I Garibaldini Giovani, volontari e sognatori

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APPUNTI DI STORIA DELLA CLASSE II A
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Transcript della presentazione:

I Garibaldini Giovani, volontari e sognatori Classe IIIB Scuola Secondaria di I grado “G. Falcone – P. Borsellino” Monterenzio (Bo) A.S. 2010 - 2011 (Immagini Museo del Risorgimento di Bologna)

L’Italia prima dell’unità: tanti Stati, tanti confini, tante dogane, tanti sovrani, a volte stranieri. I Garibaldini vogliono un’Italia unita, libera dallo straniero e dal tiranno e repubblicana.

Il generale Garibaldi Garibaldi raffigurato come Gesù Diventa per i suoi uomini il modello dell’eroe. E’ il Salvatore dell’Italia, oggetto di una forma di culto. E’ giovane, è biondo, con la barba. Ai tempi della Repubblica Romana “.. somigliava proprio al Nazareno; ricordo come le Trasteverine lo indicavano con tal nome e vidi più di una madre inginocchiarsi affinché ne benedicesse i figliuoli” (Capitano Raffaele Tosi). Garibaldi raffigurato come Gesù (Immagine Museo del Risorgimento di Bologna)

Questi sono i Garibaldini, i giovani soldati, volontari, di Garibaldi. Lasciare i propri affetti, la famiglia, gli studi, il lavoro e i propri amici. Lasciare tutto questo per andare a combattere per l’Unità d’Italia. Con due ideali fondamentali: la fratellanza e la lotta al tiranno. Questi sono i Garibaldini, i giovani soldati, volontari, di Garibaldi. (Immagine Museo del Risorgimento di Bologna) Alcuni sono poeti-soldato, combattono e scrivono poesie, romanzi, memorie. Le loro opere sono dedicate all’Italia e alle loro imprese garibaldine.

Filippo Palizzi, Garibaldini I soldati di carriera giudicavano i Garibaldini come degli scellerati, senza una educazione militare e senza disciplina, che solo il Generale poteva domare. E loro obbedivano solo a lui.

Gli ideali dei Garibaldini - Libertà della Nazione e dei singoli individui Lotta alla tirannide Il tiranno è colui che si oppone alla libertà, alla unità nazionale, che opprime gli altri uomini - Fratellanza I Garibaldini non si limitano a combattere in Italia, ma ovunque ci sia una patria da liberare, ad es. in Grecia, in Ungheria, in Sud America …. Fra le loro file ci sono Ungheresi, Polacchi, Inglesi, Americani che combattono, a fianco degli Italiani, in Italia

Al comando del giovane generale biondo… Al comando del giovane generale biondo…. Fughe da casa, arruolamenti di nascosto…. (Immagini Museo del Risorgimento Bologna) I Garibaldini hanno le loro canzoni, nelle quali esprimono il loro spirito combattivo, i loro ideali e la fedeltà al loro “mito” Garibaldi. La camicia rossa rappresenta la rottura rispetto alla vita normale, una nuova vita piena di avventure

La Fratellanza. Tanti soldati di altri paesi fra i Garibaldini Aguyar “il moro di Garibaldi”. Veniva dal Venezuela, aveva seguito Garibaldi dal Sud-America. Morì in battaglia in difesa della Repubblica Romana. (Immagini Museo del Risorgimento Bologna) Uno degli altri “mori” Garibaldini

Il Capitano Stefano Turr, Ungherese, partecipa insieme ad altri connazionali alla spedizione dei Mille John Peard, l’Inglese di Garibaldi. “Porta i suoi cinquant’anni come noi i nostri venti, fa la guerra da invaghito, tira in campo come a una caccia di tigri ed ama l’Italia”. (G.C.Abba) (Immagine Museo del Risorgimento Bologna)

I preti di Garibaldi Ugo Bassi Garibaldi fin da bambino non aveva una grande considerazione per i preti, forse perché i suoi primi insegnanti erano stati appunto dei religiosi. Per loro manifestava spesso un’accesa antipatia, sintetizzata nella sua famosa frase: “i preti alla vanga!”. Eppure per Ugo Bassi faceva un’eccezione e non perdeva mai occasione per dichiarare pubblicamente la sua ammirazione e il suo grande affetto per il suo prete garibaldino. Ugo Bassi nasce a Cento in provincia di Ferrara nel 1801, da una famiglia piuttosto umile.

