La Critica del Giudizio (sintesi della lezione)

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La Critica del Giudizio (sintesi della lezione) Immanuel Kant La Critica del Giudizio (sintesi della lezione)

Il problema e la struttura dell’opera Breve ricapitolazione: Kant ha costruito un sistema di pensiero che si propone di indagare le facoltà umane in tutti i loro aspetti: nel conoscere (critica della ragion pura), nell’agire (critica della ragion pratica) e nel giudicare (critica del giudizio). Questi aspetti devono armonizzarsi ed essere considerati in modo unitario per dare ragione della necessità di chiarezza di pensiero e di serenità di vita dell’animo umano. nella Critica della ragion pura emergeva una visione della realtà in termini meccanicistici (la natura dal punto di vista fenomenico appariva una struttura causale e necessaria ed è “conosciuta” dalla scienza) Nella critica della ragion pratica appare una visione della realtà in termini indeterministici e finalistici, si postulava come condizione della morale l’autonomia e la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio (un mondo “noumenico postulato dall’etica).

Il sentimento Per superare questo dualismo tra mondo della necessità e mondo della finalità, Kant nella Critica del giudizio studia la “terza facoltà” dell’attività autonoma umana, il sentimento. Il sentimento è una facoltà mediante cui l’uomo fa esperienza di quella finalità del reale che la critica della ragion pura escludeva sul piano fenomenico e la critica della ragion pratica postulava a livello noumenico. Dunque il sentimento kantiano permette nel soggetto umano l’incontro tra i due mondi ma non la conciliazione.

I giudizi L'accordo dunque tra il mondo della necessità naturale e quello della libertà Kant lo trova in quello che egli chiama facoltà del giudizio, la quale si rivela strettamente collegata con il sentimento puro. Il giudizio è secondo Kant la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale . I giudizi possono essere “determinanti” (il particolare è gia dato nell’universale già dato – così sono i giudizi della critica della ragion pura); oppure possono essere giudizi “riflettenti” (il particolare è già dato mentre l’uniersale è da ricercare).

I giudizi riflettenti Qui il termine riflettente vuole indicare che il soggetto non mette in opera il giudizio "determinante" (o giudizio sintetico a priori) con cui conosceva gli oggetti tramite l’intelletto, ma "riflette" come uno specchio la realtà interiore su quella esterna. Nei giudizi determinanti della ragion pura, conoscere significava collegare un predicato a un soggetto, ponendo ad esempio in relazione a con b; nel giudizio riflettente, invece, conoscere significa collegare a con se stessi, con l'io, attribuendo ad a una finalità o uno scopo che portiamo dentro di noi. Ciò significa che l'autore di quel collegamento ora è coinvolto nel giudizio stesso che egli dà. In questo caso la ragione non è più sottoposta alla necessità delle leggi conoscitive di causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi, e vive perciò la dimensione dell'assoluto che era preclusa invece alla pura ragione. La libertà, che nella ragion pratica era un postulato verso cui tendeva l'agire etico dell'uomo, ora non è più solo un ideale da raggiungere ma una realtà.

“Giudizio” facoltà intermedia tra intelletto e ragione, conoscenza e morale Il giudizio riflettente quindi serve: a stabilire un ponte tra il mondo naturale (necessità) e il mondo della libertà (rivelato dalla volontà morale); a dare la risposta alla domanda: qual è il fine della natura? Che senso ha il mondo che mi circonda? In tal senso il giudizio riflettente si esprime: nel giudizio estetico che può essere: soggettivo, basandosi sul sentimento del bello oggettivo, basandosi sul sentimento del sublime che si distingue a sua volta in: sublime matematico sublime dinamico nel giudizio teleologico. I giudizi riflettenti si distinguono cioè in estetici e teleologici. Estetici quando riconosciamo immediatamente la bellezza di un oggetto. Teleologici quando la bellezza obbedisce a interessi esterni, propri dell'essere umano.

