si verifica e che l'urto della prima palla mette in movimento la seconda; ma l'esperienza non ci illumina se non intorno ai fatti che abbiamo sperimentato nel passato e non ci dice nulla circa i fatti futuri.
Anche dopo che l'esperienza è stata fatta, la connessione tra la causa e l'effetto rimane arbitraria, questa connessione non potrebbe essere assunta come fondamento in nessuna previsione, in nessun ragionamento per il futuro: Il pane che prima mangiavo mi nutriva; cioè un corpo con certe qualità sensibili era dotato di segrete forze in quel tempo; ma ne segue che un altro pane debba nutrirmi pure in un altro tempo e che qualità sensibili simili debbano sempre essere accompagnate da eguali forze segrete? La conseguenza non sembra affatto necessaria. Che il corso della natura possa cambiare, che i legami causali che l'esperienza ci ha testimoniato per il passato possano non verificarsi nell'avvenire, è ipotesi che non implica alcuna contraddizione e che perciò rimane sempre possibile. Né la continua conferma che l'esperienza fa nella maggior parte dei casi delle connessioni causali muta la questione: perché questa esperienza riguarda sempre il passato, mai il futuro.
Tutto ciò che sappiamo dall'esperienza è che da cause che ci appaiono simili ci aspettiamo effetti simili. Ma appunto questa attesa non è giustificata dall'esperienza: essa è piuttosto il presupposto dell'esperienza, un presupposto ingiustificabile. Se ci fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna inferenza o conclusione. È impossibile quindi che argomenti tratti dall'esperienza possano dimostrare la rassomiglianza del passato con il futuro: tutti questi argomenti sono fondati sulla supposizione di quella rassomiglianza.
Queste considerazioni di Hume escludono che il legame tra causa ed effetto possa essere dimostrato come oggettivamente necessario, cioè come assolutamente valido. L'uomo, tuttavia, lo crede necessario e fonda su di esso l'intero corso della sua vita. La necessità di tale legame è quindi puramente soggettiva e va cercata in un principio della natura umana. Questo principio è l'abitudine (o costume): la ripetizione di un atto qualsiasi produce una disposizione a rinnovare lo stesso atto senza che intervenga il ragionamento, e questa disposizione è l'abitudine.
Quando abbiamo visto più volte congiunti due fatti o oggetti, per esempio, la fiamma e il calore, il peso e la solidità, siamo portati dall'abitudine ad aspettarci l'uno quando l'altro si mostra. È l'abitudine che guida e sorregge tutta la nostra vita quotidiana, dandoci la sicurezza che il corso della natura non muta ma si mantiene uguale e costante, onde è possibile regolarsi per il futuro. Senza l'abitudine noi saremmo interamente ignoranti di ogni questione di fatto, fuori di quelle che ci sono immediatamente presenti alla memoria o ai sensi. Non sapremmo adattare i mezzi ai fini, né impiegare i nostri poteri naturali a produrre un qualsiasi effetto. Ogni azione sarebbe finita e così pure la parte principale della speculazione.
Ma l'abitudine spiega la congiunzione che noi stabiliamo tra i fatti, non la loro connessione necessaria. Spiega perché noi crediamo alla necessità dei legami causali, non giustifica questa necessità. E veramente questa necessità è ingiustificabile. L'abitudine, come l'istinto degli animali, è una guida infallibile per la pratica della vita, ma non è un principio di giustificazione razionale o filosofico. E un principio di questo genere non c'è.
La credenza nel mondo esterno e nell'identità dell'io Ogni credenza in realtà o fatti, in quanto è il risultato di un'abitudine, è un sentimento o un istinto, non un atto di ragione. Tutta la conoscenza della realtà è così priva di necessità razionale e rientra nel dominio della probabilità, non della conoscenza scientifica. La credenza è un sentimento naturale, che non soggiace ai poteri dell'intelletto. La credenza è dovuta alla maggiore vivacità delle impressioni rispetto alle idee: il sentimento della realtà si identifica con la vivacità e l'intensità proprie delle impressioni.
Gli uomini credono abitualmente nell'esistenza di un mondo esterno, che viene anche considerato diverso ed estraneo rispetto alle impressioni che se ne hanno. Hume comincia col distinguere a questo proposito la credenza nell'esistenza continua delle cose, che è propria di tutti gli uomini e anche degli animali, e la credenza nell'esistenza esterna delle cose stesse, la quale ultima suppone la distinzione delle cose dalle impressioni sensibili.
Dalla coerenza e dalla costanza di certe impressioni, l'uomo è tratto a immaginare che esistano cose dotate di un'esistenza continua e ininterrotta e quindi tali che esisterebbero anche se ogni creatura umana fosse assente o annientata. In altri termini, la stessa coerenza e costanza di certi gruppi di impressioni ci fa dimenticare o trascurare che le nostre impressioni sono sempre interrotte e discontinue e ce le fa considerare come oggetti persistenti e stabili. In questa fase si crede che le stesse immagini dei sensi siano gli oggetti esterni.
Questa credenza che appartiene alla parte irriflessiva e afilosofica del genere umano è però presto distrutta dalla riflessione filosofica la quale insegna che ciò che si presenta alla mente è soltanto l'immagine e la percezione dell'oggetto e che i sensi sono soltanto le porte attraverso le quali queste immagini entrano, senza che ci sia mai un rapporto immediato tra l'immagine stessa e l'oggetto. La riflessione filosofica conduce così a distinguere le percezioni, soggettive, mutevoli e interrotte, dalle cose oggettive, esternamente e continuamente esistenti (sotto forma di ciò che i metafisici chiamano anche "sostanza materiale").
In verità, controbatte Hume, la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni; una realtà che sia diversa dalle percezioni ed esterna a esse non si può affermare né sulla base delle impressioni dei sensi, né sulla base del rapporto causale. La realtà esterna è dunque ingiustificabile; ma l'istinto a credere in essa è ineliminabile. È vero che neppure il dubbio filosofico intorno a tale realtà si può sradicare, ma la vita ci distoglie da questo dubbio e ci riaffida alla credenza istintiva: Scommetto, che qualunque sia in questo momento l'opinione del lettore, di qui a un'ora egli sarà convinto che esiste tanto un mondo esterno quanto un mondo interno. (Trattato, I, 4,2)
Una spiegazione analoga trova, nelle analisi di Hume, la credenza nell'unità e nell'identità dell'io. Infatti noi non abbiamo esperienza o "impressione" del nostro "io" (inteso come entità unitaria e immutabilmente identica a se stessa), ma solo dei nostri stati d'animo successivi, che fanno apparizione nella nostra coscienza come in una specie di teatro. In altri termini, ciò che noi sperimentiamo come "io" è soltanto, rigorosamente parlando, un fascio di impressioni che si susseguono nel tempo.