Educato in un seminario Barnabita, è un ottimo allievo ed è molto portato per la poesia. Uscito dal seminario e diventato sacerdote, inizia a predicare, le sue predicazioni coinvolgevano moltissima gente e molte persone lo adoravano, altre lo consideravano un matto esaltato. Le sue predicazioni finirono per metterlo nei guai, troppo spesso faceva riferimenti politici, così la chiesa nel 1840 gli proibì di predicare.

Nel 1848 partecipò alla prima guerra di indipendenza, non combatteva ma assisteva i feriti e pregava, stava al fianco dei soldati ma non usava le armi, contro i nemici impugnava il crocefisso. Il 4 luglio 1849 Bassi è a Roma per difendere la repubblica e gli viene assegnato il plotone di Garibaldi, lui è molto felice di questa assegnazione perché considerava Garibaldi l'ideale di patriota. Partecipa con lui alla difesa della Repubblica Romana e anche alla fuga che Garibaldi è costretto a fare quando Roma è conquistata dai Francesi.

Ugo Bassi fu accusato di detenzione di armi e Livraghi di tradimento, (Immagine Museo del Risorgimento Bologna) Durante il viaggio vennero intercettati dagli Austriaci e Bassi, con il compagno Livraghi, fu catturato dagli uomini del generale Gorzkowski. I due furono poi trasferiti a Bologna a Villa Spada dove risiedeva il generale. Aspettarono la sentenza, non ci fu nessun processo; Gorzkowski usò l'accaduto per spaventare il popolo e convincerlo a non aiutare Garibaldi. Ugo Bassi fu accusato di detenzione di armi e Livraghi di tradimento, visto che era un suddito austriaco. Vennero fucilati l'8 Agosto del1849 in via Certosa sotto il portico del cimitero. Un data che non fu scelta a caso: era passato esattamente un anno da quando il popolo di Bologna, nella gloriosa battaglia dell’8 agosto, aveva cacciato gli Austriaci dalla città.

I preti di Garibaldi Quelli dei Mille Padre Pasquale Fra Pantaleo Predica a Napoli, a favore di Garibaldi. Il Garibaldino Alberto Mario, nelle sue Memorie, racconta una sua predica: San Gennaro, prima del martirio, chiamò a sé il suo unico figlio e gli disse di fuggire verso la Liguria. Là avrebbe trovato la salvezza e dai figli dei suoi figli sarebbe nato un figlio maschio con i capelli come i raggi del sole, con la faccia di leone, di nome Zibeppe, riconoscibile dalla camicia rossa intinta nel sangue del Santo. Zibeppe sarebbe tornato nella terra dei suoi padri come vendicatore, mettendo in fuga i tiranni e portando al popolo libertà e maccaroni. (Alberto Mario, Camicia Rossa) “Il nuovo Ugo Bassi”, fugge dal monastero in Sicilia e segue Garibaldi nella spedizione dei Mille armato di crocefisso e di spada.

Dopo l’Unità d’Italia molti Garibaldini non riescono ad adattarsi ad una vita normale. Combattono ancora nel 1897 a fianco dei Greci per la liberazione di Creta dai Turchi. Alcuni di loro, invece, partono per l’America e combattono nella guerra di secessione a fianco dei nordisti per abolire la schiavitù. (Immagine Museo del Risorgimento Bologna)

(Immagine Museo del Risorgimento Bologna) Altri, ormai molto anziani, si arruolano come volontari nella I Guerra Mondiale. Tutti vorranno essere sepolti indossando la camicia rossa.