I giudizi estetici Come già visto nella critica della ragion pura, anche in quest'opera Kant compie una rivoluzione copernicana: il bello non è una qualità oggettiva (propria) delle cose, non esistono oggetti belli di per sé, ma è l'uomo ad attribuire tale caratteristica agli oggetti. Il giudizio estetico basato sul sentimento del bello è quello con cui noi avvertiamo la bellezza e l'armonia di un'opera o di un paesaggio, realizzando un accordo tra l'oggetto sensibile (ciò che percepiamo e su cui "riflettiamo") e l'esigenza di libertà (ciò che noi liberamente sentiamo). Il sentimento del bello è: (cf. p. 673 del testo di Abbagnano “le 4 definizioni della bellezza” secondo qualità, quantità, relazione, modalità.) puro: non è collegato alla reale esistenza dell'oggetto rappresentato disinteressato: l'oggetto bello non deve rispondere né a fini utilitaristici né morali; universale: il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sottomesso a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come bello; necessario: evidentemente non di necessità logica, non esistono regole esplicite per il giudizio estetico. Kant dice che si tratta di " una normalità senza norma " e che anzi la stessa contemplazione degli oggetti belli è in grado di educare il gusto estetico e di portare l'uomo al riconoscimento necessario della loro bellezza. In parole più semplici l'oggetto bello creato dall'artista soddisfa le esigenze della necessità naturale, in quanto, per quanto libera sia la scelta del materiale utilizzato per l'opera d'arte, questo dovrà necessariamente rispettare le leggi fisiche, ma nello stesso tempo nell'opera l'artista esprime "liberamente" il suo ideale di bellezza e lo fa non per utilità né per ammaestramento morale.

Il sublime (cf p. 677 del testo di Abbagnano) Affine al sentimento del bello è quello del sublime. Se il bello è qualcosa che ha forma (quindi proporzione e armonia) il sublime è informe e illimitato. Il sentimento del sublime matematico è quello per il quale tutti noi di fronte a fenomeni di smisurata grandezza (lo spazio cosmico) o di smisurata potenza naturale ( sublime dinamico), proviamo, per i nostri stessi limiti, un senso d'insufficienza, di paura, timore. Ma in un secondo tempo, quando riemerge la nostra razionale volontà, questo sentimento della propria impotenza sensibile rivela per contrasto la coscienza di una potenza illimitata, di una nostra superiorità in quanto razionalità operante che trasforma in positivo il precedente sentimento negativo. Le due forme del sublime risultano dunque caratterizzate dalla dialettica di dispiacere-piacere, impotenza e potenza.

Il sublime e il bello… Cf. p. 679 del testo di Abbagnano…

Giudizio teleologico Il bello non ha di per sé nessuna concreta consistenza ma la sua essenza è in un valore simbolico. L'esistenza della bellezza è un segno per cui noi rappresentiamo nella realtà una finalità interiore di cui troviamo il senso nella nostra finalità razionale, nella nostra vita morale. È con il giudizio teleologico (dal greco teleos, "fine") che scopriamo nella natura, attraverso il bello, un fine. Il bello naturale ci fa intuire l'esistenza di un sommo "artista" simile a noi ma con una volontà enormemente superiore alla nostra che consegue attraverso il bello il suo scopo, il suo fine : il "trionfo del bene". All'umanità veniva assegnato nella Critica della ragion pratica il conseguimento del sommo bene, mentre a un'entità suprema quello del trionfo del bene. Così il mondo necessitato della natura e quello della libertà non sono più antitetici, ma esprimono una sola e medesima realtà. Nella realtà, nella storia, nella vita c'è un fine, che sfuggiva al semplice intelletto: si avrà pertanto una concezione finalistica della natura che si aggiunge a quella meccanicistica e la integra; le si aggiunge senza sconvolgerla, perché ha inizio solo là dove cessa la spiegazione meccanicistica. Kant apre qui la strada alla concezione romantica della natura come inesauribile e spontanea forza vitale dove si esprime la divinità.