Le neuroscienze in ambito giudiziario: i casi italiani

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Le neuroscienze in ambito giudiziario: i casi italiani I tre casi giudiziari in cui sono state applicate le neuroscienze. Il caso di Trieste. Il caso di Como. Il caso Cogne bis.

I tre casi: la sentenza della Corte d’assise d’Appello di Trieste, 1° ottobre 2009, n. 527 Il primo caso di ricorso alle neuroscienze forense: la sentenza della Corte di Assise d’Appello di Trieste del 2009. Tale decisione presenta aspetti di estremo interesse in quanto, al fine di determinare il grado di incapacità di intendere e di volere dell’imputato, per la prima volta in Italia vengono tenuti in considerazione i risultati emersi da indagini di genetica molecolare e da tecniche neuropsicologiche.

La sentenza della Corte d’assise d’appello di Trieste, 1° ottobre 2009, n. 527 In particolare, è stato attributo valore di prova scientifica al fatto che alcuni polimorfismi genetici siano in grado di modulare la probabilità di sviluppare un determinato comportamento, mediante un effetto non diretto ma influenzato da alcune variabili ambientali. E’ stato appurato che l’esposizione ad eventi stressanti, ad esempio, può (i) potenziare l’originaria predisposizione genetica, (ii) sviluppare una malattia mentale e (iii) causare una vulnerabilità genetica che assurge a spiegazione del comportamento aggressivo. Le neuroscienze in ambito giudiziario: i casi italiani

I casi giudiziari: il caso di Triste La sentenza della Corte d‘Assise d‘Appello di Trieste e la successiva sentenza del Tribunale di Como hanno utilizzato le neuroscienze forensi e la genetica comportamentale per valutare la capacità d'intendere e volere degli imputati. La prima sentenza in ordine cronologico è quella triestina. Il caso è il seguente: l'imputato - un cittadino nordafricano - aveva ucciso a coltellate un uomo sudamericano, con il quale aveva avuto una lite alcune ore prima dell'omicidio in quanto era stato ingiuriato perché aveva gli occhi truccati con kajal, come da sua tradizione religiosa. È opportuno che il docente al termine di ogni lezione proceda con un riepilogo degli argomenti trattati e si congedi utilizzando la formula “Grazie per l’attenzione”.

I casi giudiziari: il caso di Triste Essendo emerso dalle indagini che costui, in precedenza, era stato in cura presso i servizi di salute mentale, veniva disposta dal giudice di primo grado la perizia psichiatrica, che concludeva per la totale incapacità di volere del soggetto. Esito condiviso dal consulente tecnico della difesa, ma parzialmente disàtteso dal consulente del pubblico ministero, il quale aveva ritenuto la capacità d'intendere e volere solo parzialmente scemata.

Il caso di Trieste Su impugnazione dell'imputato, veniva investita la Corte d'Assise di Appello, che, con la pronuncia in esame, ha parzialmente riformato la pregressa decisione, applicando nel massimo la riduzione di pena per difetto parziale dell'imputabilità. La corte di assise di appello ha disposto una nuova perizia psichiatrica per dirimere le discrepanze emerse tra perito e consulenti di parte in primo grado; perizia che è stata effettuata anche con l'impiego dei nuovi strumenti scientifici, quali la risonanza magnetica all'encefalo, per ricercare eventuali alterazioni alla struttura cerebrale e l'indagine genetica.

Il caso di Trieste Mentre la risonanza magnetica non ha evidenziato significativi di alterazioni, l'indagine genetica ha rìscontrato la presenza del gene MAOA nella forma attenuata. Il giudice di secondo grado ha rìtenuto particolarmente influente e rilevante, ai fini dell'applicazione della diminuente ex art. 89 c.p., la c.d. "vulnerabilità genetica" dell’imputato alla luce del suo vissuto, dell' educazione in connessione alla fede islamica nonchè della patologia psichiatrica della quale era risultato affetto.

La sentenza del Tribunale di Como La sentenza del Tribunale di Como. Nel caso di specie, come, già accennato, il giudice si è trovato di fronte tre differenti conclusioni specialistiche sullo stato mentale dell'imputata. Prima di spiegare le ragioni della sua scelta, il giudice ha chiarito il proprio ruolo: non quello di sostituirsi agli specialisti, né di aderire ad una delle tesi prospettate in modo acritico e passivo; bensì quello di utilizzare il parere degli esperti per la decisione giudiziaria «che è il prodotto di una valutazione complessiva, logica e coordinata delle emergenze psichiatriche e di quelle processuali».