Le donne del Risorgimento E le donne? Anche loro hanno partecipato a grandi imprese, c’erano durante la Repubblica Romana e durante la spedizione dei Mille. Donne coraggiose e moderne. Ma di loro si parla sempre poco. Noi abbiamo cercato di ridare loro la voce con le nostre interviste impossibili.

Jessie White Mario Alberto Mario

Si presenti Signora White Sono Jessie White, nata in Inghilterra nel 1832. La mia famiglia era ricca e borghese, ma io sono cresciuta molto ribelle. Mi piaceva studiare, ero attratta dalla filosofia, inizialmente ho frequentato la scuola di Birmingham, poi sono andata all’università di Parigi, alla Sorbona. Lì ho cominciato a frequentare gli studenti liberali, appassionati di politica. E’ a Parigi che ha conosciuto Garibaldi? Sì, mi fu presentato da una comune amica. Sono rimasta folgorata. Non l’ho più abbandonato, l’ho seguito in ogni sua spedizione. E come ha conosciuto Mazzini? Due anni dopo, a Londra. Da quel momento in poi mi sono dedicata alla causa dell'unità d'Italia, cominciando dalle raccolte fondi per finanziare i patrioti italiani fino ad arrivare a scrivere su giornali inglesi a favore dell’unità d’Italia. In Italia è stata anche in prigione Sì, sono stata in carcere a Genova per 4 mesi. Una terribile esperienza, ma anche la più bella della mia vita. In carcere ho conosciuto Alberto Mario, un giovane patriota veneto. Appena siamo stati scarcerati, ci siamo sposati. Il ritratto che avete visto a fianco del mio non gli rende giustizia, quando ci incontrammo era un giovane bellissimo, uno splendido garibaldino. L’ha seguito anche durante la spedizione dei Mille in Sicilia? Certo, da quel momento non l’ho più lasciato. E dopo l’Unità d’Italia, cosa ha fatto? Ho fatto il mio lavoro di giornalista, ho dedicato le mie inchieste all’Italia, il mio paese d’adozione. Ho scritto sulla salute dei minatori nelle miniere siciliane, sulle tristi condizioni di vita dei poveri di Napoli, ho denunciato lo sfruttamento minorile... Volevo che la nuova Italia diventasse un paese migliore.

Peppa la Cannoniera

Si presenti Signora Calcagno Nessuno mi ha mai chiamato signora. Noi lo faremo. Si presenti signora. Sono Giuseppa Calcagno, nata in provincia di Messina. Nessuno conosce con precisione la mia data di nascita, neppure io. Non so neanche chi erano i miei veri genitori, sono stata allevata da Maria Calcagno, di professione “nutrice dei trovatelli”. Che significa “di professione nutrice dei trovatelli”? Ai miei tempi i neonati abbandonati venivano affidati a donne del popolo, di solito molto povere, che in cambio di poco denaro li allattavano insieme ai propri figli. Sono stata molto povera, ho lavorato come serva di un oste e come aiutante in una stalla. Di lei abbiamo trovato solo notizie contrastanti. Alcune fonti dicono che lei era una donna molto bella, altre che fosse (mi scusi il termine) bruttissima. Di certo non aveva una buona reputazione. Bella o brutta non sta a me dirlo. Per quanto riguarda la reputazione, la gente mi criticava per via di Vanni, il mio uomo. Era molto, molto più giovane di me e non ci siamo mai sposati. Purtroppo è morto quando in Sicilia arrivò Garibaldi. La sua grande impresa si è svolta durante la spedizione dei Mille in Sicilia Ho partecipato all’insurrezione di Catania nel maggio 1860, quando i Garibaldini arrivarono in Sicilia, sono salita sulle barricate e ho combattuto, proprio come un uomo. L’esercito borbonico ci sparava addosso con il cannone, io sono andata a prenderlo e sono riuscita a portarglielo via. Poi l’ho girato e l’ho usato per sparare contro i nemici che mi inseguivano. Per questo sono stata ribattezzata “Peppa la cannoniera” o, in dialetto siciliano, “Peppa Sparacannuni”. Vanni è morto durante quella battaglia. Tutti si sono meravigliati del suo coraggio Dopo la morte di Vanni, mi restava solo Garibaldi. Così l’ho seguito e con le sue camicie rosse ho conquistato anche Siracusa. Alla fine mi hanno premiata con una medaglia al valore militare, come quelle che ai miei tempi ricevevano solo gli uomini. Una bella soddisfazione per una serva

Cristina Trivulzio Belgioioso

Si presenti Principessa Sono Cristina Trivulzio principessa di Belgioso, sono nata a Milano nel 1808. Nel ritratto, dipinto dal grande pittore Hayez, mi potete vedere ancora giovane e bella. Si è sposata molto giovane Sì, a 16 anno ho conosciuto il principe Emilio Barbiano di Belgioioso. Un uomo molto bello, il più inguaribile dongiovanni di Milano. L’ho sposato, ma lui mi tradiva in continuazione. L’ho lasciato dopo quattro anni e sono fuggita da sola a Parigi. A Parigi ha cominciato a frequentare i salotti e le feste. Di lei si diceva che era ricca, giovane e bella, ma anche vanitosa e molto frivola. Molti mi giudicavano così, ma ho anche fatto del bene: nel mio salotto di Parigi si parlava di politica e dell’Italia, io ho protetto i patrioti italiani in fuga, ho amato così tanto il mio paese da finanziare la causa italiana con tutti i miei soldi e durante la Repubblica romana ho lavorato negli ospedali, dove venivano curati i patrioti feriti. Si è presa cura anche delle persone più sfortunate Sono una Principessa e possedevo molte terre. Nelle mie proprietà ho fondato asili per i figli dei contadini, scuole elementari e professionali, anche femminili. Ho fondato persino un giornale, “La gazzetta italiana”, dove ho scritto articoli sulla condizione delle donne italiane del mio tempo e sul loro avvenire. Perché un giorno le donne potranno fare tutto quello che fanno gli uomini e anche di più, senza essere giudicate.

Margaret Fuller

Si può presentare signora Fuller Si può presentare signora Fuller. Lei è famosa come la prima femminista americana e patriota della Repubblica Romana. Sono nata negli Stati Uniti nel 1810 in una famiglia molto influente, mio padre era un avvocato importante e un uomo politico conosciuto, ma con lui ho avuto ben presto dei contrasti. Già da giovane mi ribellavo all’autorità degli uomini e al fatto che le donne dovessero rassegnarsi ad essere cittadine di seconda classe. Ci può parlare dei suoi studi? Ho frequentato una scuola femminile perché i sessi erano rigidamente separati nell’istruzione dell’ottocento. Ho studiato da sola le lingue contemporanee. Ha cominciato a lavorare molto giovane. Sì certo, non ho mai capito perché le donne non dovessero lavorare. Volevo la mia indipendenza, anche economica, e diventare giornalista, così mi sono trasferita a Boston e ho collaborato con varie riviste scrivendo articoli e saggi. Ci può parlare dei suoi articoli e dei suoi libri? Per le mie inchieste sono stata in luoghi di solito non considerati adatti a donne come prigioni e manicomi. Sono stata una convinta sostenitrice della causa per abolire la schiavitù e per estendere il diritto di voto alle donne. Come è arrivata in Italia? Sono stata mandata in Europa come corrispondente all’estero del mio giornale, all’inizio a Londra dove ho conosciuto Mazzini che mi ha fatto conoscere la causa dell’indipendenza italiana. Nel 1847 a Milano ho conosciuto Manzoni, ma l’incontro che ha cambiato la mia vita è stato quello a Roma con il patriota Giovanni Angelo Ossoli, più giovane di me di 10 anni e appartenente ad una famiglia romana di nobili origini. Ci siamo follemente innamorati e la nostra relazione è stata considerata scandalosa al tempo, anche perché non ci siamo sposati e abbiamo avuto un figlio. Come è stata coinvolta negli eventi della Repubblica Romana? Mio marito Ossoli ha combattuto in difesa della Repubblica, mentre io insieme alla mia amica Cristina Trivulzio Belgioioso ho organizzato i servizi ospedalieri per curare i patrioti feriti. Dopo la sconfitta, io e mio marito ci siamo rifugiati a Firenze, dove ho iniziato un libro sull’esperienza rivoluzionaria della Repubblica romana. Avevamo pochi soldi ed eravamo ricercati. Abbiamo quindi deciso di tornare negli Stati Uniti. E com’è stata la sua vita al ritorno negli Stati Uniti? Purtroppo non c’è stata una vita negli Stati Uniti . . . durante il viaggio di ritorno a poca distanza dal porto di New York, il piroscafo è affondato e tutta la mia famiglia è affogata. I nostri corpi non sono mai stati trovati.