La vicenda Nel 2009, a Cirimido (Como), Stefania Albertani uccise sua sorella maggiore, segregandola in casa e costringendola ad assumere psicofarmaci in dosi tali da causarne il decesso. Successivamente diede fuoco al cadavere. L’arrivo della polizia salvò la madre e portò all’arresto di Stefania. In seguito emerse un complesso disegno criminoso, per cui l’imputata è stata chiamata a rispondere del sequestro di persona e poi dell’omicidio della sorella, omicidio preceduto dalla somministrazione di benzodiazepine, che aveva indotto la vittima in uno stato di confusione mentale e di incapacità reattiva, nonché dei reati di soppressione e distruzione di cadavere, di quello di utilizzo indebito delle carte di credito, appartenenti alla sorella, e ancora di procurata incapacità di intendere e di volere del padre attraverso la somministrazione di medicinali che ne procurarono il ricovero in ospedale, di tentato omicidio di entrambi i genitori, avendo cercato di farne esplodere l’autovettura, e del tentato omicidio della madre attraverso strangolamento.

La sentenza: il vizio di mente e l’uso delle neuroscienze Il Gip di Como ha condannato Stefania a venti anni di reclusione, riconoscendole un vizio parziale di mente per la presenza di «alterazioni» in «un'area del cervello che ha la funzione» di regolare «le azioni aggressive» e, dal punto di vista genetico, di fattori «significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento». La decisione è stata supportata oltre che su accertamenti psichiatrici tradizionali, anche su analisi neuroscientifiche, che hanno rivelato la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputata. Si tratta, pertanto, di uno dei primi riconoscimenti in Italia, e fra i primi al mondo, della validità delle neuroscienze ai fini dell’accertamento dell’imputabilità.

La consulenza neuroscientifica La perizia psichiatrica aveva già riconosciuto nella donna la presenza di «un quadro psichiatrico caratterizzato dalla menzogna patologica» e di una «sindrome dissociativa». Ma il Gip di Como si è basato prevalentemente su una consulenza neuro scientifica, che era stata richiesta dalla difesa dell’imputata. In particolare, si è proceduto alla «ricostruzione del correlato anatomo funzionale della sfera psichica della paziente attraverso le indagini di imaging cerebrale e di genetica molecolare».

La consulenza neuroscientifica in tema di imputabilità Ne è emerso il riscontro di «anomalie che si traducono in un significativo aumento del rischio di sviluppare certi tipi di comportamenti». Nello specifico i periti hanno evidenziato delle «differenze nella morfologia e nel volume delle strutture cerebrali [...] alterazioni nella densità della sostanza grigia, in alcune zone chiave del cervello [...] anche nei processi che regolano la menzogna, oltre che nei processi di suggestionabilità ed autosuggestionabilità e nella regolazione delle azioni aggressive».

La consulenza neuroscientifica Infine, «sono stati, disposti accertamenti genetici per verificare se la perizianda presentasse gli alleli che, secondo la letteratura scientifica internazionale, sono significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento». L’esito positivo di tali analisi (è stata riscontrata l’esistenza nell’imputata di tre alleli sfavorevoli) ha poi portato alla decisione a favore del vizio parziale di mente.

Il caso Cogne bis: le neuroscienze per valutare l’attendibilità dell’interrogatorio dell’imputato Le neuroscienze hanno avuto applicazione anche in relazione al noto caso Cogne bis relativo, specificatamente, all’ipotesi del reato di calunnia attribuito all’imputata Anna Maria Franzoni per aver falsamente incolpato dell’omicidio del figlio un vicino di casa. Gli esiti dei test: Annamaria Franzoni davvero non ricorda di aver ucciso il figlio, in quanto l’amnesia, la "rimozione" di aver commesso un omicidio terribile, sarebbe davvero reale, operando un meccanismo psicologico che le garantisce così di sopravvivere. Il ricordo e la memoria di sé innocente è quindi autentico. A supportare il fatto che Annamaria conserva una memoria di se stessa "da innocente" sono stati anche i risultati di un test scientifico sui suoi ricordi, messo a punto anni fa negli Stati Uniti, e applicato su di lei in carcere dai due periti della difesa, docenti dell'università di Padova e di Pisa.

La tecnica dello Iat La tecnica dello "Iat" (Implicit association test) riesce a dimostrare se un ricordo è reale o fittizio. La tecnica consiste: la Franzoni è stata posizionata davanti a un computer, durante cinque sedute, davanti a lei comparivano frasi reali o meno (ad esempio "ora sono seduta" oppure "sono in aereo") alternate ad altre estratte dagli atti processuali sulla responsabilità nell'omicidio, sull'aver indossato gli zoccoli, essersi rimessa il pigiama, aver lasciato la porta aperta o chiusa, e sulla presenza dell'altro figlio in casa al momento del fatto. Doveva rispondere con il dito sinistro se "vero", con quello destro se "falso". Sulla base della velocità di reazione, elaborata da un algoritmo matematico, gli esperti avrebbero appurato che "tutti i suoi ricordi sarebbero reali", che la versione da lei sempre fornita di essere innocente sarebbe "scientificamente" quella, e l'unica, che lei effettivamente si ricorda.