Anita Garibaldi Foto Museo del Risorgimento di Bologna

La nostra ultima ospite non ha bisogno di presentazioni, ma noi vogliamo sapere qualcosa in più dalle sue parole Sono Ana Maria De Jesus Riberio, sono nata in Brasile nel 1821 in una famiglia di mandriani, piuttosto povera, con sei figli. Alla morte di mio padre, mia madre mi ha dato in sposa a un vecchio calzolaio benestante del mio paese. E’ stato un matrimonio di interesse, io avevo solo 14 anni. Dunque, quando conosce Garibaldi lei era già sposata? Nel 1839 incontrai il mio Josè, io l’ho sempre chiamato così, avevo appena compiuto i 18 anni. Garibaldi era un marinaio biondo dagli occhi azzurri venuto dall’Italia. Sapeva navigare, ma non montare a cavallo. Glielo ho insegnato io, da me ha imparato a cavalcare, come un perfetto mandriano. Da lui io ho imparato a combattere. Con lui ho lasciato la mia casa e ho partecipato a tutte le battaglie in Sud America con le armi in pugno. Quando vi siete sposati? Ci sposammo nel 1842 in Uruguay, quando arrivò la notizia della morte del mio primo marito. Il nostro primo figlio era già nato, Josè aveva voluto chiamarlo Menotti, a ricordo di un grande patriota italiano impiccato a Modena. Poi nacquero altri tre figli. Di lei si dice che era molto gelosa, è così? La nostra vita nell’America del Sud è stata piuttosto movimentata, fra battaglie contro l’esercito imperiale, fughe e liti furibonde: io infatti sono una donna piuttosto passionale. Ma Josè era molto bello, con i suoi lunghi capelli biondi, ed io avevo molte rivali fra le donne di Montevideo. E una volta arrivati in Italia cosa è accaduto? Nel 1847 siamo salpati alla volta dell’Italia, tutta la famiglia con alcuni compagni fidati. Josè ha preso parte alla I guerra di Indipendenza e ha sistemato me i bambini a Nizza, presso l’amata madre Rosa. Ma una vita tranquilla e noiosa accanto alla suocera mi andava stretta. Così sono fuggita lasciando i figli con Rosa. Più volte Garibaldi mi ha rispedito a Nizza, ma io non mi sono mai rassegnata e, alla fine, l’ho raggiunto a Roma, dove Garibaldi era a capo della difesa della Repubblica romana. La fine purtroppo è nota Quando la difesa della città si rivelò disperata, abbandonammo Roma insieme a tremila garibaldini. Io ero con lui. Attraversammo l’Italia centrale a cavallo inseguiti dai nemici. Io stavo male, aspettavo il nostro quinto figlio, ma non volli fermarmi. Sono morta durante la fuga, nelle Valli di Comacchio, dopo undici anni passati al fianco di Garibaldi.

Dipingere il Risorgimento Nei quadri dei pittori del Risorgimento ci sono moltissimi sentimenti: esaltazione patriottica ma anche dolore, tristezza, ingenuità, e voglia di vivere.

La battaglia si vede lontana, attraverso il fumo dell’artiglieria G. Fattori La battaglia di Magenta Non è una rappresentazione del momento del combattimento, come solitamente si vedeva nei quadri di guerra, ma ci si concentra sul sentimento di partecipazione umana, non c’è distinzione fra vincitori e vinti. L’occhio dell’osservatore è attratto subito dal cappello bianco delle suore che soccorrono i feriti Protagonisti in primo piano: i soldati sofferenti

Gerolamo Induno, La partenza dei coscritti Nei quadri di guerra entra lo spirito di battaglia visto attraverso la dimensione intima delle scene famigliari. In questo dipinto viene fermato l’attimo in cui il giovane soldato lascia la moglie e il figlio. La triste scena è però bilanciata dal simbolo del vero motivo di tanto dolore : la bandiera italiana che simbolicamente abbraccia le tre figure e sembra giustificare e rendere necessario l’addio. “Addio, mia bella addio, che l’armata se ne va e se non partissi anch’io sarebbe una viltà…”

Questa allegoria dell’Italia diviene il simbolo della patria ferita: non più l’Italia fiera con la corona ma una fanciulla triste e pensierosa, quasi arresa. Volutamente Hayez la ritrae così per sottolineare l’umiliazione subita, ma il seno scoperto è anche il simbolo della Patria che nutre le future generazioni, tutti fratelli uniti da ideali di indipendenza e libertà, e dall’entusiasmo che dovrà guidare le loro azioni. Tra le mani stringe il crocifisso con incise le date delle cinque giornate di Milano, simbolo universale del sacrificio e segno di grande tristezza per la Patria non ancora unita.

La donna assomiglia alle figure femminili dipinte da Raffaello L’artista toscano Edoardo Borrani, volontario durante la guerra d’indipendenza, al rientro a Firenze si dedicò alla pittura e soprattutto allo studio della luce. Questo dipinto può sembrare semplice, ma i pochi elementi che lo compongono sono ricchi di grande significato storico ed artistico. Il pittore vuole sottolineare il contributo di Firenze e della Toscana alla cultura della nazione nascente. E’ una scena intima, dove la luce che entra dalla finestra definisce la figura della donna ed accende i colori della bandiera che sta cucendo, a sottolineare la speranza di una unificazione alla quale le donne, pur con ruoli diversi da quelli maschili, stavano attivamente contribuendo. . La donna assomiglia alle figure femminili dipinte da Raffaello La sedia, in stile rinascimentale, e l’alabarda simboleggiano il prestigio della pittura toscana

G. Fattori, Lo staffato Questo dipinto di Giovanni Fattori, uno dei più grandi esponenti della corrente dei Macchiaioli, può essere considerato il simbolo della lunga lotta per l’Italia unificata. Nella sua potente e suggestiva comunicazione, ci mostra “uno staffato” cioè un combattente che cade disarcionato da cavallo. Non sappiamo chi sia, non si vede neppure il volto. Il suo corpo lascia nella polvere una striscia di sangue.

militari distrutti. La cosa più importante da notare è che non c’è distinzione tra vincitori e vinti: l’occhio dell’osservatore è attratto dal bianco candido del cappello della suora e dalla divisa dell’ufficiale austriaco morente, e porta a riflettere sui destini individual Abbiamo scelto il dipinto di Fattori a chiusura del nostro lavoro perché questo soldato senza volto è il simbolo dell’eroismo estremo di tutti coloro che sono caduti per l’Italia, uno ad uno protagonisti e tutti uniti in questa solitudine; il cavallo procede di corsa verso l’orizzonte, forse a sottolineare la rapidità degli eventi storici che lasciano dietro di loro tanti eroi spesso sconosciuti.

Hanno realizzato questo lavoro gli alunni della classe IIIB (a. s Con la supervisione della Prof. Caterina Taglioni per la parte storica, della Prof. Laura Bergamaschi per la sezione dedicata alla storia dell’arte, del Prof. Prono per le biografie di Jessie White e Margaret Fuller. Un grazie particolare alla Prof. Piera Di Rella che ci ha aiutato a trovare in rete le canzoni dei patrioti. Ringraziamo infine il Museo Civico del Risorgimento di Bologna, e in particolare la dott.sa Mirtide Gavelli, per la concessione delle immagini e per tutti i suggerimenti bibliografici che ci sono stati forniti.